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 Aggiornamento 10-nov-2023

La pagina della Green economy

 

(> vai al  sito ufficiale degli Stati Generali  della Green Economy)

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LA BASE INFORMATIVA DELLA GREEN ECONOMY

 

a cura della

 

 

IL RAPPORTO GE 2019

Ottava Relazione sullo stato della green economy

 

 

 

IL RAPPORTO GE 2018

Settima Relazione sullo stato della green economy

 

 

LA TRANSIZIONE ALLA GREEN ECONOMY

 

I RAPPORTI ANNUALI SULLA GREEN ECONOMY DELLA FONDAZIONE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE

l sei Rapporti 2012,  2013, 2014, 2015 e 2016, 2017 sulla Green economy "Per uscire dalle due crisi",  "Un Green New Deal per l'Italia", "Le imprese della Green economy" e prima, seconda e terza "Relazione sullo stato della green economy in Italia" sono la base della visione  che ispira il cammino degli Stati generali della Green economy e ne esplicitano i contenuti scientifici e programmatici.

 

IL RAPPORTO GE 2017

Sesta Relazione sullo stato della green economy

 

IL RAPPORTO GE 2016

Lo stato della green economy in Italia, in Europa e nel mondo

 

IL RAPPORTO GE 2015

Lo stato della green economy in Italia

 

IL RAPPORTO GE 2014

Le imprese della green economy. La via maestra per uscire dalla crisi

Presentato a Roma il 23 febbraio 2015 (> vai alla presentazione)

(vedi anche > Materiali di approfondimento)

 

IL RAPPORTO GE 2013

Un Green New Deal per L'Italia

Presentato a Roma nel gennaio 2013 (> vai alla presentazione)

 

IL RAPPORTO GE 2012

Per uscire dalle due crisi

Presentato a Roma il 14 dicembre 2012 (> vai alla presentazione)

***

I PRINCIPALI TITOLI SULLA GREEN ECONOMY IN LETTERATURA

2018 Green Economy Coalition

The 2017 Green Economy Barometer

(> scarica il Rapporto)

2017 UCL University

The global green economy: a review of concepts, definitions, measurement methodologies and their interactions

(> scarica il Rapporto)

2016 UNEP

The Green Economy Progress measurement framework

Disponibili finora due working paper 2015 e 2016. Vedi il resoconto alla pagina:

Green economy e green jobs assessment

2016 GGKP

Measuring Inclusive Green Growth at the Country Level Taking Stock of Measurement Approaches and Indicators

(> scarica il Rapporto)

2015 UNEP

Uncovering pathways towards an Inclusive Green Economy. A Summary for Leaders

(> scarica il Rapporto)

2015 OECD

Towards Green Growth? Tracking Progress

OECD Library

2015 IIED

China’s path to a green economy Decoding China’s green economy concepts and policies

(> scarica il Rapporto)

2014 UNEP

 Using Models for Green Economy Policymaking

(> scarica il Rapporto)

A Guidance Manual for Green Economy Indicators

(> scarica il Rapporto)

A Guidance Manual for Green Economy Policy Assessment

(> scarica il Rapporto)

2013  EU EEA

Towards a green economy in Europe. EU environmental policy targets and objectives 2010–2050

(> scarica il Rapporto)

2013  UNIDO

Green Growth: from Labour to Resource Productivity. Best practice examples,
initiatives and policy options

(> scarica il Rapporto)

2013  World Economic Forum e Green Growth Action Alliance

The Green Investment Report. The ways and means to unlock private finance for green growth 

 (> vai alla presentazione)

 

2012  UNDESA

A Guidebook to the Green Economy

Issue 1: Green Economy, Green Growth, and Low-Carbon Development – history, definitions and a guide to recent publications

Issue 2: Exploring green economy principles

Issue 3: Exploring green economy policies and international experience with national strategies

Issue 4: A guide to international green economy initiatives

 

2012  World Bank

Inclusive Green Growth
The Pathway to Sustainable Development

(> scarica il Rapporto)

2012 UNU

Green economy and good governance for sustainable development: Opportunities, promises and concerns

(> scarica il Rapporto)
 

2011 EEA

Green economy

(> scarica il Rapporto)

 2011  World Bank

From Growth to Green Growth. A Framework

(> scarica il Rapporto)

2011  UN Natural Resources Forum

The policy challenges for green economy and sustainable
economic development

(> scarica il Rapporto)

 2011  OECD

  Towards Green Growth

Sintesi di Margherita Macellari

2011  UN ILO

Towards a greener economy: the social dimensions

(> scarica il rapporto)

2011 OECD

 Framework and Tools for Assessing and Understanding the Green Economy at the Local Level

(> scarica il Rapporto)

2011  UNEP

 Towards a Green Economy. Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication

Sintesi di Margherita Macellari

2011 UN University

The Transition to a Green Economy: Benefits, Challenges and Risks from a Sustainable Development Perspective

(> scarica il Rapporto)

2011   Regional Activity Centre for Cleaner Production

Green Entrepreneurship in Italy

(> scarica il Rapporto)

2011 Fondazione per lo Sviluppo sostenibile

Per saperne di più sulla Green economy e sullo Sviluppo sostenibile

Presentazione ppt di Toni Federico

                                      

La green economy: l'economia dello sviluppo sostenibile

 

And those who were seen dancing were thought to be insane by those who could not hear the music

Attribuita a Friedrich Nietzsche

 

Una transizione verso un futuro progressivamente più sostenibile, con emissioni di gas serra decrescenti, il recupero del degrado ambientale, l'eliminazione della povertà estrema e il recupero di una condizione sociale inclusiva e più equa richiede una economia diversa, vale a dire processi produttivi e tecnologie più rispettose dell'ambiente ed una diversa concezione del benessere,  associata a criteri nuovi attraverso cui le imprese possano valutare il valore aggiunto da esse stesse prodotto in funzione di tutto l’arco della ricchezza, economica, naturale, umana e sociale e non solo del flusso dei ricavi, il Pil,  e della quantità di macchine e di infrastrutture accumulate, lo stock costruito.

Al vettore di questa irrimandabile trasformazione è stato dato dall'UNEP il nome di  green economy che, pur declinata secondo diverse accezioni settoriali e scalata ai livelli di sviluppo delle diverse nazioni e delle loro vocazioni, raccoglie tutto lo sforzo attualmente in atto nel mondo verso lo sviluppo sostenibile, come deriva dalla lezione di Rio+20. La green economy comporta una nuova visione dei problemi e delle dinamiche dello sviluppo, nuove culture, diverse abilità e modalità di formazione. Non è una fantasticheria  per chi "hears the music" nè una bolla come le tante che si sono succedute negli anni e sono rapidamente passate di moda. è in realtà il pilastro economico dello sviluppo sostenibile e tale rimarrà nel tempo. Una descrizione insiemistica dell'economia green e del ruolo che essa occupa nel processo di transizione verso la sostenibilità può essere quella della figura seguente. Lo spazio di esistenza della green economy è quello delle intersezioni delle tre ellissi (pilastri) indicato come "sustainable". Lo spazio angusto della tripla intersezione dà una percezione della grande quantità di criteri, regole e delimitazioni cui è assoggettata l'economia "green".

La Fondazione per lo sviluppo sostenibile segue la transizione economica green in Italia, in Europa e nel mondo dedicandole una Relazione annuale di assessment, con una continua variazione degli approcci e delle metodologie, sviluppati dalla Fondazione stessa e dai maggiori player mondiali della green economy, la Relazione viene presentata agli Stati Generali della Green economy nell'autunno di ogni anno ed è ad oggi il documento di maggior rilievo scientifico scritto in lingua italiana. Il player italiano è il Consiglio nazionale della Green economy. Nel mondo sono l'UNEP e l'OECD, nell'ordine e con sfumature diverse. Hanno ruolo anche le Agenzie delle Nazioni Unite e un certo numero di piattaforme  e progetti che sono andate costituendosi in questi anni.

Nella figura a sinistra c'è una rappresentazione per difetto del quadro istituzionale e organizzativo dei driver mondiali della Green economy, sviluppata da PAGE che è uno dei più autorevoli progetti promossi dall'UNEP in ambito UN.

Queste pagine del Comitato scientifico intendono documentare a livello scientifico tutto il quadro in movimento a livello internazionale e intendono fornire tutti i riferimenti necessari per comprendere quanto sta accadendo nella fase di trasformazione dell'economia.

Nella colonna di sinistra riportiamo tutta la documentazione prodotta e accessibile sulla Green economy, con i link che permettono di scaricare, acquisire o leggere i documenti di maggior livello. La produzione mondiale in fatto di Green economy è straordinariamente vasta, ragione per cui invitiamo a consultare le bibliografie via via riportate nei Rapporti annuali della Fondazione.

Nella barra di comando di questa homepage e qui di seguito si trovano gli accessi alle pagine di questo sito che entrano nei meriti di tutte le problematiche e degli accadimenti della Green economy e, in particolare:

   - Green economy e green jobs  assessment: contiene i materiali per il monitoraggio della transizione

   - L'economia circolare: quella parte della green economy dedicata alla gestione sostenibile delle risorse

   - Le iniziative nazionali: quanto viene fatto in Italia sulla Green economy al di là degli Stati generali 

   - Saggi e monografie: il materiale bibliografico referenziato e il materiale monografico della Fondazione  

   - Rio+20: la discussione e i documenti di approccio e di decisione al Summit sullo sviluppo sostenibile

   - L'Europa: i contributi maggiori dell'Unione Europea (Consiglio, Commissione, Parlamento e Agenzie)         

   - Le NGO: le posizioni delle principali associazioni non governative ed ambientaliste sulla Green economy.

 

> vai alla bibliografia aggiornata sulla Green economy

 

 


 

Rapporto 2023 sullo stato della Green economy

Green economy e transizione ecologica, di Toni Federico

Leggi il Rapporto completo

Gli impatti dell'inquinamento atmosferico e delle altre matrici in tutto il mondo sono insostenibili. Oggi, più di un decesso su sei a livello globale è causato dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua o del suolo. Poi c'è il cambiamento climatico con la sua forza devastante. La prima rivoluzione industriale ha le sue responsabilità, ma la dipendenza dell’economia dai combustibili fossili viene dopo, c’è chi dice dal 1970, anno dal quale sono state rilasciate l'80% delle emissioni di CO2 derivanti dalla combustione di carbone, gas e petrolio, e il 60% di tutte le emissioni serra. Le temperature stanno ora aumentando a un ritmo senza precedenti. Ogni giorno ormai porta ondate di calore da record che mettono a dura prova le persone, le reti elettriche e i sistemi sanitari, cicloni di intensità crescente che devastano città e campi profughi, il fumo degli incendi che soffoca le città e le inondazioni che costringono milioni di persone a migrare.

Lo spazio operativo sostenibile per la società e l’ambiente (fonte: Rockstrom)

Lo spazio operativo sostenibile per la società e l’ambiente (fonte: Roickstrom)Il clima che cambia e il global warming  sono la minaccia più immediata per la nostra civiltà e per gli esseri viventi, ma un'altra crisi altrettanto minacciosa, la perdita di biodiversità, minaccia tutta la vita sulla Terra. Negli ultimi quattro secoli, l'uomo ha portato all'estinzione almeno 680 specie di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci; ma come per il cambiamento climatico, il tasso di impatto è aumentato. Dal 1970 è documentato un calo di quasi il 70% delle popolazioni di specie selvatiche esistenti e negli oltre otto milioni di specie animali e vegetali sulla terra, il tasso di estinzione indotto dall'uomo è stimato da decine a centinaia di volte superiore ai tassi naturali. Molti di noi pensano e agiscono ancora supponendo che, se gli ecosistemi del nostro pianeta crollassero, potremmo sopravvivere senza l'aria, l'acqua e le risorse essenziali che essi forniscono. Non è così: il cambiamento climatico, l'inquinamento e la perdita di biodiversità hanno raggiunto livelli che minacciano la nostra sopravvivenza.

La risposta in campo è la transizione ecologica, costruita sull’economia green, l’energia rinnovabile e il recupero circolare della materia. Lo stesso modello di sviluppo è in transizione, perché abbiamo bisogno di strategie complete e su più fronti, dall'energia pulita e dal ripristino degli ecosistemi, all’istruzione delle donne nelle nazioni a basso reddito, che affrontino il clima, l'inquinamento, la biodiversità e la salute, la povertà e le altre disuguaglianze. A Parigi, nel 2015, il mondo ha accettato di limitare il riscaldamento ben al di sotto dei 2 °C, una soglia ora fissata a 1,5 °C dopo che gli scienziati hanno quantificato i rischi di un ulteriore riscaldamento. Nel dicembre 2022, i paesi della convenzione ONU sulla biodiversità hanno concordato il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework che affronta i principali fattori di perdita di biodiversità e chiede la protezione del 30% di terra, oceani e acque dolci entro il 2030.

Le politiche attuate dall'Accordo di Parigi hanno già ridotto il riscaldamento previsto entro la fine del secolo da circa 4,5 a 2,8 °C. Il 2023 è l’anno del resoconto, lo stocktake che verrà fatto alla COP 28 di Dubai ben sapendo che, a otto anni di distanza, siamo ancora lontani dall’intraprendere la strada giusta. I fossili devono essere lasciati sotto terra, le emissioni di gas a effetto serra devono essere ridotte e infine eliminate attraverso l'efficienza, il miglioramento dell'uso del suolo e delle pratiche agricole e la transizione verso l'energia pulita. Dobbiamo investire nella natura, che ha il potenziale per assorbire fino a un terzo delle nostre emissioni di carbonio. E abbiamo bisogno che i paesi scrivano e attuino i propri piani d'azione nazionali per il clima (NDC) e anche per la biodiversità e che i finanziamenti affluiscano alla mitigazione del clima, alla resilienza climatica e alla biodiversità nei paesi a basso reddito e nelle principali aree di conservazione in tutto il mondo, in particolare quelle più vulnerabili. L'implementazione di soluzioni efficaci e positive per la natura è fondamentale per la lotta contro il cambiamento climatico come il greening dei quartieri a basso reddito nei grandi centri urbani che filtra l'inquinamento dall'aria, assorbe le precipitazioni per prevenire le inondazioni, fornisce luoghi in cui le persone possono stare nella natura, migliorando la loro salute fisica e mentale, aumenta gli habitat per la biodiversità e assorbe più carbonio.

Nel corso degli anni, non solo per iniziativa delle Nazioni Unite, abbiamo messo in campo strumenti globali di governo dello sviluppo per assicurarne la sostenibilità e l’equità. Nell’ordine, solo per citare i maggiori, l’Agenda 21, i Protocolli di Montreal e Kyoto, gli obiettivi del Millennio, l’Agenda 2030 e gli Accordi di Parigi e di Kunming. Per noi europei il Green Deal del 2019 ha aperto i cantieri della transizione ecologica.

Se il 2023 è l’anno dei bilanci per il clima va fatto anche quello della sostenibilità, che non è confortante. Un gruppo indipendente di scienziati ha proposto una via da seguire alle le Nazioni Unite. Il Rapporto ribadisce la necessità di un cambiamento trasformativo per portare il mondo su un sentiero di sostenibilità articolato in sei linee:  il benessere e le capacità umane; un’economia green sostenibile e giusta; sistemi alimentari sostenibili e modelli nutrizionali sani; decarbonizzazione dell’energia con accesso universale; sviluppo urbano e periurbano e ambiente come bene comune globale. Gli autori riconoscono che il percorso verso la sostenibilità deve includere anche l'abolizione di pratiche non sostenibili, ma tenendo conto della sofferenza economica e sociale che può causare. Ad esempio, aumentare la disponibilità di fonti rinnovabili non basta per affrontare il cambiamento climatico: anche i fossili devono essere gradualmente eliminati. C'è una resistenza attiva a questo cambiamento e una reale necessità di sostenere le comunità colpite, come quelle che hanno fatto affidamento sull'industria del carbone per decenni. Il ruolo della scienza, nella transizione, viene esplicitamente chiamato in causa e messo in discussione.

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Rapporto 2022 sullo stato della Green economy

La crisi nel quadro internazionale, di Toni Federico

Leggi il Rapporto completo

 

L'inconcepibile invasione russa dell'Ucraina del febbraio di quest’anno ha messo in discussione il ruolo della Federazione Russa come uno dei primi tre fornitori mondiali di combustibili fossili. Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia sono tra le prime nazioni in fatto di emissioni di gas serra. L’energia e le materie prime sono le risorse centrali per lo sviluppo tanto che ora vengono usate in chiave strategica per condizionare reciprocamente le economie in competizione. La risposta alla scarsità di entrambe le risorse sta nella energia rinnovabile e nella circolarità della materia ma il percorso è irto di ostacoli.

La crisi ricorrente del modello di dominio occidentale è la causa della comparsa di soggetti diversi nell’economia mondiale: il quadro internazionale è ormai spezzato come non accadeva dai tempi della guerra fredda. Sembra però che  comune rimanga comune a tutti i soggetti la dipendenza dai combustibili fossili, in palese contraddizione con il dato di fatto che i paesi dell’area occidentale e dell’OECD di materie prime fossili ne hanno molto poche, eccezion fatta, forse, per il carbone che di tutti è il peggiore in termini di danni arrecati al clima. Anche mettendo da parte i danni ambientali causati dall'estrazione e dall’uso dei combustibili fossili, cui si deve probabilmente il grande balzo in avanti dell’economia e della popolazione mondiali, si sta determinando una situazione di scarsità generale e di dominio monopolistico che determina la volatilità dell'offerta e la fluttuazione dei prezzi che ne fanno un pericoloso veicolo di ricatti e di crisi.

Figura 1. Dipendenza dei paesi occidentali dalle importazioni di fossili dalla Federazione Russa (fonte: IEA)

La capacità dell'Occidente di opporre sanzioni economiche al neoimperialismo putiniano è compromessa dalla improvvida dipendenza dai combustibili fossili. L'Europa, secondo una fonte americana,  è come un drogato che cerca di attaccare il suo spacciatore preferito. Non può essere una minaccia credibile nel breve periodo.

Le interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali di energia, materia e risorse naturali, non hanno origine soltanto dalla pandemia e dalla guerra, ma sono un dato strutturale della crisi del mercato globalizzato determinata dalla crescente difficoltà dei paesi occidentale di imporre loro i prezzi e dalla oggettiva scarsità di tutte le risorse primarie non meno che dei prodotti semilavorati, come i microchip, e delle componenti hi-tech che sono in gran parte strategiche. Se è vero che in Europa, USA e paesi OECD c’è una riserva di innovazione, automazione e intelligenza artificiale, e quindi una maggiore disponibilità di lavoro e di lavoratori ad alto livello di qualificazione, non è meno vero che ciò prefigura un conflitto ineguale sui mercati internazionali e può favorire il ritorno ad accaparramenti e soluzioni basate sulla forza militare, sul riarmo e su quella teoria del dominio che ci siamo illusi di esserci lasciati alle spalle.

In un mercato globale equilibrato la ricchezza dell'economia starebbe nei servizi e nella creatività, nella produzione di informazioni, analisi, design, benessere, educazione e intrattenimento. La tecnologia della comunicazione, della informazione e dei trasporti rendono la produzione globale il modo migliore per produrre beni e servizi di alta qualità e basso costo. Quanto sta accadendo, pur se nascosto da dichiarazioni ufficiali reticenti se non addirittura mendaci, mette in crisi l’approccio multilaterale allo sviluppo sostenibile e alla lotta ai cambiamenti climatici. Né l’uno né l’altra sono compatibili con situazioni di aperto e dichiarato conflitto. L’approccio multilaterale non è mai stato rose e fiori. Nel clima, in particolare, il paralizzante conflitto sulle responsabilità tra Nord e Sud del mondo continua ad essere l’ostacolo maggiore. Al recente meeting di Bonn i lenti passi in avanti della COP 26 di Glasgow sembrano essere già un bel ricordo. La composizione delle controversie con la Cina e i suoi 77 paesi in via di sviluppo (G 77) stava facendo faticosi passi in avanti prima dell’irruzione brutale sulla scena di un paese dimenticato come la Federazione Russa che vende fossili ed è pertanto poco interessato alla lotta al riscaldamento globale. In più ha in mano un impressionante arsenale nucleare.

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Gli Stati generali della green economy alla decima edizione del 2021

Una roadmap al 2030 per portare l'Italia all'avanguardia in Europa

 

Questa volta la peculiarità degli Stati Generali 2021, promossi dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, è la presentazione di una roadmap al 2030 per fare dell’Italia una locomotiva europea della green economy che contiene un percorso con obiettivi precisi al 2030 e, soprattutto, una legge sul clima. L’Italia ha le carte in regola per diventare una delle locomotive europee della green economy che può fare nel prossimo decennio un grande passo in avanti grazie alla decarbonizzazione, all’economia circolare, al piano europeo di Green Deal, alle risorse del PNRR, alle nuove opportunità di innovazione e investimento, rafforzando e rilanciando, così, importanti settori produttivi di beni e servizi nazionali.

