LA BASE INFORMATIVA
DELLA GREEN ECONOMY
a cura
della
IL RAPPORTO GE 2019
Ottava
Relazione sullo stato della
green economy
IL RAPPORTO GE 2018
Settima
Relazione sullo stato della
green economy
LA TRANSIZIONE ALLA GREEN
ECONOMY
I RAPPORTI ANNUALI SULLA
GREEN ECONOMY DELLA FONDAZIONE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE
l sei Rapporti 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016, 2017 sulla Green economy "Per uscire dalle due crisi", "Un Green New Deal per l'Italia", "Le imprese della Green economy"
e prima, seconda e terza "Relazione sullo stato della green economy in Italia" sono la base della visione
che ispira il cammino degli Stati generali della Green economy e ne
esplicitano i contenuti scientifici e programmatici.
IL RAPPORTO GE 2017
Sesta Relazione sullo stato della
green economy
IL RAPPORTO GE 2016
Lo stato della green
economy in Italia, in Europa e nel mondo
IL RAPPORTO GE 2015
Lo stato della green
economy in Italia
IL RAPPORTO GE 2014
Le imprese della green
economy. La via maestra per uscire dalla crisi
Presentato a Roma il 23 febbraio 2015
(>
vai alla presentazione)
(vedi anche >
Materiali di approfondimento)
IL RAPPORTO GE 2013
Un Green New Deal per
L'Italia
Presentato a Roma nel gennaio 2013
(>
vai alla presentazione)
IL RAPPORTO GE 2012
Per uscire dalle due
crisi
Presentato a Roma il 14 dicembre 2012
(>
vai alla presentazione)
***
I PRINCIPALI TITOLI
SULLA GREEN ECONOMY IN
LETTERATURA
2018 Green Economy Coalition
The 2017 Green Economy Barometer
(>
scarica il Rapporto)
2017 UCL University
The global green economy: a review of concepts, definitions, measurement
methodologies and their interactions
(>
scarica il Rapporto)
2016 UNEP
The Green Economy Progress measurement framework
Disponibili finora due
working paper 2015 e 2016. Vedi il resoconto alla pagina:
Green economy e
green jobs assessment
2016 GGKP
Measuring Inclusive Green Growth at the Country Level Taking Stock of
Measurement Approaches and Indicators
(>
scarica il Rapporto)
2015 UNEP
Uncovering pathways towards an Inclusive Green Economy. A Summary for
Leaders
(>
scarica il Rapporto)
2015 OECD
Towards Green Growth? Tracking
Progress
OECD Library
2015 IIED
China’s path
to a green economy Decoding China’s green economy concepts and policies
(>
scarica il Rapporto)
2014 UNEP
Using
Models for Green Economy Policymaking
(>
scarica il Rapporto)
A Guidance Manual for Green Economy
Indicators
(>
scarica il Rapporto)
A Guidance Manual for Green Economy Policy Assessment
(>
scarica il Rapporto)
2013 EU EEA
Towards a green economy
in Europe. EU environmental policy targets and objectives 2010–2050
(>
scarica il Rapporto)
2013 UNIDO
Green Growth: from
Labour to Resource Productivity. Best practice examples,
initiatives and policy options
(>
scarica il Rapporto)
2013
World Economic Forum
e
Green Growth Action Alliance
The Green Investment
Report. The ways and means to
unlock
private finance for green growth
(>
vai alla presentazione)
2012 UNDESA
A Guidebook to the
Green Economy
Issue 1: Green
Economy, Green Growth, and Low-Carbon Development – history, definitions and
a guide to recent publications
Issue 2: Exploring
green economy principles
Issue 3: Exploring
green economy policies and international experience with national strategies
Issue 4: A guide
to international green economy initiatives
2012 World Bank
Inclusive Green Growth
The Pathway to Sustainable Development
(>
scarica il Rapporto)
2012 UNU
Green economy and good
governance for sustainable development: Opportunities, promises and concerns
(>
scarica il Rapporto)
2011 EEA
Green economy
(> scarica il Rapporto)
2011 World Bank
From Growth to Green
Growth. A Framework
(>
scarica il Rapporto)
2011 UN Natural Resources Forum
The policy challenges
for green economy and sustainable
economic development
(>
scarica il Rapporto)
2011 OECD
Towards Green Growth
Sintesi di Margherita Macellari
2011 UN ILO
Towards a greener
economy: the social dimensions
(>
scarica il rapporto)
2011 OECD
Framework and
Tools for Assessing and Understanding the Green Economy at the Local Level
(> scarica il Rapporto)
2011 UNEP
Towards a Green Economy. Pathways to
Sustainable Development and Poverty Eradication
Sintesi di Margherita Macellari
2011 UN University
The Transition to a
Green Economy: Benefits, Challenges and Risks from a Sustainable Development
Perspective
(>
scarica il Rapporto)
2011 Regional
Activity Centre for Cleaner Production
Green Entrepreneurship
in Italy
(>
scarica il Rapporto)
2011 Fondazione per lo
Sviluppo sostenibile
Per saperne di più
sulla Green economy e sullo Sviluppo sostenibile
Presentazione ppt di Toni Federico
|
La green economy: l'economia dello sviluppo sostenibile
And those who
were seen dancing were thought to be insane by those who could not hear the
music
Attribuita a Friedrich Nietzsche
Una transizione verso un futuro progressivamente più sostenibile, con
emissioni di gas serra decrescenti, il recupero del degrado ambientale,
l'eliminazione della povertà estrema e il recupero di una condizione sociale
inclusiva e più equa richiede una economia diversa, vale a dire processi produttivi e tecnologie
più rispettose dell'ambiente ed una diversa concezione del benessere,
associata a criteri nuovi attraverso cui le imprese possano valutare il
valore aggiunto da esse stesse prodotto in funzione di tutto l’arco della
ricchezza, economica, naturale, umana e sociale e non solo del flusso dei ricavi,
il Pil, e della quantità di macchine e di
infrastrutture accumulate, lo stock costruito.