La roadmap prevede: approvare una legge per la protezione del clima per aumentare il passo nelle misure per la neutralità climatica, raddoppiare le rinnovabili dal 20 al 40% e tagliare il consumo di combustibili fossili del 40% al 2030, introdurre misure di adattamento, coinvolgere attivamente le città nel raggiungimento dei target climatici; valorizzare e sviluppare i potenziali dell’Italia per l’economia circolare e il riciclo vincolando almeno il 50% delle risorse del PNRR per sostenere progettazione e innovazione di processi produttivi e di prodotti in direzione circolare, semplificare le procedure end of waste e promuovere l’impiego di materiali riciclati; accelerare la decarbonizzazione dei trasporti aumentando gli investimenti per il trasporto pubblico locale, disincentivando l’uso dell’auto privata in città e approvando una legge quadro per la mobilità condivisa; sostenere la transizione ecologica dell’agricoltura; approvare la legge per la tutela del suolo; migliorare la tutela e la valorizzazione del capitale naturale e recuperare i ritardi dell’Italia nella digitalizzazione per sostenere la transizione ecologica.

L’Italia, ha dichiarato Edo Ronchi, che ha svolto la relazione introduttiva agli Stati generali, non deve perdere questa occasione: deve puntare, con più decisione, a far parte delle locomotive europee della green economy. Vincendo la sfida della neutralità climatica con un’economia decarbonizzata e competitiva, capace di generare maggior occupazione e un miglior benessere, si costringerà così anche la Cina e gli altri paesi ritardatari, ad inseguire. Ritengo giusto sollecitare la Cina, che è una superpotenza economica, alla Cop 26 affinché prenda maggiori impegni reali per l’attuazione dell’Accordo di Parigi, respingendo il suo tentativo di nascondersi dietro ai Paesi in via di sviluppo, per mascherare il suo disimpegno. Non si può però consegnare alla Cina l’esito della Cop 26, anche perché con la conferma di un massiccio uso del carbone, rifiutando impegni di riduzione delle proprie gigantesche emissioni di gas serra fino al 2029 e rinviando il suo percorso di decarbonizzazione, la Cina ha già deciso. Il successo della Cop 26 dipende dal consolidamento dell’alleanza dei Paesi che si stanno impegnando per la neutralità climatica, guidati dall’Europa e dagli Stati Uniti: l’alleanza di coloro che, non senza difficoltà, stanno facendo della neutralità climatica una leva di Green Deal, per superare la recessione causata dal Covid.

Il Focus della Relazione sullo stato della green economy 2021 riguarda il rapporto fra la transizione green e la trasformazione digitale: i due pilastri del Green Deal europeo. In modo più accentuato nel dibattito italiano, rispetto a quello europeo, questi due pilastri son stati presentati e, in genere, gestiti nell’impostazione del nostro Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (PNRR) come separati, con poca attenzione alle connessioni che li legano. Con questo focus La Fondazione si propone di contribuire a superare questa rilevante carenza. La digitalizzazione è molto importante per lo sviluppo della green economy, in tutti i suoi aspetti strategici: un maggiore e migliore utilizzo della digitalizzazione è indispensabile per realizzare i cambiamenti decisivi della transizione ecologica.

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La Green economy come chiave del rilancio dello sviluppo

di Toni Federico, Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Luglio 2021

Leggi l'intero Rapporto

Nella interpretazione delle prime ore dello scorso anno la pandemia avrebbe arrestato la crescita. Si pose allora come obiettivo di uscirne al più presto per limitare la crisi ad un breve spike dei fattori della crescita, seguito da un ritorno alla normalità preesistente. Potrebbe essere il modello cinese che ha imposto un lockdown militarizzato seguito da un ritorno rapido allo status quo ante. Non è andata così, la pandemia si è diffusa in tutto il pianeta con vicende alterne, chiusure controllate, varianti etc., alla fine delle quali si deve ammettere che il virus continuerà a coabitare a lungo con l’umanità e che nulla sarà come prima. Il problema che si pone è ora quello di un nuovo modello di sviluppo che vada alle origini naturali della crisi sanitaria in atto e quindi, inevitabilmente, dell’altra grave crisi in rapido sviluppo che è il cambiamento climatico.

Il nuovo concetto in campo è quello della transizione[1] da un modus economico e sociale inadeguato, ingiusto e generatore di gravi crisi ad uno nuovo, sicuro, giusto e resiliente. Sullo sfondo, è inutile dirlo, si accresce una polemica contro il sistema economico che si è globalizzato senza regole in chiave neoliberista, fallimentare in tutte le dimensioni, della sostenibilità, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura e, infine, della stessa efficienza economica. Basta ricordare la crisi finanziaria del 2008, quando i governi di tutto il mondo hanno iniettato oltre 3 trilioni di dollari nel sistema finanziario. L'obiettivo era sbloccare i mercati del credito e far funzionare nuovamente l'economia globale. Ma, invece di sostenere l'economia reale, la maggior parte degli aiuti è finita nel settore finanziario. I governi hanno salvato le grandi banche di investimento che avevano creato la crisi e che, quando l'economia è ripartita, hanno goduto i frutti della ripresa. L'economia globale è rimasta disarticolata, diseguale e ad alta intensità di carbonio come prima[2].

Nei mesi successivi alla comparsa del virus, nel 2020, i governi sono intervenuti per affrontare la nuova crisi lanciando pacchetti di stimolo per proteggere i posti di lavoro, emanando norme per rallentare la diffusione della malattia e investendo nella ricerca e nello sviluppo di cure e vaccini. Questi sforzi di salvataggio sono necessari. Man mano che i paesi escono dall'attuale crisi, possono fare di più che stimolare la crescita economica; possono guidare la direzione di tale crescita per costruire un'economia migliore. Invece di fornire assistenza senza vincoli alle aziende, possono condizionare i loro salvataggi a politiche che proteggano l'interesse pubblico e affrontino i problemi della società e dell’ecosistema. Possono rifiutarsi di salvare le aziende che non intendono ridurre le loro emissioni di carbonio o smettere di nascondere i loro profitti nei paradisi fiscali.

Per troppo tempo i rischi sono stati socializzati e i benefici privatizzati. Nei momenti di bisogno, molte aziende chiedono l'aiuto del governo, ma nei momenti favorevoli chiedono che il governo si allontani. La crisi del Covid-19 rappresenta un'opportunità per correggere questo squilibrio attraverso un nuovo stile di negoziazione che costringe le aziende salvate ad agire maggiormente nell'interesse pubblico e consente ai contribuenti di condividere i benefici dei successi tradizionalmente attribuiti al solo settore privato[3]. Ma se i governi invece si concentrano solo sulla fine del disagio, senza riscrivere le regole del gioco, allora la crescita economica che segue alla crisi non sarà né inclusiva né sostenibile. Né servirà alle imprese interessate per darsi un’opportunità di crescita a lungo termine. L'intervento sarà stato uno spreco e l'occasione mancata non farà altro che alimentare una nuova crisi.

Il futuro della terra[4]

Stiamo vivendo rapidi cambiamenti globali a causa delle pressioni umane, che probabilmente superano i livelli di sicurezza in diverse dimensioni. I tassi di estinzione delle specie sono da decine a centinaia di volte superiori a quelli medi degli ultimi 10 milioni di anni, con una diminuzione del 68% delle popolazioni di animali selvatici solo a partire dagli anni '70; abbiamo la più alta concentrazione atmosferica di gas serra degli ultimi 3 milioni di anni, un periodo geologico in cui le temperature medie globali non hanno mai superato i 2°C di riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali; ci sono elementi di instabilità dei sistemi che regolano lo stato del sistema Terra e possono evolvere in maniera irreversibile e subiamo un diffuso inquinamento dell'aria e dell'acqua a causa del nostro uso di minerali, prodotti chimici e nuove sostanze. La frequenza di diffusione delle malattie zoonotiche è aumentata con il degrado umano degli habitat naturali, come prova la pandemia di Covid-19.

La comunità scientifica ha fornito obiettivi basati sull'evidenza per evitare pericolosi cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici.  È il caso dell’obiettivo di Parigi di tenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 °C, con l'obiettivo degli 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali. Sono necessari obiettivi certi e sicuri anche per gli altri processi e sistemi vitali che regolano lo stato del pianeta, compresa l'assegnazione e la configurazione appropriate dell'uso del suolo, la salute degli oceani e il ciclo globale di azoto, fosforo e acqua che supportano la vita. L'identificazione di intervalli sicuri per ciascuno di questi sistemi, come le Planetary Boundaries[5], non sarà sufficiente per indicare un percorso sicuro. Devono essere considerate le complesse interazioni e i feedback tra i processi del sistema Terra che possono rendere ogni percorso molto più arduo. È fondamentale comprendere i feedback che regolano, o destabilizzano, ciascuna variabile, come interagiscono su scale temporali diverse e come cambiano.

Lo stato del sistema terrestre durante l'Olocene, iniziato circa 11.700 anni fa, con un clima relativamente stabile al pari dei cicli biogeochimici e dei servizi ecosistemici, ha consentito uno straordinario sviluppo umano, poggiato su una continua innovazione in agricoltura, nelle città, nelle economie, nell’energia e nei sistemi di comunicazione sempre più complessi e integrati. Non ci sono prove che miliardi di esseri umani e società altrettanto complesse possano prosperare in altri climi conosciuti, come le ere glaciali o le alte temperature.

La comunità umana

Le scelte e le azioni umane possono restringere o facilitare il percorso sicuro e giusto dello sviluppo. In primo luogo un mondo non sicuro aumenta le disuguaglianze, quindi la sicurezza è una precondizione necessaria per uno sviluppo giusto, ma non è sufficiente. In secondo luogo, una domanda chiave è come possono essere raggiunti obiettivi ecologicamente sicuri, raggiungendo allo stesso tempo obiettivi per il benessere e la giustizia umani. Ad esempio, il raggiungimento degli obiettivi sociali dell'Agenda 2030 può portare a superare alcuni limiti di sicurezza per lo stato biofisico del sistema Terra. Raggiungere obiettivi biofisici, come gli 1,5 °C per il clima o aumentare la protezione degli ecosistemi, può minare il benessere, se, ad esempio, la bioenergia compete con la produzione alimentare o le aree protette minano i mezzi di sussistenza locali. In terzo luogo, i rischi di superare obiettivi sicuri e giusti sono maggiori per le persone vulnerabili e possono influire sulla salute umana, spostare le persone e destabilizzare le società. Allo stesso tempo, i più colpiti dai cambiamenti ambientali sono spesso quelli che causano un impatto ambientale minore e hanno meno resilienza e capacità di adattamento. Gli eventi meteorologici estremi uccidono o danneggiano in modo sproporzionato i poveri, le donne, gli anziani, i bambini e le popolazioni indigene. Il cambiamento climatico può costringere all’emigrazione milioni di persone, in particolare nelle parti più povere del mondo. La pandemia di Covid-19, legata in parte al declino naturale e al maggiore contatto uomo-fauna selvatica, ha colpito in modo sproporzionato i più vulnerabili. La loro vulnerabilità è spesso creata da strutture sociali, atteggiamenti e sistemi di governance che sono ingiusti e non danno priorità al benessere per tutti.

Il percorso dello sviluppo sicuro e giusto dovrà essere determinato per tutti gli obiettivi dal più rigoroso tra i target sicuri e giusti. Ad esempio, un obiettivo climatico valido per tutti gli esseri umani potrebbe essere più rigoroso di un obiettivo che evita la maggior parte dei punti critici del clima, che a sua volta potrebbe essere più rigoroso di un obiettivo che garantisce solo una minoranza della popolazione.

Come possiamo raggiungere gli obiettivi sicuri e giusti? Accettiamo che un mondo giusto sia una precondizione per poter realizzare un mondo ecologicamente sicuro? Per ottenere tali trasformazioni occorre equità, responsabilità, condivisione del rischio e prospettiva partecipativa. L’Agenda 2030 è accompagnata da un consenso globale sui principi chiave della giustizia distributiva delle risorse e può essere un punto di partenza per un percorso sicuro e giusto che garantisce che nessuno sia lasciato indietro. Ma, mentre reclama la riduzione delle disuguaglianze, deve ancora fissare obiettivi relativi a come dovrebbero essere condivisi risorse e rischi. Sebbene richieda il rafforzamento dei mezzi di implementazione, non indica come dovrebbero essere effettivamente usati. La politica di chi ottiene che cosa, quando, dove e come, è spesso determinata da coloro che sono più potenti nel sistema. Le regole di accesso e distribuzione delle risorse sono così quasi sempre bloccate e difficili da cambiare.

È necessario determinare quali strategie di risposta sono più efficaci nel gestire non solo i sintomi di un problema ma anche le cause sottostanti, quali siano capaci di corrispondere alla diversità e alla evoluzione di società, culture, economie e tecnologie e quali soddisfano criteri minimi di etica, trasparenza, fiducia, collaborazione, riconoscimento e governance inclusiva. Spesso restano indeterminati i trade-off e le sinergie tra obiettivi e target differenti che possono condizionare una transizione che si prefigge di condividere in modo equo le risorse scarse della Terra e al contempo continuare a garantire lo sviluppo umano.


[1]   Edo Ronchi, 2021, Le sfide della transizione ecologica, Piemme, Mondadori, Milano

[2] Mazzucato M., 2020, Capitalism After the Pandemic. Getting the Recovery Right, Foreign Affairs, https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2020-10-02/capitalism-after-covid-19-pandemic

[3] Faiella, Natoli, 2020, The Covid-19 crisis and the future of the green economy transition, Banca d’Italia, Covid-19 Notes

[4] Rockström J. et al., 2021, Identifying a safe and just corridor for people and the planet, Earth's Future, 9, e2020EF001866, https://doi.org/10.1029/2020EF001866

[5] Rockström J., 2021, The Planetary Boundaries, Stockholm Resilience Centre, Stockholm University, https://stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries.html

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Lo stato internazionale della Green economy sotto gli effetti della pandemia

 di Toni Federico, Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Settembre 2020

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Introduzione

La pandemia perdurante ha introdotto elementi di grave incertezza nel quadro mondiale delle politiche dello sviluppo. È tradizione della Fondazione produrre ogni anno un Rapporto che contiene un assessment dello stato della green economy a livello internazionale. Generalmente i dati e i trend rilevati nell’ultimo anno, oggi quindi nel 2019, sono quelli ai quali ci si riferiva. La pandemia rende impossibile questo schema perché causa fortissimi shock su tutti gli indicatori. Si pensi che il crollo dei consumi assieme al crollo dei PIL può dare delle sorprese, eventualmente risultando in un miglioramento degli indici di produttività delle risorse e delle efficienze. Questi andamenti, resi incerti dalla difficoltà di avere dati credibili, possono dare indicazioni fuorvianti.

Per queste ragioni il Rapporto sarà svolto in due parti. La prima parte sviluppa un assessment tradizionale con gli ultimi dati disponibili a fine 2019 utilizzando lo schema di temi e di indicatori che ancora una volta segue i criteri dell’OECD (in tabella) e le nostre tradizionali linee di analisi.

Tabella 1. Gli indicatori guida per l’assessment della Green economy (fonte: OECD, 2017)

La seconda parte è un tentativo di inoltrarci nei macrofenomeni causati dalla pandemia di Covid - 19, usando i pochi dati disponibili e la moltitudine di inferenze, scenari ed illazioni della pubblicistica internazionale che possono gettare luce sulla sorte della green economy e dello sviluppo sostenibile dei prossimi mesi. Daremo attenzione soprattutto alle misure di recovery varate praticamente da tutti i governi del mondo allo scopo di potenziare la resilienza dei sistemi economici e sociali, fortemente in crisi per effetto delle misure sanitarie anti - Covid. Analizzeremo alcuni fenomeni spettacolari a vantaggio dell’ambiente determinati dalle misure generalizzate di lockdown, in fatto di emissioni in atmosfera di inquinanti short e long lived e qualcuno degli effetti di rimbalzo visibili in questi ultimi mesi.

Dove ci ha lasciato il 2019

Esamineremo tutte le questioni rilevanti per la green economy a fine decennio, dallo stato del clima, dell’energia, delle risorse naturali e dell’inquinamento dell’aria, seguendo il metodo tradizionale. Seguiremo nella misura dovuta il quadro di assessment dell’OECD senza trascurare altri e più ampi fenomeni che caratterizzano la sostenibilità nel mondo.

La produttività carbonica dei paesi OECD, disponibile al 2018, è di 4,9 US$2015/kgCO2 con un trend annuale medio su base decennale di +11%. Il dato mondiale non c’è, ma possiamo darlo per l’Europa per cui i due dati sono rispettivamente 6,72 US$2015/kgCO2 e +19%. Per la Cina si trovano 2,27 US$2015/kgCO2 con il +8,7%.

La produttività delle risorse non energetiche, disponibile al 2017, per l’OECD vale 4 US$2015/kgDMC, con un trend decennale medio per anno dell’11%. Qui è disponibile il dato per i BRIICS che vale 0,9 US$2015/kgDMC, con un trend decennale medio modesto e pari al 1,1% per anno. Per la Cina il dato 2018 è 0,67 con un magro trend dell’1,3%.

La crescita della produttività multifattoriale, calcolata dall’OECD come crescita green[1], è negativa per Cina ed Italia. Disponibile al solo 2013, vale per la Cina -0,28%, dopo annualità positive culminate nel 2007 con un +5%, con un trend decennale che equivale ad una perdita lineare media totale di 0,29 punti per anno, per gli USA 1,02 con una perdita di 0,19 punti per anno e per l’Italia, a titolo di esempio vale -0,93 nel 2013 con una perdita lineare negli ultimi dieci anni di 0,29 punti percentuali per anno.

La copertura verde è discretamente stabile. Vengono date la superficie persa e quella guadagnata dal 1992 al 2015. Per il pianeta abbiamo -2,72 e +1,53%, in perdita di mezzo punto ogni 10 anni. I paesi OECD perdono un quinto di punto ogni dieci anni, come l’Europa a 28. La Cina perde 0,4 punti ogni 10 anni e i BRIICS, Cina compresa, perdono 0,7 punti ogni 10 anni. È evidente che la criticità non è nei paesi sviluppati.

Come indicatore guida per la qualità ambientale l’OECD sceglie l’esposizione della popolazione al particolato fine, PM2,5. Rispetto all’ultimo dato del 2017 a livello mondiale che dà una media di 44,7 µg/m3, con un trend incerto valutabile in -0,08 µg/m3 per anno, cioè quasi niente, la situazione dei paesi OECD registra 12,5 µg/m3 in discesa di 0,19 µg/m3 per anno. L’Europa è di poco più avanti con 12,5 e 0,2 µg/m3 per anno. La Cina viceversa resta nel 2017 a 53,45 ma migliora di mezzo µg/m3 per anno, al pari dei BRIICS che sono a 59,33 e migliorano di un misero 0,12 µg/m3 ogni anno. Le linee guida del WHO prescrivono 35 µg/m3 per il 2030 e 10 µg/m3 per il 2050.

Il ricchissimo database della green economy dell’OECD offre altri dati globali di interesse primario. Nel 2018 le emissioni di CO2 superano le 33 Gt (4,35 t pro capite su base annua); di cui 9,5 sono cinesi (6,67 t pro capite), 4,9 USA (15 t pro capite) e 3,1 EU28 (6,16 t pro capite). La produttività energetica primaria dei paesi OECD è di 10,6 kUS$/toe nel 2018, quella europea è di 13,2, quella USA è di 8,7 e quella cinese è pari a 6,8 kUS$/toe.

L’ultimo dato 2014 sulla superficie costruita ne fissa il valore mondiale allo 0,59% del totale, 1,11% per l’OECD, 3,35% per EU28, 1,63% per gli USA e 1,13% per la Cina. Il patrimonio forestale lordo vede al primo posto i BRIICS con 210,3 Gm3, poi il Brasile con 96,7, i paesi OECD con 80,1, gli USA con 40,7 e la Cina con 16 Gm3. Nel 2017 la percentuale della popolazione con accesso all’acqua potabile è del 70,6% a livello mondiale, del 98% nell’area dell’euro, del 99% negli USA e, tra i PVS, del 20% in Nigeria.

Il controverso quadro degli aiuti ufficiali allo sviluppo, gli ODA, gestiti dall’OECD ed espressi in millesimi di PIL vedono l’Italia al 3 permille, gli USA ad 1,8, la Federazione Russa a 0,8. Tra i solventi sopra il fatidico 7 permille sul quale tutti in Paesi donatori si sono ripetutamente impegnati all’ONU, la Danimarca è al 7,4, La Turchia al 9,5, la Norvegia al 9,9, la Svezia al 10,2, e, dulcis in fundo, gli Emirati Arabi Uniti al 10,3 permille.

Le quote della tassazione ambientale in % del PIL sono tutte in discesa più o meno marcata. Al 2018 vediamo l’OECD all’1,55%, gli USA allo 0,71, La Cina allo 0,7, la Germania all’1,79, la UK a 2,3 e l’Italia al 3,31%. La questione molto delicata dei sussidi ai combustibili fossili, se calcolata in percentuale del gettito fiscale nel 2018, vede l’OECD allo 0,69%, gli USA allo 0,11, la Germania allo 0,34, la UK all’1,67, l’Italia all’1,25, i BRIICS al 4,35%. La Cina è del tutto fuori campo con il 655%, frutto delle diverse modalità ufficiali di calcolo del gettito fiscale.

Per quanto riguarda il capitale naturale e la biodiversità, le aree protette terrestri in percentuale del territorio (e le aree marine protette espresse in termini % delle zone economiche di competenza), sono nel 2019 a livello mondiale il 13,2% (16,8%). L’OECD registra il 15,6 (20,7), EU28 il 25,9 (12), gli USA 12,54 (19). La Cina ha protezioni misere, terrestri dell’1,7% e marine dello 0,3%.

Il reddito procapite in US$2015 nel 2019 vale 60.696 US$ per gli USA, 44.179 per l’area Euro, 43.018 per l’OECD e 13.432 per la Cina.

L’aspettativa di vita alla nascita in Giappone è 84,4 anni, in Italia 83,3, in USA 78,9, nei paesi OECD 80,4 e in Cina 77 anni.

La Green economy nella pandemia

Non ci possono essere certezze ma solo tendenze, previsioni e scenari nella valutazione degli effetti della pandemia sulla transizione in corso verso la sostenibilità guidata dalla green economy. Ovviamente le basi di dati ufficiali e gli indicatori guida della green economy non registrano ancora niente. Tutte le variabili, dal PIL alla CO2 dovrebbero subire a fine anno 2020 una transizione imponente, seguita da un rebound più o meno pronunciato. Sulle medie di fine anno le variazioni rispetto alle serie storiche si vedranno, ma quanto accadrà a medio termine dipenderà da una infinità di fattori. Il primo è la imprevedibile evoluzione della pandemia che nei mesi estivi si sta aggravando contro ogni ottimistica attesa. Il secondo è la resilienza ecosistemica generale, messa a dura prova nella componente umana. A politiche correnti sta succedendo che i prezzi maggiori sono a carico in tutto il mondo delle fasce deboli per reddito, età, cultura e capitale sociale. Le già gravissime diseguaglianze economiche e sociali tra i Paesi e all’interno di ciascun Paese stanno dando a piene mani i loro frutti venefici. Conflitti e migrazioni non fanno che aggravarsi e la pandemia è appena una ragione in più rispetto alla miseria, alla guerra e alla fame di sempre.

L’assetto mondiale pre – Covid, che si può definire in tutta approssimazione capitalismo globalizzato, sta dando ovunque una ulteriore pessima prova di sé. Le catene del valore si sbriciolano, i licenziamenti impazzano e il capitale accumulato dal settore privato sembra essersi volatilizzato. Il nuovo mood dello Stakeholder Capitalism[1], celebrato in inverno a Davos[2], si intravede solo nei messaggi promozionali.

Il peso della pandemia è stato lasciato tutto sulle spalle della collettività. I governi, senza riserve e spesso carichi di debiti, come il nostro, si stanno caricando mortalmente di altri prestiti, emettendo altre obbligazioni e rinviando i pagamenti.

In questo quadro solo un valore può contare, la solidarietà. E tale valore resterà nel novero delle buone intenzioni se gli sforzi dei governi e delle istituzioni internazionali non andranno verso lo sviluppo sostenibile con tutte le trasformazioni economiche e sociali che esso comporta.  È importante l’esempio che sta dando al mondo intero l’Unione europea col Green Deal e il Next Generation EU. Cina, India, Stati Uniti e Brasile sembrano però pensare piuttosto ai fatti propri e a tornare alle loro economie brown. L’Europa ha dichiarato che intende porre al centro della ripresa la lotta ai cambiamenti climatici, l’Accordo di Parigi, la decarbonizzazione entro il 2050, nel quadro di una transizione giusta. Il punto è proprio questo. In che misura saremo capaci di emergere dalla dura prova della pandemia con un assetto economico e sociale diverso e dotato di una visione di sviluppo equa, inclusiva e sostenibile? In che misura dimostreremo di essere non solo resilienti ma capaci di uscire dalla crisi con una transizione positiva? Le dichiarazioni ufficiali sono piene di questo ottimismo, le pratiche di recovery dei vari governi, come vedremo, molto meno.

Le somme messe in gioco per rilanciare l’economia e il benessere sono ingenti e ingente è la recessione se la calcoliamo con i PIL e con gli indici di disoccupazione. Ci sono esperienze precedenti di crisi altrettanto e più gravi a livello mondiale. Nonostante il New Deal di Roosevelt la crisi del ’29 si è trascinata per 15 anni finendo con una guerra mondiale sciagurata e sanguinosa. La più recente crisi del 2008, una delle tante del ciclo capitalistico, non era ancora del tutto recuperata alle soglie della pandemia. In tutte le crisi si è fatto ricorso ai fondi pubblici, a pacchetti di stimolo e a tutto l’armamentario delle misure finanziarie ma, in nessun caso, siamo usciti dalle crisi migliori.

E allora? Riprendiamo le parole di un visionario: “La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma da una crisi non si può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori… Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato e della casa comune? Pensiamoci … se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo. Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. Quando l’ossessione di consumare, possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare … dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di migliore. L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo œconomicus in senso deteriore, individualista, calcolatore e dominatore. Ci dimentichiamo che … siamo esseri sociali, creativi e solidali, con un’immensa capacità di amare. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra tutte le specie, e fioriamo in comunità…”[3].


 

[1] WEF, 2020, Davos Manifesto 2020: The Universal Purpose of a Company in the Fourth Industrial Revolution, in:

https://www.weforum.org/agenda/2019/12/davos-manifesto-2020-the-universal-purpose-of-a-company-in-the-fourth-industrial-revolution/

[2] WEF, 2020, Taking stakeholder capitalism from principle to practice, in: https://www.weforum.org/agenda/2020/01/stakeholder-capitalism-principle-practice-better-business

[3] Papa Francesco, 2020, L’economia è malata, dalla pandemia dobbiamo uscire migliori,  Udienza generale dalla Biblioteca del Palazzo Apostolico del 26 Agosto 2020, disponibile in: https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-08/papa-francesco-udienza-generale-economia-malata.html


[1] La definizione originale OECD è: “Environmental and resource productivity indicate whether economic growth is becoming greener with more efficient use of natural capital and to capture aspects of production which are rarely quantified in economic models and accounting frameworks”.

 

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CLIMA ED ECONOMIA IN UN MONDO PIÙ GREEN

 Stato e tendenze del 2018, con un focus sugli impatti ecosistemici dei cambiamenti climatici, di Toni Federico

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C’è sempre più green economy nel mondo, anche se non è abbastanza. Gli obiettivi dello sviluppo sostenibile restano infatti ancora lontani nella dinamica di una transizione che stenta ad avviarsi con l’intensità necessaria. La transizione punta ad uno sviluppo umano capace di futuro nel quadro di un’economia green, ecologica e sociale di mercato, in alternativa al consumare e produrre sempre di più qualunque cosa mediante meccanismi che alimentano disuguaglianze crescenti[1].

Siamo ormai ad oltre dieci anni dal lancio del Programma della green economy da parte dell’UNEP[2], e la penetrazione della green economy si va consolidando[3] nel mondo senza abbandonare le finalità originarie, cioè:

·        La decarbonizzazione dell’energia;

·        Il risparmio delle risorse naturali nei cicli industriali e civili, quindi l’economia circolare;

·        La tutela del clima e del capitale naturale;

·        Un benessere inclusivo e di migliore qualità per tutti.

Le modalità di assessment dell’avanzamento di tali paradigmi sulla scala planetaria possiamo ritenere siano ancora quelle stabilite dall’OECD[4]  ed approfondite nella Relazione sullo stato della green economy prodotta dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel 2018:

·        La produttività delle risorse energetiche, materiali e biologiche;

·        Lo stato e gli scenari dei cambiamenti climatici;

·        Lo stato del capitale naturale;

·        La qualità della vita e dell’ambiente;

·        Le politiche attive per lo sviluppo sostenibile: innovazione, mercati, flussi finanziari, regimi fiscali e incentivi.

Le produttività carbonica e dei materiali sono migliorate a livello globale. Tra gli anni 1990 e 2016 la produttività energetica è passata a livello globale da 5,25 a 7,94 US$2010/kep.  La produttività dei materiali non energetici è passata per i paesi OECD da 2,22 a 3,27 US$2010/kg. Nello stesso periodo, ad esempio, la Cina ha risultati inferiori di un ordine di grandezza, 0,32 e 0,68 US$2010/kg. Il quadro delle emissioni globali di CO2, pur se in costante aumento, registra produttività carboniche che, per effetto della crescita economica, vanno a livello globale nell’intervallo tra 2,25 e 3,38 US$2010/kgCO2 rispetto, ad esempio, al dato italiano che va in pari tempo da 4,39 a 6,28 US$2010/kgCO2.

Lo sviluppo sostenibile si definisce all’interno di una struttura concettuale a ciambella[6] che impone da un lato di non superare i limiti ecosistemici del pianeta e dall’altro di non scendere al disotto delle compatibilità sociali minime ed eguali per tutti della qualità della vita e dell’accesso alle risorse. La green economy garantisce gli uni e le altre. Lo Stockholm Resilience Centre[7], ci informa che il superamento dei limiti planetari è già avvenuto per la perdita della biodiversità e per i flussi biogeochimici di azoto e fosforo, mentre per i cambiamenti climatici è per ora all’orizzonte vicino che è quello del riscaldamento medio superficiale terrestre a 2 °C, il massimo dell’anomalia termica stabilito a Parigi nel 2015. La green economy, per mirare all’Accordo di Parigi, deve accompagnare le economie in transizione verso la completa decarbonizzazione alla metà del percorso, al 2050.


 

[1] Edo Ronchi, 2018, La transizione alla green economy, Edizioni Ambiente, Milano

[2] UNEP, 2008, The Green economy Initiative, lanciata il 22 Ottobre 2008 a Londra  in: https://unep.ch/etb/publications/Green%20Economy/GER%20Preview%20v2.0.pdf

[3] Fondazione per lo Sviluppo sostenibile, 2012 - 2018, Rapporti annuali sulla Green economy, disponibili in: http://www.statigenerali.org/documenti

[4] OECD, 2011, Towards Green Growth, OECD Green Growth Studies, OECD Publishing, Paris, in: http://dx.doi.org/10.1787/9789264111318-en

[5] OECD, 2017, Green growth indicators 2017, OECD Publishing, Paris, in: http://dx.doi.org/10.1787/9789264268586-en

[6] Kate Raworth, 2017, L’economia della ciambella, Edizioni Ambiente, Milano

[7] http://www.stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries.html

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Dagli Stati generali della Green economy allarme sulla transizione troppo lenta

 

Dagli Stati generali della Green economy 2019, per il resoconto puntuale dei quali rimandiamo al sito, il Rapporto 2019 sulla Green economy lancia un allarme sui ritardi dell'avvio del processo di transizione energetica ed economico sociale che deve mettere l'umanità al riparo dai gravi esiti del cambiamento climatico e accelerare il conseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Molti gli interventi di rilievo che si sono succeduti. Di seguito riportiamo alcuni dei contenuti dell'intervento guida del presidente Edo Ronchi e del responsabile energia e clima Andrea Barbabella.

Il sistema energetico mondiale, basato sui combustibili fossili, sta cambiando troppo lentamente Dal 1965 al 2018 la quota del fabbisogno mondiale di energia soddisfatta dai fossili è scesa solo dal 94 all’82%. L’aumento dell’uso di energia nel 2018 è stato ancora soddisfatto per il 71% con carbone e petrolio. Il consumo di energia nel 2018 è cresciuto del 2,9%, il massimo dal 2010. Nel 2018 il consumo di petrolio è cresciuto dell'1,5%, principalmente a causa del settore trasporti e quello di carbone è aumentato dell'1,4%, la crescita più rapida dal 2013. l contributo delle energie fossili alla generazione elettrica è rimasto stabile intorno al 64%.

Lo sviluppo delle fonti rinnovabili è troppo lento. Nel 2017 le rinnovabili hanno soddisfatto il 18,1% del consumo totale di energia. Nel 2018 le fonti rinnovabili hanno fornito il 26% dell'elettricità globale. L’utilizzo di energie rinnovabili nel riscaldamento e nel raffreddamento rimane invece limitato a circa il 10% della domanda.

La crisi climatica globale si sta aggravando. Con gli impegni dichiarati dagli Stati, siamo ben lontani dall’Accordo di Parigi: stiamo marciando verso i 3 °C a fine secolo, ritenuto un livello di riscaldamento globale molto pericoloso, dalle conseguenze sconvolgenti. Dopo tre anni di stabilità, le emissioni di CO2 sono cresciute dell'1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018, fino a un record di 37,1 Gt. La concentrazione di CO2 in atmosfera ha oramai superato 413 parti per milione, un valore che la Terra non ha mai conosciuto almeno negli ultimi 800 mila anni.

In Italia la green economy ha raggiunto, nel recente passato, risultati importanti, ma siamo probabilmente entrati in una fase di rallentamento e di difficoltà. Le emissioni italiane di gas serra non calano da 5 anni: dal 2014, quando erano di 426 Mt di CO2eq, le stesse del 2018. I dati del primo semestre del 2019 indicano un aumento. Secondo Eurostat, nel 2017 l’Unione europea ha ridotto le proprie emissioni di gas serra di oltre il 23% rispetto al 1990: il Regno Unito le ha ridotte del 40% la Germania del 28%, l’Italia, pur tenendo conto che partiva da emissioni pro capite minori, le ha ridotte solo del 17%.
 

Emissioni comparative in numeri indice rispetto al 1990 dell'Italia e dell'Europa

 

Tra il 2014 e il 2017, con una ripresa economica modesta, il consumo interno lordo di energia è tornato a crescere, da 166 a oltre 170 Mtep. Nel 2018 con una crescita del Pil dello 0,9%, il fabbisogno energetico è aumentato di quasi il 2%, facendo aumentare anche l’intensità energetica.

Dati delle dinamiche energetiche ed economiche italiane

 

Negli ultimi 5 anni la crescita delle rinnovabili in Italia si è quasi fermata. Nel 2017 le fonti energetiche rinnovabili avevano soddisfatto il 18,3% del fabbisogno energetico, contro il 17,5% della media europea, il 17,5% della Spagna, il 16,3% della Francia, il 15,5% della Germania e il 10,2% del Regno Unito.

Crescita delle rinnovabili in Italia

 

In Italia, già Paese europeo con più auto, le emissioni medie di CO2/km delle nuove auto stanno aumentando dal 2018. Nel 2018 l’Italia, con 644 automobili ogni 1000 abitanti (635 nel 2017), è il Paese europeo col tasso più alto di auto. Nei primi otto mesi del 2019, le emissioni medie specifiche delle nuove auto immatricolate sono aumentate a quasi 120 gCO2/km, il 5,5% in più rispetto allo stesso periodo di un anno fa. L’Italia sconta un ritardo storico nella penetrazione di veicoli elettrici: in totale sono state vendute meno di 10.000 auto elettriche (in Germania 68.000) e circa 6200 motoveicoli elettrici. Con 148.000biciclette elettriche vendute, l’Italia è solo il 5° mercato europeo. La gran parte della flotta di autobus pubblici è ancora alimentata a gasolio, per il 50% con standard inferiore o uguale a Euro 4. Solo alcune città italiane hanno avviato l’acquisto di autobus elettrici.

Il Rapporto dell’European Institute on Economics and the Environment e della Fondazione per lo sviluppo sostenibile dimostra che gli impatti economici del cambiamento climatico sono molto più significativi di quanto precedentemente calcolato. Queste analisi mostrano perdite di Pil di oltre l’8% nella seconda metà del secolo per l’Italia, con stime oltre sette volte superiori a quelle precedentemente effettuate. Il riscaldamento globale aumenterà le disuguaglianze economiche. I danni economici nel sud Europa saranno otto volte maggiori di quelli del nord e in Italia il cronico gap del Sud peggiorerà del 60% per la crisi climatica.

Per il clima l’Italia dovrebbe sostenere la posizione del Parlamento Europeo e dei Paesi che chiedono di rivedere gli impegni europei al 2030 per attuare l’Accordo di Parigi e aumentare l’impegno del Piano nazionale energia e clima di riduzione di gas serra dal 37 al 50% rispetto al 1990. Per poter arrivare a neutralizzare le emissioni nette al 2050 è necessario scendere dalle 426 Mt di CO2 del 2018 a 260 Mt nel 2030. Con le misure attuali si arriverebbe a circa 380 Mt. Servono misure aggiuntive per ridurre di ulteriori 120 Mt le emissioni al 2030.

Per l’efficienza energetica occorre rendere più incisiva la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato, sviluppare l’economia circolare e la mobilità sostenibile.

In materia di rinnovabili per gli usi termici occorre raddoppiare il contributo delle pompe di calore e aumentare geotermia, solare termico e biomasse, in particolare con teleriscaldamento e cogenerazione. Per le rinnovabili elettriche occorre arrivare al 65% al 2030. Per i trasporti va sostenuta l’elettrificazione dei consumi, incentivato lo sviluppo di biocarburanti avanzati, del biometano e la ricerca sull’idrogeno.

Per decarbonizzare i trasporti occorre ridurre l’uso dell’auto in città investendo nella modernizzazione dei servizi di trasporto pubblico, realizzando entro il 2025 15.000 km di corsie preferenziali, 15.000 nuovi km di piste ciclabili e attivando servizi di sharing in ogni città con più di 150.000 abitanti. Sostenere l’innovazione dei mezzi di trasporto e delle infrastrutture verso l’elettrificazione, partendo dai veicoli più leggeri, l’utilizzo del biometano, dei biocarburanti di nuova generazione e delle sperimentazioni con l’idrogeno.

Il quadro delle proposte che emerge dagli Stati generali del 2019 è il seguente:

  1. Puntare su obiettivi climatici ambiziosi

  2. Realizzare la transizione ad un’energia efficiente e rinnovabile

  3. Accelerare la transizione all’economia circolare

  4. Puntare sulla rigenerazione urbana e sulle green city

  5. Tutelare il capitale naturale e l’agricoltura di qualità

  6. Realizzare la decarbonizzazione dei trasporti

  7. Sviluppare formazione, ricerca, innovazione e digitalizzazione orientate alla green economy

  8. Attuare una riforma fiscale che, contemporaneamente, introduca una carbon tax e tagli in modo consistente il cuneo fiscale.

Su questo ultimo controverso punto richiamiamo di seguito le considerazioni che Edo Ronchi ha presentato sul Corriere della sera rilevando che la carbon tax è un passaggio obbligato per ogni possibile green New Deal.

Nel 2009 l’UNEP avanzò la proposta di un green New Deal per affrontare sia la recessione economica sia la crisi climatica. Quando si parla di green New Deal è sempre sottinteso un ingente impegno finanziario pubblico, come quello roosveltiano, e misure impegnative per affrontare la crisi climatica. Le emissioni mondiali continuano ad aumentare. Se si aspetta che tutti i Paesi partano contemporaneamente, non si arriverà in tempo a contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2 °C, come previsto dall’Accordo di Parigi. Anche l'ltalia deve fare la sua parte e aumentare il suo impegno per contrastare il cambiamento climatico per fare di questa sfida epocale un'occasione di nuovo sviluppo a basse o nulle emissioni di carbonio.

Negli ultimi anni però le emissioni di gas serra, dopo un periodo di calo, hanno ripreso ad aumentare: nel 2018 sono state le stesse del 2014. Per rispettare l'Accordo di Parigi, occorrerebbe entro il 2030 almeno dimezzare quelle del 1990, facendole scendere a circa 260 Mt. Secondo ISPRA, con le misure vigenti, mancherebbero all'appello 120 Mt (12 Mt l'anno nei prossimi 10 anni), oltre il doppio di quanto previsto dal Piano energia e clima. Il Parlamento europeo ha votato una risoluzione che chiede di aumentare l'impegno di riduzione al 2030 dal 40 al 55%. Il nuovo governo italiano non ha ancora preso ufficialmente posizione su questa richiesta.