Al
vettore di questa irrimandabile trasformazione è stato dato dall'UNEP il
nome di green economy
che, pur declinata secondo diverse accezioni settoriali e scalata ai livelli
di sviluppo delle diverse nazioni e delle loro vocazioni, raccoglie tutto lo
sforzo attualmente in atto nel mondo verso lo sviluppo sostenibile, come
deriva dalla lezione di Rio+20. La green economy comporta una nuova
visione dei problemi e delle dinamiche dello sviluppo, nuove culture,
diverse abilità e modalità di formazione. Non è una fantasticheria per
chi "hears the music" nè una bolla come le tante che si sono
succedute negli anni e sono rapidamente passate di moda.
è in realtà il pilastro
economico dello sviluppo sostenibile e tale rimarrà nel tempo. Una
descrizione insiemistica dell'economia green e del ruolo che essa
occupa nel processo di transizione verso la sostenibilità può essere quella
della figura seguente.
Lo spazio di esistenza della green economy è quello delle
intersezioni delle tre ellissi (pilastri) indicato come "sustainable".
Lo spazio angusto della tripla intersezione dà una percezione della grande
quantità di criteri, regole e delimitazioni cui è assoggettata l'economia "green".
La
Fondazione per lo sviluppo sostenibile segue la transizione economica
green in Italia, in Europa e nel mondo dedicandole una Relazione annuale
di assessment, con una continua variazione degli approcci e delle
metodologie, sviluppati dalla Fondazione stessa e dai maggiori player
mondiali della green economy, la Relazione viene presentata agli
Stati Generali della Green economy
nell'autunno di ogni anno ed è ad oggi il documento di maggior rilievo
scientifico scritto in lingua italiana. Il player italiano è il
Consiglio nazionale della Green economy.
Nel mondo sono l'UNEP e l'OECD, nell'ordine e con sfumature diverse. Hanno
ruolo anche le Agenzie delle Nazioni Unite e un certo numero di piattaforme
e progetti che sono andate costituendosi in questi anni.
Nella
figura a sinistra c'è una rappresentazione per difetto del quadro
istituzionale e organizzativo dei driver mondiali della Green
economy, sviluppata da PAGE che è uno dei più autorevoli progetti
promossi dall'UNEP in ambito UN.
Queste pagine del Comitato scientifico intendono documentare a livello
scientifico tutto il quadro in movimento a livello internazionale e
intendono fornire tutti i riferimenti necessari per comprendere quanto sta
accadendo nella fase di trasformazione dell'economia.
Nella colonna di sinistra riportiamo tutta la documentazione prodotta e
accessibile sulla Green economy, con i link che permettono di
scaricare, acquisire o leggere i documenti di maggior livello. La produzione
mondiale in fatto di Green economy è straordinariamente vasta,
ragione per cui invitiamo a consultare le bibliografie via via riportate nei
Rapporti annuali della Fondazione.
Nella barra di comando di questa homepage e qui di seguito si trovano
gli accessi alle pagine di questo sito che entrano nei meriti di tutte le
problematiche e degli accadimenti della Green economy e, in
particolare:
- Green economy e
green jobs
assessment:
contiene i materiali per il monitoraggio della transizione
-
L'economia circolare:
quella parte della green economy dedicata alla gestione sostenibile delle
risorse
-
Le iniziative nazionali:
quanto viene fatto in Italia sulla Green economy al di là degli Stati
generali
-
Saggi e monografie:
il materiale bibliografico referenziato e il materiale monografico della
Fondazione
-
Rio+20:
la discussione e i documenti di approccio e di decisione al Summit sullo
sviluppo sostenibile
- L'Europa:
i contributi maggiori dell'Unione Europea
(Consiglio, Commissione, Parlamento e Agenzie)
-
Le
NGO: le posizioni delle
principali associazioni non governative ed ambientaliste sulla Green
economy.