Arrivare alla decarbonizzazione dell’economia in poco più di tre decenni richiede una conversione di ampia portata. Per azzerare le emissioni serra occorre farle diventare economicamente onerose rendendo vantaggiose le alternative. Visti i danni che provocano, non ci si può illudere che si possa continuare ad emettere gas serra gratis o a basso costo. Un impegno serio per il clima e per un green New Deal richiede una riforma della fiscalità che sposti il prelievo fiscale dal lavoro e dagli investimenti green e lo carichi su una carbon tax. I paesi che hanno introdotto misure di carbon pricing sono cresciuti da 19 nel 2010 a ben 56 nel 2019. In Europa già 10 paesi hanno introdotto una carbon tax.  In Italia hanno il carbon pricing solo i grandi impianti regolati a livello europeo dall’ETS che dal 2021 sarà piuttosto impegnativo. La gran parte delle emissioni generate al di fuori di questi grandi impianti non è invece fiscalmente disincentivata. Una carbon tax di 40 euro per tonnellata di C02 per le emissioni diverse da quelle dei grandi impianti comporterebbe un aumento del prezzo del gasolio di 10 eurocent e di 8 quello della benzina. Operando con attenzione, e con misure compensative per evitare impatti negativi e aprendo un dibattito pubblico sulla crisi climatica e sugli impatti che ha sul nostro paese, una carbon tax di questa dimensione può essere condivisa dalla larga maggioranza dei cittadini. Genererebbe 10 miliardi all'anno di nuove entrate che potrebbero rendere più consistenti le misure di green New Deal, sia per aumentare l'occupazione sia per alimentare la ripresa economica con maggiori investimenti green.

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IL RAPPORTO GE 2019

Ottava  Relazione sullo stato della green economy in Italia e nel mondo

 

La Relazione sullo stato della green economy del 2019, quest'anno corredato da un Executive Summary in lingua inglese, presenta in apertura un focus sugli “Impatti economici dei cambiamenti climatici in Italia”: uno studio realizzato dall’European Institute on Economics and the Environment in collaborazione con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile e Italy4Climate. Il 2019 è un anno di riflessione e di rilancio: l’Accordo di Parigi per il clima stenta a decollare, le emissioni mondiali di gas serra continuano a crescere, in Europa e in Italia l’impegno si è affievolito, in molte città i giovani sono scesi in piazza per chiedere maggiore impegno per il clima e il loro futuro con Greta Thunberg, una ragazzina che ha attivato un’attenzione mediatica mondiale. I temi della crisi climatica e dell’ambiente sono oggi al centro di un dibattito pubblico e sui media come mai in passato. C’è stato un cambio di maggioranza e il nuovo governo ha posto fra le priorità programmatiche un green New Deal: una proposta che gli Stati generali della green economy sostengono da qualche anno come via per affrontare congiuntamente la crisi climatica e il rilancio dello sviluppo sostenibile dell’Italia basato sulla green economy.

Con l’aggravarsi della crisi climatica, le analisi sui suoi impatti economici rilevano che in genere, anche nel recente passato, sono stati sottostimati e che lo scenario che prospettano le analisi più aggiornate è molto più preoccupante. Il riscaldamento è globale ma, come è intuibile e verificato, è maggiore nelle aree del Pianeta più calde nelle quali, per la maggior parte, si trovano Paesi e popolazioni le cui economie hanno una grande dipendenza da agricoltura e pastorizia, dalla disponibilità di acqua e di altre risorse naturali fornite dalla terra, e dove minore è la resilienza per scarsità di risorse economiche e tecnologiche: ciò alimenterà nuova povertà, nuova e maggiore instabilità globale, con una crescita di conflitti e di nuovi e consistenti fenomeni migratori.

L’Italia, pur non essendo fra queste aree più povere e vulnerabili, è tuttavia, per la sua collocazione mediterranea, uno dei Paesi europei più esposti alla crisi climatica: proseguendo con il trend attuale potremmo avere perdite di alcuni punti percentuali di Pil già a metà secolo e fino al 10% del Pil nella seconda metà del secolo. Colpisce in questa analisi anche il rilevante aggravamento, causato dalla crisi climatica, del divario delle condizioni economiche del Sud Italia rispetto al resto del Paese. I danni economici maggiori in Italia sarebbero quelli causati dalle alluvioni; quelli all’agricoltura per una variazione delle produzioni e una diminuzione delle rese; al turismo per le ondate di calore, l’avanzamento dell’erosione delle spiagge, la mancanza di neve in montagna, la frequenza degli eventi atmosferici estremi. I costi dei consumi di energia elettrica per il raffrescamento continueranno a crescere e anche quelli, di più complessa quantificazione, sanitari per l’aumento delle patologie legate all’aumento delle temperature.

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LA TRANSIZIONE ALLA GREEN ECONOMY

Lezione tenuta da Edo Ronchi alla Fondazione per lo sviluppo sostenibile

Roma, 5 marzo 2019

 

IL RAPPORTO GE 2018

Settima  Relazione sullo stato della green economy in Italia e nel mondo

Lo stato della transizione alla green economy in Italia e nel mondo viene analizzato nella tradizionale Relazione sullo stato della green economy 2018 presentata a novembre nella giornata inaugurale degli agli Stati generali della green economy ad Ecomondo da Edo Ronchi, Presidente della Fondazione,(> vedi la presentazione di Edo Ronchi). La dimensione mondiale della green economy è stata al centro della giornata conclusiva degli Stati Generali, con un confronto tra attori internazionali, istituzioni e industria sul tema: “Il ruolo delle imprese nella transizione alla green economy: i trend mondiali”. Nell’edizione 2018 particolare attenzione viene poi riservata ai problemi occupazionali: formazione di nuovi green job e perdite di posti di lavoro nella trasformazione.

“L’Italia non è all’anno zero in green economy ha sottolineato, Sergio Costa, Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. Investire in green economy significa fare economia circolare e, l’economia circolare deve sostituire l’economia lineare perché le risorse non sono illimitate. “I vantaggi economici di questi investimenti green sono molteplici secondo Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile. Il primo riguarda i costi evitati dell’inquinamento e di altri impatti ambientali; il secondo la capacità di queste scelte green di attivare, con investimenti pubblici, effetti moltiplicatori anche di quelli privati; il terzo vantaggio sta nella capacità di utilizzare e promuovere innovazione, diffusione di buone pratiche e buone tecniche”.

Alla fine di queste righe trovate una nota di presentazione della Relazione 2018 e delle risoluzioni adottate dagli Stati generali nella quale vengono riassunti i risultati dell’analisi internazionale sullo stato della green economy che la Relazione affronta dando priorità al grave ed incombente problema dei cambiamenti climatici e a quello strettamente connesso dell’avanzamento della produzione di energia da fonti rinnovabili.  Più approfondita è l’analisi dell’evoluzione green dell’economia italiana articolata nella Relazione per settori con una elaborazione aggiornata degli indicatori principali.

La Relazione sulla green economy 2018 fornisce un aggiornamento sull’andamento dei settori strategici delle green economy in Italia registrando eccellenze e cadute. L’Italia nel 2017 è prima fra i grandi Paesi europei in economia circolare, agricoltura biologica ed anche eco-innovazione, ma ha ancora molto da fare sul consumo del suolo, la tutela della biodiversità e la decarbonizzazione.

Concludiamo la nostra nota esponendo le proposte di policy elaborate dal Consiglio nazionale della green economy e fatte proprie dagli Stati generali con una dichiarata destinazione al nuovo governo ed alle forze politiche del nuovo Parlamento. (> leggi la nota)

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LA TRANSIZIONE ALLA GREEN ECONOMY

Edo Ronchi fa il punto sulla Green economy a 10 anni dal suo lancio

Quanto mai opportunamente questo libro fa il punto sulla Green economy 10 anni dopo che, nel 2008, l'UNEP ed un gruppo di economisti delle Nazioni Unite lanciarono- questo programma di promozione dell'economia per lo sviluppo sostenibile per orientare lo sforzo che alcuni Paesi stavano intraprendendo per orientare gli investimenti pubblici in chiave keynesiana per invertire il trend della grave crisi appena nata negli Stati Uniti. Gli investimenti pubblici effettivamente green furono molto diversi ed andarono da quasi il 100% nella Corea del Sud a quasi niente in Italia, ma furono rilevanti in Paesi chiave come Stati Uniti e Giappone (> vedi una presentazione storica della GE di T. Federico). Il decennale della Green economy coincide con il decennale della nostra Fondazione che ha scelto come sede di elezione per la presentazione del nuovo libro di Ronchi il suo decimo Meeting di primavera tenuto a Roma il 9 maggio del 2018. Invitati ad un ragionamento sulla transizione erano i rappresentanti dei partiti politici, dei cui interventi riferiamo più avanti.

A dieci anni di vita il concetto di transizione è al centro della Green economy. è infatti in rapida espansione il settore economico dell'industria green, classificata da Eurostat come EGSS, a causa del forte aumento della domanda da parte delle energie rinnovabili, dei rifiuti e dei servizi ambientali. Ma il punto non è questo, perché il grosso del sistema industriale resta altrove, nella produzione e nel consumo dei beni e dei servizi di largo consumo. Escludendo l'industria brown, carbone, fossili, armi, nucleare, che necessariamente deve svanire nel percorso dello sviluppo sostenibile, la partita si gioca nella penetrazione del paradigma della Green economy nella produzione, mediante la progressiva adozione delle energie rinnovabili, dell'economia circolare e del mainstreaming della gestione degli asset non finanziari e nei consumi, attraverso una radicale revisione dei modelli consumistici ormai insostenibili e e un ancor più radicale mutamento delle preferenze e delle attitudini dei consumatori. Il concetto si riassume nel processso transizionale che abbiamo chiamato go green, costituito dall'insieme di cambiamenti che progressivamente spostano gli equilibri della produzione e del consumo verso la Green economy. è un processo in rapida diffusione nel mondo, ovunque con modalità diverse. Lo prevedeva il documento finale del Summit UN CSD sullo Sviluppo sostenibile di Rio+20. Quel Summit aveva in Agenda, nel ventennale di Rio 1992, la Green economy e la governance dello Sviluppo sostenibile. rimandiamo a quel documento per una esposizione chiara di come la Green economy sia per tutti  l'economia dello Sviluppo sostenibile e possa segnare ovunque il passo dello sviluppo a condizione che i governi, con le politiche e gli investimenti, e le imprese, con la trasformazione interna e il cambiamento del posizionamento sociale, possano promuovere la transizione di cui parla Edo Ronchi. Se l'impegno dei governi richiede una difficile evoluzione delle visioni politiche e della stessa cultura amministrativa, la transizione del sistema industriale verso la Green economy è più difficile ancora a causa dei grandi cambiamenti richiesti, degli investimenti e dell'innovazione che devo essere messi in campo e delle resistenze degli interessi costituiti. Le convenienze dello sviluppo sostenibile a medio-lungo termine sono evidenti e molto spesso apertamente riconosciute sia dagli uomini politici che dai manager industriali. è il breve termine il luogo geometrico del conflitto tra vecchi interessi e nuove convenienze. La letteratura su questo argomento è immensa e la questione della transizione industriale è bene focalizzata in molti di essi tra cui, a titolo di esempio, il recente Corporation 2020, scritto significativamente dal direttore del programma UNEP TEEB per la difesa del capitale naturale.

I lettori possono ascoltare la presentazione che ha fatto lo stesso autore al Meeting di Primavera tanto scorrendo il powerpoint del quale si è servito quanto ascoltando la voce di Edo Ronchi.

Inoltriamoci ora nel libro. L'introduzione è corposa ed importante, contiene in sé lo spirito del libro che, proprio per il carattere di questa introduzione, non si serve di presentazioni né ha bisogno di conclusioni che null'altro aggiungerebbero. La visione dell'autore si racconta in una serie di passi, tutti determinanti nel disegno del libro. La fiducia nel futuro è ormai una risorsa scarsa. La mancanza di fiducia fa evaporare il pensiero critico. Lo sviluppo avrebbe dovuto migliorare la qualità della vita di tutti, senza lasciare nessuno indietro. Ha invece approfondito le disuguaglianze su tutte le scale sociali e ha generato una terribile crisi climatica ed ecologica. L'attuale sviluppo globalizzato deve essere rimesso in discussione, ma senza rinunciare ad esso quanto piuttosto  va riconfigurato come sviluppo umano (termine coniato da Amartya Sen già dal 1990), capace di futuro, rispettoso dei limiti planetari, inclusivo ma irriducibile comunque alla sola dimensione economica. Questo è il significato della transizione. Quindi l'economia ne resta al centro ma con una forte connotazione etica e con un mercato corretto e regolato dalle politiche pubbliche. L'altra sfida della transizione è la crisi climatica: quell'economia nuova deve essere decarbonizzata del tutto da qui a trent'anni e il mercato non può farlo da solo. Carbon tax e Border tax devono al più presto togliere ogni vantaggio ed ogni incentivazione alle energie fossili, accompagnate dai sistemi cap&trade e dall'imposizione di standard, secondo la sensibilità dei vari paesi. L'altro aspetto della Green economy dopo l'energia rinnovabile è la soluzione del rebus della scarsità delle risorse naturali. Qui occorre puntare su un'economia circolare e spezzare il paradigma lineare del take-make-dispose in favore del riciclo, del recupero, del riuso e della rigenerazione delle risorse per la minimizzazione del carico sulla natura e il definitivo disaccoppiamento tra ricchezza prodotta e prelievo delle risorse. La materia infatti, a differenza dell'energia, è sempre riciclabile se si dispone di abbastanza energia, di tecnologia e di disponibilità delle persone ad abbandonare l'idea dell'usa e getta. Va da se che i concetti di rinnovabilità e circolarità vanno accompagnati da quello di resilienza ecosistemica, quel limite dello sfruttamento della natura e dei suoi generosi servizi oltre il quale gli ecosistemi naturali non sono più in grado di rinnovarsi e di riprendere il loro millenario lavoro di rigenerazione circolare delle risorse. Infine un concetto caro all'autore, quello della sobrietà: "Nello spazio ecologico limitato dobbiamo starci tutti" e per questo la cattiva abitudine agli sprechi e la bulimia consumistica devono essere lasciate alle spalle.

Il primo capitolo è dedicato allo sviluppo sostenibile. In una ventina di pagine se ne traccia un (troppo) rapido profilo. Questo sito rende disponibile tutta la documentazione storico-politica necessaria (> vedi in particolare la pagina su storia e tendenze). Non ci sono in circolazione nuove idee su come dovrebbe essere uno sviluppo, anche se tutti ne deprecano l'attuale insufficienza, nè c'è un dibattito pubblico riconoscibile sull'argomento. Tuttavia il concetto di sviluppo sostenibile, seppur definito in questo libro "arrugginito", è entrato ormai nel lessico della politica a tutti i livelli. Il processo della sostenibilità è possibile ed è stato avviato. Il passo è però lento e l'ambizione globale è insufficiente: il testo ne riporta la prova con numerosi riferimenti alla lotta ai cambiamenti climatici che, come è noto, sono oggetto della Convenzione di Rio 1992, e al degrado del capitale naturale per effetto di un prelievo immane di risorse ambientali. L'autore attribuisce questa impasse ad una visione troppo debole dello sviluppo sostenibile: fattori come fame, povertà, migrazioni,occupazione e welfare non sono più problemi tra i tanti, ma ineludibili priorità. Su questo nodo critico si sviluppa l'analisi che l'autore fa dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite che sarebbe priva del necessario ordinamento gerarchico degli obiettivi e quindi sarebbe piatta e debole, priva della capacità di riconoscere i nessi obbligatori  dell'economia e della società con le condizioni con la biosfera.  Si cita al proposito lo Stockolm Resilience Center di Johann Rockström che propone una gerarchizzazione dei pilastri della sostenibilità, e quindi dei relativi SDG, e pone gli obiettivi economici al servizio della società ed entrambi in debito rispetto allo stato della biosfera. Alla stessa conclusione era giunto il Comitato italiano di esperti che ha redatto il primo Rapporto Italiano sul Capitale naturale (cfr. § 13.2 a pag.90). Lo schema delle priorità degli SDG è riportato in figura ed è di Pavan Sukhdev, ex direttore del TEEB, ed autore di Corporation 2020. Lo schema è stato presentato nell'ambito della Conferenza dello SRC sulla produzione mondiale di cibo. L'Agenda 2030 presterebbe inoltre il fianco a contraddizioni tra i vari goal che sono troppi e dotati di troppi target ed indicatori. Sappiamo che tale pericolo era già stato messo in evidenza dall'IPCC per la lotta ai cambiamenti climatici nella bozza del sommario dello SR15 sugli obiettivi di Parigi, che sarà pubblicato entro il 2018. Il target 8.1 propone ad esempio "almeno il 7% di crescita annua del prodotto interno lordo nei paesi meno sviluppati". Qui per errore il testo traduce least developed countries in paesi in via di sviluppo causando un errore di ragionamento che, includendo la Cina ed altri big tra questi, porta a conclusioni di ovvia insostenibilità generale dello SDG 8. Ovviamente non si può che condividere l'avviso che la sostenibilità, il clima, il consumo delle risorse e la preservazione del capitale naturale non sono conciliabili con gli alti tassi di crescita dei PIL dei grandi paesi che guidano l'economia mondiale, in particolare Cina e Stati Uniti. Il paradigma  che la crescita e lo sviluppo sono ammissibili soltanto entro i limiti dei confini planetari, proprio quelli quantificati dal direttore dello SRC, Johann Rockström, è ormai acquisito nel pensiero ecologico. è l'economia della ciambella teorizzata dalla Raworth, che appunto prescrive tali limiti, ma anche che i meno sviluppati, quelli che giacciono ancora nel "buco" della ciambella,  devono rapidamente emanciparsi ed entrare con noi nello spazio del benessere sostenibile. Il punto finale del capitolo è dedicato alla critica della teoria della decrescita, con argomentazioni che si aggiungono validamente alla grande messe di smentite che quelle teorie hanno ricevuto. Tra esse la più chiara è quella data dalla decrescita infelice che abbiamo subito nei lunghi anni della crisi economica iniziata dieci anni orsono. Che si tratti di teorie sbilenche è ormai un fatto assodato, tra le altre dalle argomentazioni di Stiglitz, Sen, Fitoussi e dello stesso Jackson seconda maniera (del 2016). Non c'è quindi un gran bisogno di dedicare spazio a quel tipo di proposte ormai ultraminoritarie e fuori moda. A parere di chi scrive i richiami a fine capitolo alle equazioni di Piketty e al concetto di progresso senza crescita di Jackson appaiono in qualche modo filologicamente imprecisi.

Il secondo capitolo è dedicato alle definizioni della Green economy. All'inizio se ne traccia la storia a partire dall'iniziativa dell'UNEP del 2008, all'idea del 2009 di articolare i pacchetti di stimolo per uscire dalla crisi verso un Green New Deal, fino al Summit di Rio sullo Sviluppo sostenibile del 2012 (Rio+20). Si citano le definizioni principali della Green economy dati dai vari istituti della governance mondiale dello sviluppo sostenibile. è utile puntualizzarli qui per esteso.  La Green economy è un sistema di attività economiche relative alla produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi che genera miglioramento del benessere a lungo termine senza esporre le future generazioni a rischi ambientali significativi o a scarsità ecologiche (UNEP, 2009). È a basse emissioni di carbonio, efficiente nell’uso delle risorse e socialmente inclusiva. In una Green economy, la crescita del reddito e dell’occupazione dovrebbe essere guidata da investimenti pubblici e privati per ridurre le emissioni di carbonio e l’inquinamento, per aumentare l’efficienza energetica e dell’uso delle risorse e per prevenire la perdita di biodiversità e di servizi ecosistemici (UNEP, 2012). Cerca di portare benefici sociali a lungo termine da attività a breve termine che mirano a mitigare i rischi ambientali. La Green economy è una componente che rende possibile l’obiettivo complessivo dello sviluppo sostenibile (UNCTAD, 2011). È un’economia resiliente che procura una migliore qualità della vita per tutti all’interno dei limiti ecologici del pianeta (Green Economy Coalition, 2011). Può essere vista come una lente per focalizzare e afferrare le opportunità di avanzare simultaneamente obiettivi ambientali ed economici (UN CSD, 2011). è il mezzo per raggiungere lo sviluppo sostenibile, per affrontare le crisi climatica ed ecologica, per rilanciare l’economia correggendo i limiti e i fallimenti del mercato, per promuovere un benessere inclusivo e di migliore qualità (UNDESA, 2012). La Green economy, infine, sollecita e promuove maggiore equità fra le generazioni, ma anche fra i paesi in un quadro di cooperazione internazionale. In queste definizioni non è ben argomentata la natura della crisi ecologica generata dall'attuale modello economico. Si tratta anzitutto della crisi climatica e del depauperamento degli ecosistemi naturali e dei servizi vitali che essi forniscono all'umanità. Fa bene quindi Ronchi a dedicare il secondo paragrafo alla definizione del concetto di resilienza ecosistemica ed alla crisi ecologica, specificandone lo stato, le tendenze e le priorità degli interventi che si richiedono al nuovo modello della Green economy. Il terzo paragrafo mette a fuoco il concetto di Circular economy, oggi di gran moda ma spesso usato senza la dovuta chiarezza. Di circolarità si può parlare solo con riferimento all'uso sostenibile delle risorse naturali e alla relntroduzione nel ciclo produttivo di materiali, macchine ed apparati, sfruttando la capacità di rigenerazione che ha la natura per i materiali biologici. Il beneficio per il risparmio delle risorse può essere decisivo per la sostenibilità dei cicli industriali. La circolarità è dunque una delle caratteristiche principali della Green economy (in figura ne riportiamo un'efficace rappresentazione insiemistica, da EEA, 2015). Diverso è il percorso dei flussi energetici la cui dotazione entropica non può che aumentare (II Principio). Per l'energia vale il concetto di rinnovabilità, cioè dell'uso diretto dell'energia solare, ma i cicli energetici restano lineari. Circolarità e rinnovabilità sono pertanto due descrittori del modus operandi della Green economy. Il terzo è la qualità del benessere. Qualità ecologica ed inclusività sociale sono le caratteristiche della Green economy cui è dedicato il paragrafo finale. La povertà, le diseguaglianze economiche e di genere e la disoccupazione sono i bersagli del cambiamento di modello di sviluppo. Il welfare al quale siamo abituati in occidente va ridefinito e condiviso su scala globale. Occorre un benessere più sobrio e di migliore qualità che comporta la diminuzione dell'abitudine al consumo superfluo e  indirizza il risparmio e le maggiori risorse che si rendono disponibili in varie altre direzioni: salute, istruzione, attività culturali, alimentazione migliore, prodotti di migliore qualità, migliore benessere abitativo, una mobilità non congestionata e via dicendo. Le nuove attività e i nuovi consumi più sobri possono crescere e compensare ampiamente economicamente l’abbandono del consumismo sprecone e inquinatore. Non c'è alcun bisogno per questo di fare ricorso ai modelli di vita ascetici cari ai teorici della decrescita.

ll terzo capitolo è il cuore del libro e contiene tutti i messaggi sulla centralità e l'attualità del processo di transizione alla Green economy. Sono 45 pagine dense di argomentazioni e di dati del tutto originali nel panorama asfittico della cultura italiana. Inizia con un excursus sulle teorie economiche cui si riconosce un carattere storico e transitorio. Che si possano apparentare con le teorie scientifiche alla Thomas Kuhn (1962) è dubbio dal momento che esse hanno marxianamente un carattere politico, cioè legato ad un tipo di dominanza di interessi, di classe o altro. Purtuttavia, se non per confutazione ed aggiornamenti, esse si succedono seguendo il corso delle forze sociali che le determinano. Così è la storia delle rivoluzioni, delle guerre e delle crisi che ci hanno accompagnato fino alla crisi del 2008 senza che mai gli economisti siano stati in grado di prevedere o contrastare queste emergenze senza l'apporto empirico delle politiche. Le nuove teorie economiche si affermano, si legge, per la loro capacità di rappresentare i cambiamenti. La freccia della causalità va dunque dalla storia alla sua interpretazione sotto forma di teoria economica, non viceversa. Per la Green economy la storia è fatta dal degrado ambientale e sociale cui essa tenta di porre argine. Ma se non avesse una base etica solidale, di maggiore equità sociale, sarebbe poco credibile. Il paragrafo si conclude con una citazione molto a proposito dell'enciclica Laudato sì di Papa Francesco del 2015.

Il secondo paragrafo definisce la transizione: essa punta a realizzare "uno sviluppo sostenibile quale sviluppo umano capace di futuro", nel quadro di un’economia ecologica e sociale di mercato, regolata e indirizzata dalle politiche giuste. La transizione alla Green economy è alternativa a un’economia fondata sul consumare e produrre sempre di più qualunque cosa e su meccanismi che alimentano crescenti disuguaglianze, perché punta su uno sviluppo umano basato su un migliore benessere e sull’inclusione sociale, entro uno spazio ecologico sicuro. La transizione punta su una crescita qualitativa e quantitativa selettiva: mira a far crescere molte attività e a cambiarne e riqualificarne molte altre. Dovranno essere eliminati dall'economia il carbone e la combustione dei fossili, chiuse le centrali nucleari, tolti dall'ambiente gli inquinanti e i rifiuti con una urgenza proporzionata alle crisi ecologica e sociale in atto. Le politiche correnti non sono omogenee nella chiave della transizione, gli investimenti tardano ad orientarsi alla Green economy, la spesa per la ricerca e l'innovazione non è sufficiente. I tempi della transizione ne risultano rallentati e il cambiamento non è diffuso abbastanza.

Qual è il ruolo delle politiche pubbliche? Sono necessarie politiche pubbliche in grado di internalizzare i costi esterni, con vari strumenti economici: tasse, imposte, tariffazioni o disincentivi per gli impatti negativi, permessi di emissione e sistemi certificati. Le politiche di di incentivazione economica: investimenti agevolati, tassi agevolati, esenzioni, sussidi, tariffe incentivanti, assicurazioni agevolate, sgravi fiscali, nonché diversi strumenti per il credito garantito a lungo termine, sono indispensabili per la transizione e non possono contemporaneamente sostenere economie con finalità opposte. La carenza o la eccessiva debolezza di tali strumenti sono fra le ragioni sostanziali del passo lento della Green economy e della sua mancata estensione, perché senza internalizzazione dei costi e dei vantaggi reali la competizione con l'economia corrente non avviene ad armi pari. Per indirizzare produzioni e consumi verso la Green economy è indispensabile che i costi ambientali siano posti a carico di chi inquina. La fiscalità è lo strumento principe per riequilibrare i costi esterni ambientali, per farli emergere con trasparenza e ripartirli con equità fra chi li genera. Ci sono ampi margini per riformare la fiscalità vigente – principalmente basata sulle accise sui prodotti energetici – per un maggiore utilizzo di imposte specifiche sulle emissioni, come la sempre più urgente carbon tax.

Il quarto punto è dedicato all'innovazione. Essa è stata storicamente diretta ad accrescere la produttività e tagliare posti di lavoro e salari. è ora di orientarla alle finalità dell'interesse generale e alla conservazione di tutte le forme del valore della ricchezza, quindi occupazione e capitale umano, rigenerazione degli ecosistemi, del territorio, delle città e del capitale naturale, individuazione forme di governance consapevoli, partecipate, aperte  e capaci di futuro.  Grande il ruolo delle ICT per la partecipazione, lo scambio di conoscenza e di know how ed anche per nuove forme di democrazia. I paragrafi 5 e 6 sono dedicati al ruolo del settore privato, finanza ed imprese: un ruolo altrettanto se non di maggiore importanza per la transizione rispetto alle politiche pubbliche di normazione e di governo. L'incentivazione finanziaria è un compito tanto del pubblico quanto del privato. Accessi affidabili a fondi sufficienti e a finanziamenti adeguati sono essenziali per sostenere la transizione. Le regolazioni finanziarie restrittive a livello globale del credito e della liquidità, un chiodo fisso della governance neo-liberista,  possono avere effetti negativi per la richiesta di investimenti ambientali che comportano costi di capitale più alti. Il mondo della finanza dovrà adeguarsi ai nuovi modelli di economia circolare che comportano un  cambio di prospettiva verso la vendita di servizi invece che di merci. I diritti di proprietà dei prodotti non sono più trasferiti al consumatore, ma saranno tenuti dalle compagnie di produzione. Il business non deriverà dal pagamento all’inizio del ciclo di vita del prodotto, ma durante il suo periodo d’uso. Occorre per questo abbandonare il modello delle convenienze finanziarie a breve termine: i costi delle politiche ambientali vanno in genere sostenuti nel breve termine, mentre i benefici generati si manifestano tipicamente più nel medio e lungo termine.

Questo fondamentale capitolo si conclude con un approfondito esame del ruolo e delle responsabilità delle imprese. Il sistema delle imprese,  essendo il “principale esecutore economico dell’umanità” ha la maggiore responsabilità sia della insostenibilità dello sviluppo economico, sia del suo cambiamento in direzione della Green economy (Sukhdev, 2012). Gran parte delle analisi a scala globale documentano la solidità ormai raggiunta delle radici e dell’impianto su cui si basano le imprese che intraprendono la transizione (go green), in particolare nei paesi industriali maturi, dove sono inserite in un percorso di cambiamento in atto da anni che punta ad elevate performance ambientali. Un'indagine italiana (Istat) rileva le ragioni principali che le imprese indicano alla base delle innovazioni ambientali introdotte: la presenza di una normativa ambientale e anche la prospettiva di nuove norme in materia; la disponibilità di incentivi per le innovazioni ambientali e/o di tassazioni e altri disincentivi economici per gli impatti ambientali; la domanda di beni e servizi di qualità ambientale già attiva e comunque attesa per il prossimo futuro; l’adozione di accordi o di impegni di miglioramento ambientale; iniziative di apprendimento di buone pratiche e buone tecniche in campo ambientale. L’elevata qualità ecologica, compresa quella delle basse o nulle emissioni di gas serra, l’uso efficiente e il risparmio delle risorse, la qualità del benessere e l’inclusione sociale possono convivere anche con buone performance economiche per le imprese.  Oltre alle regolamentazioni e prescrizioni normative, per le imprese hanno grande importanza le innovazioni che migliorano l’offerta dei loro prodotti. Una migliore efficienza energetica e nell’uso dei materiali può ridurre anche i costi di produzione e migliori gestioni ambientali sollecitano più efficienti gestioni del processo produttivo. L’innovazione spesso segue anche i cambiamenti delle caratteristiche della domanda: l’aumento della sensibilità e dell’attenzione ambientale ha ormai un ruolo rilevante nell’orientare le scelte dei consumatori e quindi gli sbocchi di mercato dei prodotti di migliore qualità ecologica. Nel mondo delle imprese go green vi sono ormai figure di imprenditori e di manager con orientamenti avanzati, come dimostra una indagine a campione condotta nel 2014 dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile. Le imprese go green dovrebbero poi considerare il rapporto col proprio territorio in modo positivo e attivo. Nei rispettivi territori le imprese go green possono contribuire anche finanziariamente a sviluppare, senza costi eccessivi, iniziative ambientalmente virtuose di qualificazione, di infrastrutture verdi, in modo da non essere – e non essere percepite – come un corpo estraneo o ambientalmente ostile nel territorio. A maggior ragione la realizzazione dei nuovi impianti dovrebbe essere condotta da ogni impresa con grande attenzione alla corretta informazione e al dialogo con i territori, valorizzandone i benefici ambientali e occupazionali.

Il quarto capitolo, sviluppato con la collaborazione degli esperti di settore della Fondazione,  segue la ripartizione dell'economia del modello UNEP del 2011: energia, agricoltura manifattura, costruzioni, rifiuti, trasporti e turismo. Sono tutti settori dell'economia corrente per i quali, come per la dimensione urbana, è quanto mai opportuno fare il punto della transizione. Si sente però la mancanza di un capitolo dedicato alla dimensione inclusiva della Green economy, quindi alla capacitazione del capitale umano, alle diseguaglianze, all'occupazione, all'accoglienza, alle donne e al nuovo modello di società. I settori economici sono trattati con una grande messe di dati e numeri, quanto più possibile aggiornati. Questi capitoli sono pertanto una miniera di dati di fatto che sostengono le nostre tesi sull'attualità ma anche sull'urgenza del completamento della transizione green nelle chiavi del rilancio dell'economia, dopo una crisi certamente brown, dell'Europa e  del benessere.

Ne vediamo qui essenzialmente i messaggi: l'energia della transizione è solo rinnovabile. Il percorso è tracciato dall'Accordo di Parigi sul clima, in base al quale la decarbonizzazione dell'economia mondiale deve avvenire intorno alla metà del secolo. Solare ed eolico sono le punte di lancia della transizione. I loro costi continuano a scendere, le tecnologie dei generatori e delle reti sono ormai mature, ma gli incentivi alle fonti fossili devono essere eliminati. Le rinnovabili consentiranno di abbattere l'inquinamento dell'aria che è una ipoteca globale crescente sulla salute e sulla qualità della vita, soprattutto nelle megalopoli avanzanti. Eviteranno le scarsità e i conflitti gravissimi creati dall'appropriazione delle fonti minerarie dei fossili: il sole e il vento sono eguali per (quasi) tutti. è dal settore dell'energia che verrà, se lo si vorrà, la soluzione al problema del cambiamento climatico.

Gli estensori del testo sull'agricoltura sembrano occuparsi unicamente della situazione italiana. La produzione di cibo è viceversa una drammatica emergenza mondiale. I messaggi che leggiamo sono piuttosto generici e parlano di agricoltura biologica, di riduzione di fertilizzanti e fitofarmaci e di resilienza ai cambiamenti climatici. Non di problemi occupazionali, né di migranti né di precariato e di sfruttamento dei lavoratori stagionali.

Il settore industriale e quello della manifattura sono il cuore del problema della Green economy e della transizione. Ad esso si deve un terzo delle emissioni climalteranti globali e la manifattura è da sempre la sede principale di generazione di esternalità negative per l'ambiente e di esternalità sociali che, seppur positive in gran parte, non possono nascondere talune gravi evidenze come la delocalizzazione degli impianti e la precarietà occupazionale. I messaggi per la sostenibilità sono il ricorso all'energia rinnovabile e la circolarità delle risorse. Della circolarità fa parte la bioeconomia, la sostituzione di materie fossili con risorse naturali e la progressiva eliminazione dei rifiuti. L'Italia è all'avanguardia. Il messaggio comprende anche la promozione della sharing economy e, tendenzialmente, della sostituzione dei beni in proprietà con i servizi, una proposta che viene da lontano dall'area ecologica tedesca e che però ha bisogno di una ridefinizione, ancora impervia, dei modelli di business e di consumo. Lodevole l'accenno finale al problema occupazionale ma manca un esame delle implicazioni sociali dell'automazione, della delocalizzazione e della precarietà, compresi fenomeni come quelli della gig economy (figura a dx) e del selfemployment nelle catene industriali del valore.

Per la transizione del settore delle costruzioni si parla di rigenerazione urbana, cioè il recupero, riqualificazione, riuso, riciclo e manutenzione degli edifici e delle opere urbane. Si tratta anche qui di economia circolare, con il beneficio atteso dell'azzeramento del consumo di nuovo suolo, contro  lo sprawl ed ogni sorta di gentrificazione, anche apparentemente benefica. è evidente che anche qui si parla di Italia e di Europa, ma il problema è mondiale. In Europa il 40% dell'energia primaria finisce nel settore dell'edilizia, nei consumi e anche nella produzione. L'efficienza energetica è pertanto l'altra chiave della transizione alla Green economy. Edifici intelligenti a consumo ed a rifiuti zero, nuovi materiali ed infrastrutture verdi sono i paradigmi per le nuove costruzioni e, nei limiti del possibile, del retrofitting.

I rifiuti sono il settore di primo impatto dell'economia circolare. Questo contributo è molto ben costruito ed articolato, come è nella tradizione della Fondazione. è tutto giocato sul paradigma dell'economia circolare e dell'efficienza dell'uso delle risorse. Dal 1970 la produttività mondiale delle risorse si è triplicata ma il consumo globale delle stesse è aumentato di più. In Europa il tasso di circolarità medio è dell'11% ma l'Italia (19%) è seconda dietro l'Olanda (27%). La raccolta differenziata in Italia supera il 60% nelle Regioni migliori, ma in Sicilia è al 15%. Dovrà arrivare al 65% in media per rispettare l'obiettivo europeo del 55% al 2025. In 20 anni il ricorso alle discariche è sceso dall'85 al 25% in media. Viene auspicato un sistema di incentivazione e di tassazione compatibile con l'abbattimento della quantità dei rifiuti prodotti e con la circolarità. Gravi nuovi problemi come le microplastiche nelle acque e nei prodotti industriali e alimentari non sono per ora referenziati.

Nei trasporti si gioca gran parte della transizione alla Green economy. I trasporti generano a livello mondiale il 24 % delle emissioni di carbonio. La domanda di mobilità cresce, indifferente alle crisi. Le risposte sono scontate quanto di difficile attuazione. Veicoli elettrici, ciclopedonalità e trasporto pubblico o condiviso. Nella transizione occorrono incentivi all'innovazione e carbon tax. Il 75% delle emissioni ha origine nelle città. Drammatica la situazione della logistica, dove il commercio elettronico aumenta i veicoli in circolazione. Come per le smart grid elettriche, anche l'elettrificazione dei trasporti dipende dalle tecnologie e dai costi delle batterie. Questi ultimi per fortuna, decrescono rapidamente. Gli altri ostacoli ad una transizione non più rinviabile vanno cercati nella testa delle persone.

La materia prima del turismo è il capitale naturale cui si aggiunge in paesi come l'Italia il patrimonio artistico e culturale. Il settore è in rapida e devastante espansione a livello mondiale e tende a distruggere proprio gi asset ambientali e culturali su cui poggia. L'entropia del sistema turismo evolve in crescita verso la perdita delle biodiversità ambientali e culturali con elementi di preoccupante irreversibilità. Se ne è occupata non a caso la Convenzione ONU sulla biodiversità con la pubblicazione di linee guida per il turismo sostenibile. Il messaggio d'allarme è chiaro in questo contributo, molto meno una strategia per la transizione dove si fa cenno solo al pagamento dei servizi ecosistemici, un concetto affermato nella protezione del capitale naturale che qui risulta generico. Quindi che fare se non si dice niente sugli incentivi alle compagnie aeree, sulle grandi navi, sulla mobilità privata, sul settore del lusso, sul numero chiuso, sulla fiscalità, etc.?

Il corposo quinto capitolo si occupa del ruolo delle città del quale la Fondazione si è occupata a fondo nell'ultimo anno, non da sola, bastando pensare all'UN Habitat III di Quito a fine 2016. Le città ospitano oltre la metà della popolazione mondiale, in crescita, producono l'80% del PIL e il 70% delle emissioni globali consumando il 70% delle risorse e dell'energia. Della sostenibilità di questa matrice ambientale antropogenica e antropomorfa si occupano progetti di innovazione urbana e, tra essi, il Green city, punto di concentrazione delle maggiori istituzioni internazionali. Anche qui si punta il dito sul consumo di suolo e sullo sprawl. Le proposte sono articolate sulla rigenerazione urbana e sulle infrastrutture verdi, entrambe condizioni per un sostanziale aumento della resilienza urbana ai fenomeni estremi del cambiamento climatico. Così presentata la città non appare abitata da uomini e donne ma solo da cose più o meno sostenibili e da reti tecnologiche. E le periferie, la povertà, la immigrazione urbana dei poveri delle megalopoli mondiali scacciati dalla mancanza di risorse, dal caldo, dal freddo e dal clima?

Una breve conclusione al libro è incorporata in questo capitolo. Vi si ricorda che green non vuol dire solo ambiente ma anche gioventù. Da noi non è accettabile che un giovane su tre sia senza lavoro e che gli altri siano quasi tutti precari senza futuro.

Il libro di Ronchi è stato commentato al termine della presentazione nel Meeting di primavera 2018 della Fondazione. Di seguito potete scaricare l'audio della presentazione a cura dell'autore e i commenti di Jean Paul Fitoussi e di Andrea Orlando.

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IL RAPPORTO GE 2017

Sesta Relazione sullo stato della green economy

La Relazione del 2017 è dedicata alle città. è stato sviluppato un sondaggio richiedendo l'opinione dei cittadini sul clima, l’energia, l’economia circolare, la rigenerazione urbana, il capitale naturale e le infrastrutture verdi, la mobilità urbana sostenibile e i vantaggi della green economy per lo sviluppo locale.

L’indagine è stata realizzata da "Demetra opinioni" su un campione rappresentativo di 1.500 italiani maggiorenni stratificato secondo le principali variabili demografiche, intervistato via telefono e via web utilizzando un questionario a domande chiuse predisposto ad hoc in collaborazione con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile. La numerosità campionaria, ad un livello di confidenza del 95%, dà un errore del ± 2,5%.

 I 58% dei cittadini è  informato sulla green economy e oltre il 70% dà importanza alle politiche pubbliche per la sostenibilità. Le misure per il clima e l’energia incontrano un consenso superiore al 90% ed il 64% dimostra willingness to pay per l'energia rinnovabile. 9 intervistati su 10 sono favorevoli a misure per la rigenerazione urbana e l’economia circolare e 8 su 10 sono favorevoli ad attuare misure per eliminare gli sprechi idrici, così come alto è il consenso sulla proposta di multare chi non fa la raccolta differenziata (87%). Sempre alto (90%) è il consenso verso le misure per tutelare il capitale naturale e le infrastrutture verdi, e 7 intervistati su 10 vorrebbero veder aumentare la diffusione dei prodotti biologici anche se costassero il 10% in più. Le misure per una mobilità più sostenibile sono al 90% e calano un po’ quando diventano molto impegnative, come il divieto di vendere auto a gasolio e a benzina entro 10 anni (77%). L’opinione che in periodi di crisi le misure di green economy siano troppo costose resta abbastanza diffusa (57%), ma è molto alto anche il consenso sul fatto che la green economy possa migliorare lo sviluppo locale (intorno al 90%). Per lo sviluppo locale la green economy è la preferita, poco dietro alla filiera agroalimentare, l’imprenditoria giovanile e il turismo, ma molto avanti rispetto alla manifattura e anche alle nuove tecnologie.  

è dunque probabile che  tali  questioni  potrebbero  avere  un  peso rilevante nell’orientamento elettorale dei cittadini, confermando l’ipotesi che era alla base del Manifesto per lo sviluppo della green economy nelle città lanciato lo scorso anno.

Per la prima volta la Fondazione prova a guardare la Green economy italiana a partire dallo stato di sviluppo delle città rappresentandolo con i dati quantitativi degli indicatori. Si è scelto il criterio di analisi dei capoluoghi di provincia, un criterio originale urbano-centrico che non considera il territorio provinciale ma solo quello urbano. Le difficoltà di reperimento dei dati sono immense. I dati disponibili sono limitati, disomogenei e spesso imprecisi. La selezione degli indicatori è stata  condizionata da questa arretratezza del sistema statistico italiano, non ancora avvezzo alla manipolazione dei big data e all'uso estensivo della strumentazione informatica. Alla fine la lista degli indicatori "trattabili", guidata dalle scelte UNEP e OECD, si è dovuta limitare ai seguenti temi e alle seguenti variabili:

- Clima: Il patto dei sindaci per il clima

- Energia: Lo sviluppo del fotovoltaico

- Risorse naturali: Le perdite nelle reti idriche

- Mobilità sostenibile: Autovetture a combustibili alternativi, piste ciclabili e offerta di mezzi pubblici di trasporto

- Rifiuti: Raccolta differenziata

- Governance: Green public procurement. Città che hanno fatto acquisti  adottando i Criteri ambientali minimi (Cam) in almeno una procedura su undici tipologie di merci.

Il quadro che emerge da questa analisi è fatto di luci e ombre. Quasi tre capoluoghi su quattro hanno aderito all’iniziativa europea del Patto dei Sindaci, a cominciare dai comuni di grandi dimensioni, ma quasi la metà di questi non hanno rispettato le scadenze. Sul fotovoltaico, le aree urbane medio-piccole hanno risultati migliori di quelle metropolitane ma tutte risentono negativamente del trend delle politiche nazionali degli ultimi anni. Nella gestione delle risorse idriche, i comuni più virtuosi presentano perdite pro capite che sono 10-20 volte inferiori a quelle dei comuni che sprecano di più, confermando ampi margini di miglioramento in questo settore; tuttavia, nonostante la situazione sia nota da anni, nel complesso le perdite sono cresciute (e Roma si conferma tra le peggiori aree metropolitane in questo senso). Un discorso analogo sulla mobilità: nonostante le dichiarazioni circa l’importanza di riequilibrare la ripartizione modale sfavorendo il mezzo privato, negli ultimi anni l’offerta del trasporto pubblico è diminuita nella maggior parte delle nostre città; d’antro canto, è cresciuta la diffusione delle autovetture alimentate con combustibili alternativi, ma a ritmi ancora troppo blandi, e la dotazione di piste ciclabili, più nei piccoli centri che nelle aree metropolitane (con alcune lodevoli eccezioni, come Milano e Firenze). I rifiuti raccolti in modo differenziato e avviati a riciclo continuano a crescere ma, anche in questo caso, i divari tra le aree geografiche restano troppo alti e, con poche eccezioni (come Andria, Barletta e Oristano), i comuni meridionali faticano a recuperare il gap. Un dato positivo, infine, viene dal fronte degli acquisiti verdi: quasi la metà dei capoluoghi ha adottato, in modo più o meno diffuso, criteri ambientali nelle procedure di acquisito, segno che la sensibilità della Pubblica Amministrazione verso questi temi è in crescita e che i nuovi strumenti messi in campo dal Ministero dell’Ambiente stanno funzionando.

Lo stato della green economy in Italia. Anche quest’anno la Relazione aggiorna l’analisi delle tematiche strategiche della green economy in Italia: le emissioni di gas serra, l’efficienza e il risparmio energetico, le fonti rinnovabili, l’economia circolare, l’ecoinnovazione, l’agricoltura di qualità ecologica, il capitale naturale e la mobilità sostenibile.

Sono possibili tendenze al peggioramento delle emissioni di gas serra in Italia: dopo l’aumento del 2015 abbiamo avuto un calo delle emissioni di CO2 nel 2016, ma le previsioni del 2017 sembrerebbero indicare un nuovo aumento. Gli impatti del cambiamento climatico  sono  in peggioramento: nel 2017 abbiamo avuto un’ondata di siccità e di calore preoccupante e in autunno nubifragi che hanno prodotto danni  rilevanti in diverse località. L’Istat ha documentato che i nostri ghiacciai alpini negli ultimi 40 anni hanno già perso quasi la metà dei propri volumi. I consumi energetici dopo un lungo periodo di calo nel 2015 e nel 2016 hanno ripreso ad aumentare, in particolare quelli di gas. Il Piano nazionale per l’efficienza energetica del 2014 indicava come obiettivo di riduzione dei consumi energetici tra il 2011 e il 2020  15,5 Mtep: al 2015 il risparmio conseguito è stato di 6 Mtep, circa il 40% del target in cinque anni. Con i trend attuali non raggiungeremo l’obiettivo fissato al 2020. Nel 2015 l’Italia ha superato il suo obiettivo di quota di rinnovabili sul consumo interno lordo con il 17,5%, a fronte di una media europea del 16,7%. Tuttavia  nel settore elettrico, che rappresenta circa il 40% di tutte le rinnovabili, nel 2017 stiamo registrando la prima flessione assoluta con un forte calo della produzione idroelettrica, un lieve aumento nel fotovoltaico che compensa appena il calo dell’eolico e con l’elettricità da biomassa che non è sostanzialmente cresciuta. Sintomatico anche il calo degli investimenti nelle rinnovabili, da 3,6 miliardi nel 2013 a soli 1,7 nel 2016. Nel 20° anniversario del DLgs 22/97 oggi in discarica va il 26% contro l'80% del '97 e la raccolta differenziata ha raggiunto il 47%, con 14 Gt di rifiuti urbani riciclati in circa 5.000 imprese che occupano 120.000 dipendenti e fatturano diverse decine di miliardi.

Lo stato della green economy nel mondo. La Relazione 2017 aggiorna i dati sull'andamento globale dei fattori della green economy con riferimento particolare ai risultati presentati dall'UNEP e dall'OECD IEA. Il documento dedica un focus alla comparazione fra Europa, Cina e Stati Uniti.

L’Europa ha conseguito con anticipo gli obiettivi del pacchetto di misure per il clima al 2020, ma nel nuovo pacchetto al 2030 ha identificato target (27% di rinnovabili sul consumo finale lordo e 30% di riduzione del consumo tendenziale di energia) che difficilmente consentiranno di centrare l’obiettivo di riduzione dei gas serra del 40%.

La Cina ha puntato in passato su un modello di crescita accelerata, basato sulle esportazioni, di bassa qualità ed elevati impatti ambientali, con un utilizzo di carbone come fonte di energia di gran lunga prevalente. Questo modello di crescita ha fatto diventare la Cina una potenza economica mondiale, ma anche il principale paese emettitore di gas serra (con il 29% delle emissioni globali di CO2), con emissioni totali ormai superiori a quelle degli Stati Uniti ed emissioni pro capite superiori a quelle europee. Ora la Cina sembra intenzionata a cambiare strada: sta diminuendo l’uso del carbone e aumentando quello delle energie rinnovabili. Le sue emissioni di gas serra non crescono dal 2014.

Circa il 40% delle emissioni di gas serra degli Stati Uniti proviene da Stati che hanno ufficialmente dichiarato che manterranno il loro impegno di riduzione di gas serra in attuazione dell’Accordo di Parigi. Per ora gli investimenti nelle rinnovabili negli Usa continuano a crescere: a marzo e ad aprile del 2017 solare ed eolico, per la prima volta, hanno superato il 10% della domanda elettrica. Gli Stati Uniti continuano a essere leader mondiale nella produzione di biocombustibili e nelle tecnologie per l’efficienza energetica. Le emissioni di green bond nel 2016 sono state 80 volte superiori a quelle del 2012, raggiungendo la cifra di 38,4 miliardi di dollari. Per ora sembra che le dichiarazioni di Trump sull’Accordo di Parigi non siano in grado di produrre effetti rilevanti sulle concrete misure economiche e tecnologiche per il clima, ormai avviate negli Stati Uniti. > leggi tutto

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IL RAPPORTO GE 2016

Quinta Relazione sullo stato della green economy in Italia

La Relazione 2016 propone una riflessione internazionale ed europea sulla green economy. La prima parte offre una valutazione comparata fra le performance della green economy italiana, la media europea e quella delle altre 4 economie più importanti (Germania, Francia, Regno Unito e Spagna). La comparazione riguarda 8 tematiche strategiche (le emissioni di gas serra, l’efficienza energetica, le fonti energetiche rinnovabili, l’efficienza delle risorse, l’ecoinnovazione, l’agricoltura di qualità, il capitale naturale, la mobilità sostenibile) ed è effettuata con 16 indicatori. La Relazione stila quindi una graduatoria per ogni indicatore e una finale fra le performance delle 5 principali economie europee.

La seconda parte della Relazione pubblica un approfondimento internazionale relativo alla green economy italiana, realizzato dal centro di ricerca “Dual Citizen” di Washington DC che ha indagato e comparato la green economy di 80 Paesi. L’analisi mette a confronto 4 dimensioni (leadership e cambiamento climatico; efficienza di alcuni settori; mercato e investimenti; ambiente). Viene valutata e stilata una graduatoria sia delle performance della green economy di questi paesi sia della percezione internazionale della green economy di ogni Paese registrata da un numero qualificato di esperti. L'elemento critico di questa analisi è la sistematica sottovalutazione, in termini della cosiddetta percezione da parte degli esperti, della reale performance dell'Italia. Un elemento non inconsueto per il nostro paese che ha suscitato molte discussioni nel corso degli Stati generali a Rimini.

La terza parte fornisce un aggiornamento dei progressi della green economy a livello internazionale. In particolare fornisce alcuni dati aggiornati sulle politiche climatiche dopo l’Accordo di Parigi per il clima; i dati, prodotti dall’OCSE nel 2016, relativi a 4 indicatori guida della green economy su scala mondiale e, infine, i risultati più importanti del Rapporto internazionale “State of green business 2016”, realizzato da GreenBiz, in collaborazione con Trucost che valuta le performance green di 1600 grandi imprese presenti in 24 Paesi.

 

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AGGIORNAMENTO DELLO STATO DELLA GREEN ECONOMY NEL MONDO E LA NUOVA AGENDA 2030

di Toni Federico, 2016

(> leggi il Rapporto integrale)

L’anno 2015 è un punto cruciale di snodo dello sviluppo sostenibile e della green economy a livello internazionale. C

La green economy fu lanciata come programma per lo sviluppo mondiale dell’economia nel 2008-2009 dall’UNEP e poi seguita con alcune varianti dall’OECD come green growth. A quella data le ambizioni dell’UNEP erano ancora quelle di stabilirsi come Agenzia dell’ONU per lo sviluppo sostenibile (era allora un Programma) e fu anche merito suo se il Summit decennale sullo sviluppo sostenibile del 2012 (Rio+20) mise in agenda sostanzialmente due punti: la green economy e la governance internazionale dello sviluppo sostenibile. Furono anche gli anni in cui l’UNEP produsse il massimo sforzo per la copertura dei tre pilastri dello sviluppo sostenibile con il Progetto TEEB per la biodiversità, la green economy e il Progetto di Inclusive Wealth (di marca Stiglitziana) per l’equità, il welfare e gli altri aspetti sociali.

Lo sforzo dell’UNEP fu solo parzialmente premiato a Rio+20, perché mentre alla green economy venne riconosciuto il ruolo di guida della transizione verso un modello di sviluppo economico sostenibile e verso la eradicazione della povertà (la transizione green), l’UNEP ne uscì potenziata dal punto di vista economico e politico, fu dotata di un’Assemblea generale, ma la governance dello sviluppo sostenibile salì di livello e passò direttamente sotto il controllo dell’ECOSOC, Il Comitato Economico e sociale che coordina le 14 Agenzie dell’ONU, che avrebbe operato da allora in avanti con un’Assemblea annuale e una sessione speciale dell’Assemblea generale UNGA ogni quattro anni.

La prima di queste ha avuto luogo nel settembre 2015 a New York ed è lì che si intrecciano tutti i fili dello sviluppo sostenibile. La 60° UNGA mette capo contemporaneamente al Summit di Rio+20, alla verifica quindicennale degli obiettivi del millennio, gli MDG, e alla gestione politica, per saldarli in un programma unico per lo sviluppo sostenibile che prende in questa occasione il nome di Agenda 2030, in continuità ideale ed operazionale con l’Agenda 21 di Rio 1992. Il quadro strategico dell’Agenda 2030 si completa a Parigi, in Dicembre, con la 21° Conferenza delle Parti sul clima, che fissa i nuovi obiettivi della lotta contro i cambiamenti climatici, che resterà, a livello internazionale, sotto il controllo della Convenzione climatica UNFCCC di Rio.

Se non l’unica, la gestione ONU delle politiche di sviluppo, resta l’istanza principale per la guida della transizione green a livello globale. Dal 2015 infatti comincia una fase nella quale alle azioni dei governi si aggiungono, in forma sempre più autorevole, le azioni del sistema industriale e quelle della società civile organizzata, in continua crescita di estensione e di efficacia.

L’Agenda 2030 non è articolata nelle dimensioni usuali dello sviluppo sostenibile, ambiente, economia, società e governance, quanto piuttosto per temi intersettoriali di primaria esigenza per lo sviluppo. Tali temi hanno trovato una sintesi condivisa da tutti i paesi dell’ONU in 17 nuclei strategici e programmatici cui è stato dato il nome di Sustainable Development Goals, SDGs, accompagnati ciascuno da obiettivi (target) che ne specificano i contenuti e le finalità.

Per la verifica dei conseguimenti che i vari paesi potranno ottenere, sulla base delle particolarità nazionali e sulle specifiche scelte e priorità per lo sviluppo, l’ONU ha messo in campo una Data Revolution che è un Programma mondiale che dovrà mettere tutti i paesi in grado di sviluppare programmi nazionali di analisi statistica delle rispettive realtà locali, con linee di assistenza, anche economica,  da parte di chi ha già le potenzialità tecnico-scientifiche necessarie di elaborazione dei dati. Si tratta di portare poco meno di 200 paesi alla condizione di stimare quantitativamente i 240 indicatori scelti a presidio dei 17 goal e dei relativi 191 target. Nella primavera del 2016 il Gruppo di lavoro ad-hoc, IAEG, istituito dall’ONU, ha reso nota la lista di questi indicatori.

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IL RAPPORTO GE 2015

Quarta Relazione sullo stato della green economy in Italia

Questo Rapporto è la prima Relazione (> scarica la Relazione) sullo stato della green economy, realizzata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile. è articolata in tre parti: la prima presenta i risultati di un’indagine sulle imprese della green economy in Italia, la seconda disegna un quadro delle tematiche strategiche per la green economy in Italia e la terza fornisce dati e spunti internazionali.

L’indagine sulle imprese green in Italia è la prima che viene fatta nel nostro Paese con l’uso della doppia classificazione, utilizzata in sede internazionale  relativa a:

  • le imprese Core Green che producono beni o servizi ambientali o specificamente finalizzati a elevate prestazioni ambientali;

  • le imprese Go Green che hanno adottato modelli green di gestione definiti dal rispetto di almeno 8 condizioni della lista preparata dalla Fondazione.

L’indagine non riguarda solo l’industria, ma ha incluso anche l’edilizia, ed è stata estesa all’agricoltura, ai servizi e al commercio: è quindi uno studio ampio sulle imprese italiane dei diversi settori. Dall’indagine risulta che ben il 27,5% delle imprese italiane è Core Green, produce beni o servizi ambientali o specificamente finalizzati ad elevate prestazioni ambientali, e che della parte rimanente un rilevante 14,5% è Go Green, perché ha adottato modelli green di gestione: un totale del 42% delle imprese italiane: un dato che non sorprende chi opera in questo mondo cresciuto fortemente negli ultimi decenni, ma che farà discutere. Nel mondo dell’informazione, e quindi della politica e della pubblica opinione, permane infatti una vecchia visione delle imprese che ignora la consistente dimensione ormai raggiunta dalle imprese green.

Nella seconda parte della Relazione è presentata una ricognizione aggiornata delle tematiche strategiche della green economy italiana, segnalando le forti difficoltà che stanno incontrando le rinnovabili, il trend positivo dell’efficienza energetica, la positiva riduzione delle emissioni di gas serra, ma anche l’aggravamento del dissesto idrogeologico prodotto dal cambiamento climatico, le tendenze positive verso una circular economy, ma anche i molti ritardi come nell’ecoinnovazione; importanti progressi sono stati compiuti dall’agricoltura di qualità ecologica, mentre nella mobilità i segni di cambiamento sono ancora insufficienti e il quadro complessivo resta carente.

Infine, nella terza parte si espongono dati e spunti sul quadro internazionale.  La domanda mondiale di energia dal 1990 al 2013 è cresciuta del 54,5%; il petrolio continua a essere la principale fonte mondiale di energia primaria, fornendo il 31,2% dell’energia nel 2013 (era il 36,8% nel 1990). Segue a breve distanza il carbone, che è arrivato a fornire il 29,2% della domanda di energia primaria nel 2013, cresciuto rispetto al 25,4% del 1990 In aumento anche il gas: dal 19,1 del 1990 al 21,2 del 2013, mentre il nucleare è in calo: dal 6% del 1990 al 4,7% del 2013. Le rinnovabili sono in aumento, dal 12,7% del 1990 al 13,7% del 2013, ma rappresentano una quota ancora bassa della domanda mondiale di energia primaria, che continua a essere soddisfatta per l’81,6% da combustibili fossili. La CO2 di origine energetica è aumentata di ben il 53,7% dal 1990 al 2013. Con i trend attuali il mondo è su una traiettoria che porterebbe a un aumento compreso fra i 3,7 e i 4,8°C: un cambiamento con impatti sociali, ambientali ed economici drammatici.

Vengono poi forniti dati sulla produttività delle risorse, cioè il valore aggiunto prodotto per unità di materia consumata che cresce in tutto il mondo, ma meno del Pil: siamo cioè in regime di disaccoppiamento relativo. Il Consumo nazionale di materia (Dmc, risorse interne + importazioni - esportazioni) è invece in disaccoppiamento assoluto in Italia e in Europa.

Infine, viene presentata la sintesi di un rapporto di assessment del programma della green growth dell’Ocse che fa un bilancio della penetrazione della green economy nei Paesi sviluppati e aggiorna la “Strategia della green growth” elaborata nel 2011.

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LO STATO DELLA GREEN ECONOMY NEL MONDO

di Toni Federico, 2015

(> leggi il Rapporto integrale)

A seguito delle conclusioni del Summit Rio+20 del 2012, del quale la green economy è stato il punto strategico centrale, le politiche di sviluppo dovranno essere differenziate in funzione delle specificità dei singoli paesi, ma mirare ad un obiettivo comune di salvaguardia del pianeta. I paesi dell’area dello sviluppo, grossomodo gli OECD, dovranno disaccoppiare la loro crescita da ogni forma di danneggiamento degli ecosistemi e dalla distruzione delle risorse naturali. All’opposto viene riconosciuto che la crescita economica è la chiave per migliorare il benessere dei paesi in via di sviluppo, ma che essa non può costare la sopravvivenza del pianeta.

La green growth pone ai paesi in via di sviluppo sfide complesse per affrontare i costi dei rischi naturali, della sicurezza ambientale e industriale e la grande imprevedibilità del commercio mondiale. È chiaro che perché più persone possano godere di migliori standard di benessere ed allo stesso tempo promuovere la sostenibilità, è necessaria una sempre maggiore innovazione per ridurre il consumo delle risorse naturali e i danni agli ecosistemi.

Lo sviluppo economico deve essere basato per tutti su un impiego ottimale a lungo termine delle risorse naturali, preservando e valorizzando l'ambiente (il capitale naturale). Molti governi nazionali, e l’Europa, stanno introducendo formalmente il capitale naturale nelle loro contabilità, una pratica che sta cominciando ad essere adottata anche dal settore privato.

In questi anni le iniziative istituzionali in favore della green economy sono diventate numerose. Non si contano i progetti sviluppati dalle NGO e da associazioni private. Molte condividono indirizzi e metodi simili. Quasi tutte includono le categorie del benessere umano, l’efficienza e la produttività delle risorse, la trasformazione economica, la qualità ambientale e il capitale naturale, e l’efficacia delle risposte politiche.

Le Nazioni Unite hanno sviluppato un sistema di contabilità ambientale (SEEA) che, promosso dalla FAO, dalla World Bank, dall’IMF, dall’OECD ed in corso di adozione da parte di Eurostat per la Commissione Europea, si avvia a diventare uno standard universale. Hanno inoltre promosso il partenariato PAGE, al fine di dare attuazione al dettati di RIO+20 sulla green economy. Cinque agenzie ONU, UNEP, ILO, UNDP, UNIDO e UNITAR forniranno servizi di green economy che consentiranno di trasformare in senso green le strutture economiche nazionali.

La Banca Mondiale, che ha contribuito allo sviluppo del concetto degli stock di capitali come base della ricchezza, ha messo a punto un sistema di calcolo dei flussi di tali capitali sotto forma di un Adjusted Net Savings, indirizzato alla sostituzione del PIL che calcola solo i flussi finanziari. Ha inoltre lanciato un programma per  calcolare questi stock (WAVES).

L’UNEP lancia nel 2009 la proposta di un Green New Deal e dà inizio alla stagione della green economy con l’omonima iniziativa. Dà origine poi al TEEB, il programma di studio e sviluppo dell’economia degli ecosistemi. Pubblica un suo sistema di indicatori per la green economy. In collaborazione con UNU e IHDP, sviluppa per la green economy un indice inclusivo della ricchezza che, in applicazione degli insegnamenti del Rapporto Stiglitz del 2009 (cit.), comprende i capitali costruito, umano e naturale, ma non ancora il capitale sociale.

L’UNDP sta espandendo e perfezionando il suo tradizionale approccio sullo sviluppo umano (HDI), proponendo un nuovo indice multidimensionale della povertà e della disuguaglianza.

L’UNEMG, in preparazione di Rio+20, ha creato un gruppo di lavoro per promuovere la green economy.

L’Unione Europea ha in corso molte iniziative in favore della green economy, a partire dalla Strategia EU 2020 per la quale Eurostat pubblica regolarmente i dati. Il programma iGrowGreen fornisce i dati della green economy relativi a 27 stati membri coprendo quattro domini: la riforma fiscale green, il mercato e la competitività, la promozione della green growth e i cambiamenti climatici e la biodiversità.

L’OECD apre  il suo programma della green growth nel 2011 con il testo di riferimento Towards a Green Growth (cit.). Lancia il "Your Better Life Index", un indice di misura flessibile e interattivo della qualità della vita,  che consente all'utente di inserire i coefficienti di  ponderazione, per ottenere un dato che rispecchia la propria visione delle preferenze sociali. Pubblica nel 2014 i dati aggiornati degli indicatori della green growth.  Nel luglio del 2015 pubblica il primo rapporto di assessment globale della green growth.

Il Global Green Growth Institute, GGGI, con sede a Seoul in Corea,  è una piattaforma internazionale che opera prevalentemente nel sud del mondo, promossa dalle grandi istituzioni internazionali per lo sviluppo. In collaborazione con UNEP, OECD e Banca mondiale, i principali promotori del GGGI, è stata creata la Green Growth Knowledge Platform (GGKP) cui si deve il primo approccio all’unificazione degli indicatori per la green economy a livello mondiale.

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IL RAPPORTO GE 2014

Le imprese della green economy. La via maestra per uscire dalla crisi

Presentato a Roma il 23 febbraio 2015 all'ENEA

Introduzione di Ligia Noronha,direttore della Divisione di tecnologia, industria ed economia dell’UNEP

Mai prima d’ora le sfide ambientali nel mondo hanno ricevuto tanta attenzione internazionale, e anche generato tante preoccupazioni circa il progresso economico e sociale. È sempre più chiaro che una crescita sostenibile a lungo termine e la creazione di posti di lavoro non possono essere raggiunte senza affrontare queste sfide. Viste in questa luce, le crisi ambientali che si stanno verificando in diverse regioni del mondo rappresentano un’opportunità storica per il cambiamento.

In effetti, un numero sempre maggiore (e crescente) di paesi ha iniziato il cammino verso questo cambiamento. A seguito del Summit Rio+20 del 2012, la green economy è stata adottata dai governi come uno strumento per realizzare uno sviluppo sociale, economico e ambientale sostenibile, anche perché porta con sé la promessa dell’aumento dei posti di lavoro e di imprenditori dal profilo innovativo.

L’Italia ha già iniziato a muoversi in questa direzione. Tuttavia, rimane un potenziale non ancora sfruttato per intraprendere un percorso che può creare altri green job, supportare una crescita sostenibile e ripristinare la salute e la qualità dell’ambiente. Con il governo e le imprese che lavorano insieme verso una green economy, l’Italia non può mancare di superare le attuali difficoltà economiche, per costruire le basi per una crescita sostenibile per il futuro.

Questo rapporto è un passo importante in questo senso, in quanto delinea il ruolo potenziale per le imprese italiane nella realizzazione di tale cambiamento. Anche se sono i governi a guidare questo processo attraverso regolamenti e incentivi, sono le imprese che apriranno la strada verso una green economy attraverso le loro scelte quotidiane per gli investimenti e per l’occupazione. Con la rapida innovazione tecnologica, il passaggio a un’energia più pulita e a un uso più efficiente delle risorse al centro della green economy, gli imprenditori e la società dovrebbero beneficiare entrambi di una qualità ambientale solidamente incardinata nella competitività e nella crescita economica.

Guidato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e dall’Agenzia nazionale per l’energia e lo sviluppo sostenibile (Enea), il rapporto contribuisce al dibattito in corso sulla green growth in Italia, e su come potrebbe presentarsi un percorso di ristrutturazione dei settori produttivi dell’economia. Analizzando sia il quadro teorico sia il processo di cambiamento, questo rapporto costituisce un importante punto di riferimento per il paese e per la comunità imprenditoriale italiana. La visione condivisa di una green economy che si trova in questo libro, e tra gli imprenditori italiani, accresce la speranza per il futuro e mostra che l’Italia sta lavorando seriamente ed è pronta per il compito di crere un’economia più verde e più inclusiva, come pietra angolare della sua crescita futura.

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Materiali di discussione e presentazione di Toni Federico 

(> scarica l'intero contributo)

(> scarica la presentazione e > ascolta l'intervento)

 

“La green economy è un catalizzatore dello sviluppo. Ma tutta l’economia deve andare in quella direzione

Katia Bastioli, Meeting di Primavera, Roma 2014

 

And those who were seen dancing were thought to be insane by those who could not hear the music

Attribuita a Friedrich Nietzsche

Introduzione. Una transizione verso un futuro progressivamente più sostenibile, con emissioni di gas serra decrescenti e il recupero del degrado ambientale, richiede una economia diversa, vale a dire processi produttivi e tecnologie più rispettose dell'ambiente ed una diversa concezione del benessere,  associata a criteri nuovi attraverso cui le imprese possano valutare il valore aggiunto da esse stesse prodotto in funzione di tutto l’arco della ricchezza e non solo del flusso dei ricavi e della quantità di macchine e di infrastrutture accumulate.

Il vettore di questa irrimandabile trasformazione è la green economy che, pur declinata secondo diverse accezioni settoriali e scalata ai livelli di sviluppo delle diverse nazioni e delle loro vocazioni, raccoglie tutto lo sforzo attualmente in atto nel mondo verso lo sviluppo sostenibile, come deriva dalla lezione di Rio+20. La green economy comporta una nuova visione dei problemi e delle dinamiche dello sviluppo, nuove culture, diverse abilità e modalità di formazione.

Definizione del nuovo perimetro ambientale e sociale delle attività industriali (fonte: EU EC)

In risposta alla necessità di capire la transizione verso un'economia più verde diverse iniziative sono state messe in campo per comprendere di che si tratta quando si parla di settori verdi (core-green), posti di lavoro verdi (green jobs) e tecnologie verdi. Si tratta di valutare il potenziale delle attività industriali e delle risposte della politica per la costruzione di un nuovo tipo di benessere, rilanciare l’occupazione e avviare il processo di ricostituzione del capitale naturale, i tre cardini del cambiamento. Quindi si tratta di valutare:

  • Quali caratteristiche collocano un’impresa nella green economy;

  • Quali sono le caratteristiche dei green job.

Ci sono imprese green originarie per prodotti, servizi o processi, ma l’interesse maggiore è nella grande massa di imprese in transizione, avviate verso una green economy: per esse vanno individuate quattro caratteristiche, essenzialmente:

  1. la qualità delle motivazioni, accertabile con indagini dirette;

  2. il livello dell’ecoinnovazione, per cui esistono indicatori specifici;

  3. i risultati ambientali e la qualità ecologica, con valutazioni quantitative;

  4. il modello di business cui si chiede la capacità di mettere lo sviluppo sostenibile al centro delle decisioni strategiche aziendali.

I lavori verdi, che definiremo e analizzeremo in un successivo contributo, sono evidentemente quelli delle industrie o dei settori industriali e dei servizi core-green, cui  molti altri se ne aggiungono  nel vasto movimento delle attività “in transizione”. La dinamica espansiva dei green job è senza dubbio uno degli esiti più attesi e promettenti della green economy. I green job sono in parte sostitutivi ed in parte aggiuntivi, in entrambi i casi portano un miglioramento della qualità del lavoro, dei contenuti di conoscenza e dell’inclusività sociale, con vantaggio particolare per i giovani e le donne.

I paesi come il nostro, con alto tasso di disoccupazione, cercano nuove opportunità per stimolare l'occupazione e la crescita economica. Autorità e responsabili politici chiedono informazioni per eseguire confronti internazionali,  per tenere traccia dei progressi ambientali in ogni settore e nell'economia nel suo complesso e per quantificare  gli effetti delle politiche di tutela ambientale e di protezione sociale. La tentazione di dividere  le attività economiche in due gruppi, green e brown è da abbandonare, secondo un orientamento ormai comune. Non è infatti teoricamente possibile segregare le attività green dal resto dell'economia e non solo perché, in qualsiasi accezione risultassero genuinamente green, esse assommerebbero a quote percentuali dell’economia ad una sola cifra. Da un lato, infatti,  anche le attività core-green generano un certo livello di pressione ambientale, dall’altro molte delle attività dei settori tradizionali si vanno allineando agli obiettivi dello sviluppo sostenibile, sia pure con modalità ed efficacia diverse. Si fa notare che anche settori di solito classificati core-green, ad esempio le energie rinnovabili, implicano pressioni sulla natura, il territorio o il paesaggio, e che alcune aziende si servono di vecchie pratiche sociali, talvolta esplicitamente contrarie ai principi della sostenibilità.

Anche in una prospettiva di un nuovo tipo benessere, non sarà possibile ignorare la necessità che, per fornire gli importi desiderati di beni e servizi, occorrerà governare ed equilibrare la produzione  e l'occupazione,  l’uso di materia e di energia, le emissioni ed i rifiuti. Va inoltre considerato che, mentre alcuni settori generano emissioni significativamente più elevate per unità di prodotto e a pari numero di lavoratori dipendenti rispetto ad altri, l'interdipendenza tra le attività rende problematico accreditare particolari settori come più green o semplicemente più rispettosi dell'ambiente rispetto ad altri. Non adotteremo quindi la visione binaria delle due categorie, green e brown, quanto piuttosto un continuum scandito dalle esternalità generate per unità di prodotto e per lavoratore occupato e controllato attraverso l’evoluzione nel tempo dei parametri.

La green economy viene oggi prevalentemente valutata attraverso la performance globale di un paese, ma il problema della qualità ecologica differenziale dei settori e delle singole aziende non può essere ignorato né si può evitare di dare una soluzione equa al problema della definizione degli obiettivi per gli operatori pubblici e privati sol perché si tratta di un esercizio difficoltoso. Una modalità equa, non l’unica, per ripartire i carichi della transizione potrebbe essere, una volta definiti obiettivi e target,  quella di parificare i costi marginali di abbattimento delle emissioni e di ripristino ambientale a carico degli operatori. Questa scelta, come ogni altra, richiede una forte regolazione attraverso la fiscalità o i sistemi di permessi negoziabili cap&trade.

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I green jobs, una analisi preliminare, di Toni Federico

(> scarica l'intero contributo)

“Io penso che il problema di oggi sia l’occupazione e lo sarà per molti anni ancora. Se non abbiamo un progetto realistico e convincente su come risolverlo,  non credo che nessuno ci ascolterà parlare di problemi di ambiente e sviluppo”

Anders Wijkman, Peccei Lecture 2014

La green economy e l’industria green si iscrivono da protagoniste, come abbiamo visto, nel processo di transizione verso uno sviluppo sostenibile.  Ad esse si chiede di fornire una risposta alle molteplici crisi - climatica, alimentare, finanziaria, economica e sociale - che il mondo ha dovuto affrontare negli ultimi anni, perché offrono notevoli opportunità per creare posti di lavoro e un nuovo tipo di economia capace di progresso e di futuro. Il cambiamento verso la green economy può comportare un onere finanziario per le industrie inquinanti e provocare uno spostamento dell’occupazione in diversi settori e regioni, ma porterà nuove attività che offrono significative opportunità di investimento, crescita economica e nuovi posti di lavoro green.

La maggior parte degli osservatori è interessata alla dimensione della green economy,  in termini di numero di stabilimenti, numero di green jobs e fatturato totale, e al suo contributo alla crescita economica, in particolare per maggiore fatturato, maggiore occupazione, numero di persone impiegate direttamente o indirettamente, il loro livello di abilità e le competenze specialistiche necessarie, il valore aggiunto, gli investimenti, le esportazioni. Il volume, il livello e la qualità dell’occupazione in posti di lavoro verdi è visto da molti forse come il più importante indicatore del progresso complessivo verso un'economia più green e più sostenibile.

L'identificazione delle attività riconducibili alla green economy, e la misurazione delle caratteristiche dei rapporti di lavoro in queste attività,  possono essere utilizzate per guidare le decisioni per quanto riguarda le industrie che richiedono il supporto in forma di sovvenzioni e di accesso al credito e, anche, di corsie preferenziali dal punto di vista normativo e fiscale. Il monitoraggio statistico può anche consentire una valutazione della misura in cui gli stabilimenti ristrutturano i loro processi organizzativi e produttivi. Si tratta di una condizione necessaria per valutare come le abilità e i sistemi di istruzione e formazione devono adattarsi allo sviluppo della green economy.

Queste premesse prefigurano una separazione tra lavoro green e brown, come per le imprese, ma non può esservi una corrispondenza biunivoca tra imprese green e i green jobs. L’UNECE, elaborando i suoi indicatori legati al lavoro, intanto, definisce impraticabile una distinzione tra l’occupazione in posti di lavoro green  e in posti di lavoro ambientalmente sostenibili. Se questo è vero non potranno essere classificati come green impieghi ed attività svolte per conto di imprese che non abbiano fatto una scelta esplicita ed operazionale in favore della sostenibilità: non basta cioè piantare fiori nel giardino di un’industria brown, nella misura in cui ciò non ne modifica i ruoli né le tendenze. Per converso, un gran numero, forse la maggior parte dei green job, si vanno creando nelle aziende in via di trasformazione che stanno intraprendendo quello che abbiamo chiamato un cambiamento del modello di business. Naturalmente le difficoltà di quantificare statisticamente questi processi dal punto di vista occupazionale, possono essere molto grandi, specialmente nelle prime fasi della transizione.

Molti degli uffici statistici nazionali, almeno nei paesi sviluppati, hanno iniziato a produrre stime per quantificare l'economia green nelle sue varie forme e con essa l’occupazione ambientale e i green job,  sulla base di dati provenienti da indagini ufficiali di stabilimento. In questi casi, i dati sul tipo di attività economica o sui beni e servizi prodotti sono utilizzati insieme ai dati sull'occupazione totale in ogni azienda per generare una stima attendibile dell’occupazione in posti di lavoro green. I dati resi per ora disponibili, sono classificati in base al tipo di attività economica secondo i settori core-green come la gestione dei rifiuti  o l’energia rinnovabile, così come definiti nel SEEA. Le stime tendono, tuttavia, a non essere comparabili tra i diversi paesi a causa delle differenze nelle fonti, nei metodi di stima e nelle definizioni di green job utilizzate[3].

Più completo e moderno è l’approccio adottato dall’US Bureau of Labor Statistics (BLS), che definisce i green job come:

  • posti di lavoro in imprese che producono beni o forniscono servizi a beneficio dell'ambiente e alla conservazione delle risorse naturali, cioè le imprese EGS;

  • posti di lavoro in cui i doveri dei lavoratori implicano processi di produzione del loro stabilimento più rispettosi dell'ambiente o che utilizzano meno risorse naturali.

L'uso di queste categorie interagenti per definire i green job implica due diversi approcci alla misurazione statistica: un approccio di prodotto e un approccio di processo. Occorre a questo fine definire con precisione quali beni, servizi o processi devono essere considerati. L'occupazione nel settore della produzione di beni e servizi ambientali riguarda i posti di lavoro negli stabilimenti che producono beni e servizi a beneficio dell'ambiente. Va però considerato che questi prodotti non sono sempre ottenuti mediante processi e tecnologie di qualità ecologica. Ad esempio, gli edifici verdi o le auto elettriche possono essere prodotti utilizzando tecnologie che possono anche avere un impatto ambientale negativo.

Occupazioni in processi ambientalmente favorevoli, d'altra parte, possono essere trovate in industrie tradizionali, ad esempio  minerarie o di produzione dell’acciaio, certamente inquinanti. Saranno classificati green job a condizione che le aziende stiano aumentando la loro l'efficienza energetica attraverso nuovi modelli di organizzazione o che impieghino tecnologie rispettose dell'ambiente nei loro processi produttivi. Questi cambiamenti, anche se non sempre guidati da preoccupazioni ambientali, possono avere un notevole impatto positivo sull'ambiente, anche dove vengono prodotti beni o servizi ambientali non EGS.

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IL RAPPORTO GE 2013

Un Green New Deal per l'Italia

Presentato a Roma nel gennaio 2014 all'ENEA

l ruolo della Green economy per uscire dalle crisi

dalla introduzione di Tim Jackson, Professore di sviluppo sostenibile all'Università del Surrey, UK, al Rapporto Green Economy 2013 (> leggi l'intero contributo)

Di recente, e in particolare nell’imminenza del summit Rio+20 del giugno del 2012, è emerso il concetto di green economy, inteso come nucleo attorno al quale aggregare idee da cui ricavare una possibile alternativa alle crisi.

Secondo l’UNEP, la green economy è un’economia “che produce miglioramenti del benessere umano e dell’equità sociale, riducendo nel contempo i rischi ambientali ed ecologici”. In poche parole, la green economy è “low carbon, usa le risorse in modo efficiente ed è social- mente inclusiva

In cosa si distingue questa economia dal paradigma convenzionale; cosa richiede a imprese, lavoratori, consumatori, governi e sistema fiscale; quali benefici arreca. Perché, ed è bene ricordarlo, nessuna economia – verde o di qualunque altro colore – è un fine in sé. Piuttosto, si tratta sempre di un mezzo per raggiungere una prosperità condivisa e duratura.  L’economia dovrebbe consentire agli individui di prosperare e alle comunità di progredire. Ben oltre la semplice fornitura di beni e servizi, ciò vuol dire che l’economia deve rafforzare il benessere delle società e proteggere l’integrità degli ecosistemi. Mercati stabili, lavori sicuri, ecosistemi sani, forniture sostenibili, equità: queste sono alcune delle condizioni da cui dipende la prosperità, presente e futura.

Le attività economiche che danneggiano gli ecosistemi su cui si basa la nostra prosperità futura sono ovviamente insostenibili. Come già detto, però, l’economia dovrebbe consentire agli individui di prosperare e alle comunità di progredire. La prosperità richiede, oltre alla semplice fornitura di beni e servizi, anche la sicurezza del lavoro e la stabilità dei mercati. Se la prosperità porta vantaggi a pochi e non allevia le situazioni più critiche, quelle in cui versano i poveri, si creano le precondizioni per l’in- stabilità sociale. Nonostante sia facile da articolare concettualmente, questa visione ancora non definisce in modo netto le varie dimensioni della green economy. Inoltre, non delinea un contesto macroeconomico distinto dal pensiero e dalla pratica economici tradizionali. Occorre definire il ruolo delle imprese nel dare alle persone le possibilità di progredire. Oltre ai prerequisiti fondamentali per la vita: cibo, indumenti e riparo,  la nostra prosperità dipende da quei “servizi” che migliorano la qualità delle nostre vite: sanità, cure sociali, istruzione, tempo libero e ricreativo, mantenimento, rigenerazione e protezione del patrimonio naturale.

Sottolineo l’importanza del lavoro. Un impiego è molto più che un mezzo per guadagnarsi i mezzi di sussistenza di cui si ha bisogno. È infatti un elemento essenziale della nostra connessione con gli altri – una sorta di “collante” sociale. Un buon lavoro garantisce rispetto, motivazioni, appagamento, partecipazione alla comunità e, nel migliore dei casi, dà senso e scopo alla propria vita.

Il terzo pilastro della green economy sono gli investimenti. In effetti, buona parte dell’attuale riflessione teorica individua proprio negli investimenti l’elemento caratterizzante della green economy. Spiega l’UNEP, “i miglioramenti dei redditi e dei livelli di occupazione sono generati dagli investimenti pubblici e privati mirati a ridurre le emissioni di carbonio e l’inquinamento, a migliorare l’efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse e a prevenire la perdita di biodiversità e di servizi degli ecosistemi”. Nonostante la green economy sia qualcosa di più degli investimenti verdi, l’attenzione agli investimenti è comprensibile, dato che questi ultimi giocano un ruolo essenziale in qualsiasi economia. Conta anche l’economia del denaro (la creazione, il mantenimento e la stabilità del flusso monetario), inteso come componente essenziale della green economy. L’illimitata creazione di denaro attraverso il debito commerciale stimola insostenibilità negli investimenti e instabilità nei mercati finanziari. La riforma del sistema finanziario, oltre a essere la risposta più ovvia alla crisi, è anche uno dei prerequisiti fonda- mentali della green economy.

Presi assieme, questi quattro elementi – tipologia delle imprese, qualità del lavoro, struttura degli investimenti e ruolo del denaro – possono portare a una radicale trasformazione dell’economia, che va molto al di là delle ristrette finalità politiche dell'austerity.

     L'impresa green

Non si tratta solo di produrre e consumare beni materiali, quanto piuttosto di dare alle persone quelle capacità che gli servono per svilupparsi nelle loro comunità, socialmente, psicologicamente e materialmente dando pur sempre alle persone mezzi di sussistenza sufficienti e dignitosi. Una green economy deve generare basse emissioni di carbonio, usare le risorse in modo efficiente e lasciare un’impronta “leggera” sulla Terra. Deve cioè creare le condizioni necessarie per prosperare senza distruggere il capitale da cui dipende la nostra prosperità futura. Questi elementi rappresentano la base per una nuova visione dell’impresa che non sarà più basata su una divisione del lavoro speculativa, sulla massimizzazione dei profitti e e sull'uso intensivo delle risorse, quanto piuttosto su una forma di organizzazione radicata nella comunità sociale e impegnata nella fornitura di quei servizi che migliorano la qualità della vita: sanità, cure sociali, istruzione, tempo libero, mantenimento e protezione del patrimonio naturale. L’idea dell’impresa come servizio può essere applicata all'energia, all’abitare, ai trasporti e all’alimentazione. Oltre che con i bisogni materiali, la prosperità ha a che fare con la dimensione sociale e psicologica: identità, affiliazione, partecipazione, creatività ed esperienza.

     Il lavoro green

Come ha sottolineato Schumacher, l’ideale per un datore di lavoro, sarebbe avere prodotti senza lavoratori, mentre per il lavoratore sarebbe guadagnare senza lavorare. Questa dinamica perversa è stata incorporata nell’economia moderna con il perseguimento della produttività del lavoro, considerato il motore dell'economia, cioè la volontà di incrementare continuamente le unità di prodotto per ore di lavoro svolte. Tuttavia, questo atteggiamento pone la società di fronte a un dilemma difficile da risolvere. Se ogni ora lavorata diventa sempre più produttiva, serviranno sempre meno persone per raggiungere un determinato risultato economico. A livello macroeconomico, questa dinamica è devastante. Se le nostre economie non crescono, si rischia di espellere le persone dal mondo lavorativo.

La disoccupazione riduce il potere di acquisto e fa crescere i costi per il welfare ed aumentare il debito pubblico. Nell’attuale sistema finanziario gli interessi sul debito sono pagati, alzando le tasse sui redditi futuri. Imposte più alte comprimono ancor di più il potere di acquisto, e il ciclo si perpetua. Quando la crescita rallenta, la dinamica dell’innalzamento della produttività del lavoro diventa una padrona spietata. Ci sono due strade per evitare la “trappola della produttività”.  La prima consiste nella riduzione delle ore lavorate per dipendente cioè nel suddividere il lavoro disponibile. La seconda è spostare le attività economiche verso settori a più alta intensità di lavoro.

Nel saggio del 1930 "Possibilità economiche per i nostri nipoti", Keynes delineava un futuro in cui tutti avremmo lavorato di meno e avremmo passato più tempo con la nostra famiglia, i nostri amici e la nostra comunità. In molti contesti inseguire a tutti i costi la produttività ha poco senso. Alcuni compiti dipendono per loro natura dal tempo e dall’attenzione. La cura e le preoccupazioni di un essere umano per un altro, per esempio, sono un “bene” peculiare. Non si possono accumulare. Non possono essere erogate da una macchina. La loro qualità si fonda sull’attenzione che una persona nutre nei confronti di un’altra. La manifattura è un altro esempio. Sono l’accuratezza e la cura del dettaglio che danno ai beni il loro valore. Sono l’attenzione del carpentiere, del sarto o del designer a rendere squisito un lavoro. Allo stesso modo, è il tempo speso a praticare, a provare e ad esibirsi che dà alle arti il loro fascino. Cosa potrebbe venire fuori se si chiedesse alla Filarmonica di New York di ridurre il tempo per le prove e di suonare la 9° Sinfonia di Beethoven ogni anno sempre più velocemente?

È affascinante notare come questi settori dell’economia cure alle persone, manifattura, cultura sono al centro della visione dell’impresa delineata in precedenza.

     Gli investimenti green

Gli investimenti possono essere l’elemento più importante di un’economia, dato che danno corpo alla relazione tra presente e futuro. Il fatto che gli individui accantonino parte dei loro guadagni per investirli riflette un aspetto fondamentalmente prudente della natura umana: la prosperità di oggi ha ben poco valore se compromette quella di domani. Gli investimenti sono il mezzo con cui costruiamo, proteggiamo e manteniamo il patrimonio da cui dipende la nostra prosperità presente e futura.

Una solida strategia di investimenti verdi si basa su tre semplici principi:

  • la prosperità consiste nella nostra capacità di progredire come esseri umani adesso e in futuro;

  • l’impresa è l’organizzazione dei servizi economici che fornisce le capacità di cui abbiamo bisogno per progredire;

  • gli investimenti consistono nell’accantonare le entrate per mantenere, proteggere e migliorare il capitale da cui emergerà la prosperità futura.

Gli investimenti servono per costruire e mantenere il patrimonio materiale attraverso cui gli individui e le comunità possono progredire con il minimo flusso di materiali possibile. Inutile dirlo, nessuno dei servizi da cui dipende la prosperità può fare del tutto a meno di un flusso di materia e di energia. La sanità richiede medicinali ed equipaggiamenti. L’istruzione ha bisogno di libri e computer. Ai musicisti servono gli strumenti, ai giardinieri gli attrezzi e i fertilizzanti. Anche le attività ricreative più “lievi” danza, yoga, tai-chi, arti marziali hanno bisogno di uno spazio ben tenuto. Ancora più ovvio, alle persone servono case, abiti, cibo e mezzi di trasporto. In altri termini, persino nell’economia più green e nell’impresa più dematerializzata  rimane comunque un irrinunciabile elemento materiale. La strategia di investimento nell’(eco)efficienza di materia ed energia assume dunque un ruolo fondamentale.

Più in generale, possiamo dire che occorre investire per mantenere il capitale naturale. Foreste, praterie, zone umide, laghi, oceani, i suoli e l’atmosfera sono essenziali perché forniscono quei servizi da cui dipende la vita stessa.  Il valore economico di questi servizi è difficile da calcolare, ma l’integrità del capitale naturale è centrale per il benessere umano. Parte degli investimenti green devono essere destinati al mantenimento e alla protezione di questo patrimonio: questo è uno dei principi cardine della green economy.

      La finanza green

Pochi economisti avevano previsto che la massiccia espansione del sistema commerciale basato sull'indebitamento avrebbe potuto destabilizzare l’intero sistema monetario. Si tende a pensare al denaro come a qualcosa di stampato dalle banche centrali sotto il controllo dei governi. In realtà, solo una piccola frazione (meno del 5% nelle economie occidentali) del denaro in circolazione è creato in questo modo. Gran parte del denaro circolante è invece generato dalle banche commerciali, letteralmente dal nulla: quando una banca accorda un prestito a un imprenditore o a una famiglia non fa altro che iscriverne l’importo come prestito nella sezione degli attivi del proprio bilancio e come deposito nel lato dei passivi del bilancio. Questo deposito può essere così speso per acquistare beni o servizi. Le banche creano denaro concedendo dei prestiti. La crisi è stata una conseguenza diretta di questo sistema. Nei decenni passati, le banche hanno concesso sempre più mutui a persone che sempre meno potevano saldarli. Una dopo l’altra, le banche più vulnerabili si sono trovate con bilanci in cui le passività superavano di parecchio il patrimonio.

Stabilizzare il sistema finanziario è fondamentale per la green economy. Dopo la crisi, con un sistema finanziario ancora allo sbando, è ancora più difficile conseguire la prosperità. Le restrizioni al credito ostacolano gli investimenti green e danneggiano la qualità delle vite delle persone e la resilienza delle comunità in cui vivono. In queste condizioni, riformare il sistema finanziario è una priorità fondamentale per la green economy. Tre sono le importanti innovazioni necessarie:  l’impact investing, il reinvestimento dei risparmi privati nella green economy; le banche di comunità e i crediti cooperativi, cioè l’adozione di sistemi di risparmio e di veicoli di investimento che restituiscono i benefici alla comunità; la ridefinizione degli aggregati monetari, che dovrebbero essere sottratti al controllo degli interessi commerciali e restituiti al settore pubblico o alle comunità.

è chiaro che la green economy ha bisogno di un contesto finanziario diverso da quello che ha portato alla crisi. La sicurezza di lungo periodo deve avere la priorità sui guadagni immediati. I guadagni sociali ed ecologici devono essere conteggiati nelle decisioni di investimento assieme ai più convenzionali guadagni finanziari. È infine di capitale importanza migliorare la capacità delle persone di investire localmente i propri risparmi, a beneficio delle loro stesse comunità.

     Oltre l'austerity e oltre il PIL

La turboeconomia del secolo scorso ha creato instabilità finanziaria, ha accresciuto le diseguaglianze e ha prodotto danni ambientali insostenibili. L’austerità ha aggravato questi pericoli. Mentre inseguiva la prosperità attraverso il consumismo, il capitalismo moderno ha posto le basi del proprio collasso. Niente di tutto ciò è inevitabile.

È innegabile che una buona vita abbia una dimensione materiale. È assurdo discutere se mancano cibo e riparo. Ma è altrettanto evidente che equiparare prosperità e abbondanza è sbagliato, anche quando si tratta di questi beni materiali primari. Quando c’è in ballo la sopravvivenza, non sempre di più è meglio. La qualità è diversa dalla quantità. Di fatto, è chiaro però che la prosperità non è un dato interamente materiale. Ha infatti delle dimensioni sociali e psicologiche fondamentali. Il benessere ha a che fare con la nostra capacità di dare e ricevere amore, di godere del rispetto dei nostri compagni, di contribuire con un lavoro utile, di sentirsi sicuri di fronte alle incertezze, di provare un senso di appartenenza e fiducia nella nostra comunità. La componente importante della prosperità è, in poche parole, la capacità di partecipare significativamente alla vita della società.

La sfida della green economy è quella di creare le condizioni per far che tutto ciò possa avvenire.

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Presentazione a Roma del Rapporto Green economy  2012 "Per uscire dalle due crisi"

ll 14 dicembre 2012 presso la sede centrale dell'ENEA è stato presentato il Rapporto che esplicita i contenuti scientifici che hanno supportato il cammino degli Stati generali della Green economy. Il Rapporto, edito in volume dalle Edizioni Ambiente, è distribuito in libreria e se ne può leggere qualche pagina sul sito dell'editore (> fare click sulla copertina). è stato preparato da un team di ricercatori della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e dell'Enea che ha lavorato in otto gruppi con la stessa organizzazione di cui si sono dotati gli Stati generali.

Nella presentazione Edo Ronchi ricorda che per scrivere questo Rapporto è stata attivata una collaborazione con l'Enea che dovrà continuare. Tra le due crisi, la recessione potrebbe anche essere affrontata peggiorando le condizioni ambientali e la crisi ambientale ha forti implicazioni di carattere economico. Queste due crisi vanno affrontate congiuntamente, altrimenti si aggravano l'un l'altra. La Green economy è un processo reale, in atto. Va molto al di là dell'economia ecologica che ha un valore storico ma aveva  il limite di privilegiare la protezione dell'ambiente e la internalizzazione dei costi esterni, quindi non la ristrutturazione dell'economia né la rimodellazione inclusiva dei rapporti sociali. La Green economy nel nostro paese è un processo superiore alla sua rappresentazione politica che non dà un quadro di riferimento all'altezza della transizione né garantisce la necessaria stabilità dei percorsi. Recentemente il Governo ha varato la Strategia Energetica Nazionale, la SEN,che, pur con qualche limite, è sembrata essere un esempio di politica partecipata ed inclusiva che va sostenuto e riproposto. La Green economy deve spezzare gli schieramenti politici, non può essere la bandiera di una sola parte. Deve invece essere una prospettiva strategica comune e condivisa di dimensione europea. Solo una larga e consapevole partecipazione delle imprese può garantire questa trasversalità ed assicurare la stabilità necessaria. ... (> ascolta l'intervento di presentazione di Edo Ronchi)

Questo Rapporto, dice il Ministro dell'Ambiente Corrado Clini,deve essere consegnato al futuro governo per l'impostazione di una nuova politica economica nazionale. I dati che esso esplicita ci consentono una visione alta su alcune questioni aperte, anzitutto quella della competitività. Ci sono paesi nel mondo che stanno investendo molto più di noi nella Green economy. Questo vuol dire più tecnologia, più impianti e energia più efficiente ed apre un mercato di dimensioni immense. Vuol anche dire più efficienza burocratica perché nel mondo i tempi dell'innovazione sono molto più brevi che in Italia. I "numeri" della Germania sono dovuti alla capacità delle loro imprese di essere presenti in questo tipo di mercati, a cominciare dal settore dell'auto. Ciò dimostra che la Green economy piuttosto che una virtù è un affare. Le imprese che in Italia hanno i conti in attivo sono quelle che sono riuscite a collocarsi per tempo in questo mercato. Le caratteristiche della Green economy sono anche le più adatte per il mercato interno perché consentono di avere efficienza nell'uso dei materiali, che in Italia sono sempre importati, e quindi di alleggerire i costi di uno dei fattori della produzione industriale per noi più gravosi. Il discorso è lo stesso per l'energia e i rifiuti: non abbiamo infatti combustibili fossili né territorio per le discariche. Un'altra partita aperta per il governo che verrà è la delega fiscale, una politica, tra quelle che avremmo potuto attuare, la cui mancata realizzazione più mi dispiace. Era e rimane una misura strutturale indispensabile per regolare l'uso delle materie prime e dell'energia, senza la quale rimangono in campo due dei fattori principali che hanno determinato la crisi e impediscono la crescita nel nostro paese. Il credito d'imposta è l'altra obbligazione che non abbiamo onorato. è uno strumento essenziale per far crescere la produttività, la produzione e il valore aggiunto, necessario per la Green economy come per qualsiasi altro tipo di economia. Analogo discorso vale per le regole, la cui semplificazione è indispensabile. In particolare nelle procedure ambientali i tempi epocali uccidono lo sviluppo. La sedimentazione delle norme che si sono accumulate nel tempo è responsabile di questa diseconomia quanto il cattivo uso dei poteri locali e della magistratura. Ci sono procedure aperte da dieci anni. Occorrono un chiarimento dei ruoli ed una semplificazione drastica. Se ciò è infatti negativo per l'economia lo è ancor di più per la protezione dell'ambiente e per la Green economy, perché lascia aperte partite decisive. Si rifletta che spesso la causa dei recenti disastri climatici sono le opere non finite o bloccate da misure incerte e contraddittorie. ... (> ascolta l'intervento di Corrado Clini)

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Origine dei concetti e delle pratiche della green economy

di Toni Federico (> leggi l'intero saggio)

Una volta deciso che una cosa può e deve essere fatta, bisogna solo trovare il modo.

Abraham Lincoln

La green economy è un concetto ed una pratica di attuazione dello sviluppo sostenibile alla cui affermazione stanno lavorando l’Unione europea (UE), l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD), le varie organizzazioni delle Nazioni Unite (ONU), con in primo luogo l’UNEP, infiniti think-tank, le università ed aree sempre più estese della comunità degli affari. Il Segretario generale dell’ONU ha inserito la green economy  come tema centrale della Conferenza sullo sviluppo sostenibile, la UNCSD di Rio de Janeiro del giugno del 2012.

La crisi finanziaria americana del 2008 crea nei governi di molti paesi e nella cultura ecologista mondiale la consapevolezza che il modello di sviluppo economico corrente, al cui disordine ed alla cui irrazionalità viene attribuita universalmente la responsabilità della crisi stessa, deve essere riformato. Nel Regno Unito per iniziativa della NEF a livello nazionale, poi negli Stati Uniti per opera di Lester Brown e nell’UNEP su scala mondiale, si sviluppa la proposta di un Global Green New Deal di stampo roosveltiano per il rilancio dell’economia, basato sul contrasto alla crisi climatica ed ambientale, su un tipo nuovo di economia verde e sul rilancio della consapevolezza etica dei cittadini e dei governi. In taluni documenti (Lester Brown) ci si  richiama alla crisi del ’29 e all’impegno profondo delle democrazie occidentali che dieci anni dopo, sostenute dai loro cittadini che si assoggettarono a duri sacrifici, furono in grado di cancellare la minaccia nazista. La divaricazione dei percorsi di contrasto della crisi portò infatti gli occidentali sulla sponda keynesiana e i centro-europei verso una politica di riarmo e fu causa non ultima del secondo conflitto mondiale.

Per il contrasto della crisi del 2008 tutti i paesi posero mano alle risorse pubbliche. Molti governi orientarono i loro “pacchetti di stimolo” per il rilancio dell’economia dando una colorazione green a parte dei fondi erogati. In queste circostanze vennero in primo piano alcune delle economie asiatiche più affluenti: impressionante la quota green del 98% della Corea del Sud, ma anche lo sforzo della Presidenza Obama per il rilancio dell’economia statunitense si orientò su scelte ambientalmente favorevoli. In ritardo rimase l’UE, probabilmente convinta che la crisi mondiale avrebbe risparmiato l’Europa dal contagio.

Contro le speranze e le attese, la crisi economico-finanziaria mostrò segni di cronicizzazione. Dopo un effimero rimbalzo del 2010 l’Europa viene violentemente investita dalla cosiddetta crisi dei debiti sovrani. In questo quadro critico di medio-lungo termine nell’area dei paesi sviluppati si fa strada l’ipotesi che la green economy sia una grande chance per l’emersione dalla crisi per la sua caratteristica di coniugare l’economia con l’abbattimento delle emissioni per contrastare la crisi climatica, con la riconsiderazione dell’uso efficiente dei materiali e delle risorse naturali, con la centralità delle risorse rinnovabili (energia, acqua, materie prime), con il rilancio dell’occupazione, con la nuova emergente concezione del benessere e con una nuova responsabilizzazione della società civile soprattutto in materia di sobrietà dei consumi e di nuovi, più sostenibili stili di vita. Ma la vera novità è la discesa in campo del sistema industriale che, pur tra contraddizioni ed opportunismi, dà prova di volersi schierare in favore dello sviluppo sostenibile. Per il sistema degli affari, industria e servizi, un impegno in tal senso era già stato assunto al Vertice della Terra di Johannesburg nel 2002 ed era stato poi consolidato con tutta una serie di pratiche, concettualmente classificate come Corporate Social Responsibility, CSR, ed anche organizzate attraverso forme associative di livello mondiale. Questa discesa in campo potrebbe essere decisiva a fronte dei ritardi, talvolta dell’insensibilità e dell’arretratezza culturale, ma anche del grave e paralizzante indebitamento di molte delle amministrazioni pubbliche a livello mondiale cui il Summit della Terra del 1992 aveva viceversa assegnato il compito di sviluppare e realizzare lo sviluppo sostenibile e di togliere dall’arretratezza e dalla povertà i paesi poveri di quello che allora veniva chiamato Sud del mondo.

Il punto di partenza comune a tutte le impostazioni della green economy  è il grave degrado ambientale, l’iniquità dell’accesso alle risorse ed alle opportunità, la necessità di contrastare la minaccia incombente del cambiamento climatico e la sempre più preoccupante scarsità delle risorse. L’obiettivo dichiarato di tutti i progetti è decarbonizzare l’economia globale, per tentare di contenere l’alterazione termica media globale della Terra entro i due gradi, con ingenti investimenti nell’efficienza dell’uso delle risorse naturali e nelle energie rinnovabili. Benché la green economy  stia soltanto facendo i primi passi, secondo una visione ormai universalmente condivisa i cosiddetti scenari economici “business-as-usual” non possono più essere un’opzione.

 

 

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