> vai alla bibliografia aggiornata sulla Green economy
Rapporto 2023 sullo
stato della Green economy
Green economy e transizione ecologica,
di Toni Federico
Leggi il Rapporto completo
Gli impatti dell'inquinamento atmosferico e delle altre matrici in tutto il
mondo sono insostenibili. Oggi, più di un decesso su sei a livello globale è
causato dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua o del suolo. Poi c'è il
cambiamento climatico con la sua forza devastante. La prima rivoluzione
industriale ha le sue responsabilità, ma la dipendenza dell’economia dai
combustibili fossili viene dopo, c’è chi dice dal 1970, anno dal quale sono
state rilasciate l'80% delle emissioni di CO2 derivanti dalla
combustione di carbone, gas e petrolio, e il 60% di tutte le emissioni
serra. Le temperature stanno ora aumentando a un ritmo senza precedenti.
Ogni giorno ormai porta ondate di calore da record che mettono a dura prova
le persone, le reti elettriche e i sistemi sanitari, cicloni di intensità
crescente che devastano città e campi profughi, il fumo degli incendi che
soffoca le città e le inondazioni che costringono milioni di persone a
migrare.
Lo
spazio operativo sostenibile per la società e l’ambiente (fonte: Rockstrom)
Il
clima che cambia e il global warming sono
la minaccia più immediata per la nostra civiltà
e per gli esseri viventi, ma un'altra crisi altrettanto minacciosa, la
perdita di biodiversità, minaccia tutta la vita sulla Terra. Negli ultimi
quattro secoli, l'uomo ha portato all'estinzione almeno 680 specie di
mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci; ma come per il cambiamento
climatico, il tasso di impatto è aumentato. Dal 1970 è documentato un calo
di quasi il 70% delle popolazioni di specie selvatiche esistenti e negli
oltre otto milioni di specie animali e vegetali sulla terra, il tasso di
estinzione indotto dall'uomo è stimato da decine a centinaia di volte
superiore ai tassi naturali. Molti di noi pensano e agiscono ancora
supponendo che, se gli ecosistemi del nostro pianeta crollassero, potremmo
sopravvivere senza l'aria, l'acqua e le risorse essenziali che essi
forniscono. Non è così: il cambiamento climatico, l'inquinamento e la
perdita di biodiversità hanno raggiunto livelli che minacciano la nostra
sopravvivenza.
La risposta in campo è la transizione ecologica, costruita sull’economia
green, l’energia rinnovabile e il recupero circolare della materia. Lo
stesso modello di sviluppo è in transizione, perché abbiamo bisogno di
strategie complete e su più fronti, dall'energia pulita e dal ripristino
degli ecosistemi, all’istruzione delle donne nelle nazioni a basso reddito,
che affrontino il clima, l'inquinamento, la biodiversità e la salute, la
povertà e le altre disuguaglianze. A Parigi, nel 2015, il mondo ha accettato
di limitare il riscaldamento ben al di sotto dei 2 °C, una soglia ora
fissata a 1,5 °C dopo che gli scienziati hanno quantificato i rischi di un
ulteriore riscaldamento. Nel dicembre 2022, i paesi della convenzione ONU
sulla biodiversità hanno concordato il
Kunming-Montreal
Global Biodiversity Framework che affronta i principali
fattori di perdita di biodiversità e chiede la protezione del 30% di terra,
oceani e acque dolci entro il 2030.
Le politiche attuate dall'Accordo di Parigi hanno già ridotto il
riscaldamento previsto entro la fine del secolo da circa 4,5 a 2,8 °C. Il
2023 è l’anno del resoconto, lo stocktake che verrà fatto alla COP 28 di
Dubai ben sapendo che, a otto anni di distanza, siamo ancora lontani
dall’intraprendere la strada giusta. I fossili devono essere lasciati sotto
terra, le emissioni di gas a effetto serra devono essere ridotte e infine
eliminate attraverso l'efficienza, il miglioramento dell'uso del suolo e
delle pratiche agricole e la transizione verso l'energia pulita. Dobbiamo
investire nella natura, che ha il potenziale per assorbire fino a un terzo
delle nostre emissioni di carbonio. E abbiamo bisogno che i paesi scrivano e
attuino i propri
piani d'azione nazionali per il clima
(NDC) e anche per la biodiversità e che i finanziamenti affluiscano alla
mitigazione del clima, alla resilienza climatica e alla biodiversità nei
paesi a basso reddito e nelle principali aree di conservazione in tutto il
mondo, in particolare quelle più vulnerabili. L'implementazione di soluzioni
efficaci e positive per la natura è fondamentale per la lotta contro il
cambiamento climatico come il greening dei quartieri a basso reddito nei
grandi centri urbani che filtra l'inquinamento dall'aria, assorbe le
precipitazioni per prevenire le inondazioni, fornisce luoghi in cui le
persone possono stare nella natura, migliorando la loro salute fisica e
mentale, aumenta gli habitat per la biodiversità e assorbe più carbonio.
Nel corso degli anni, non solo per iniziativa delle Nazioni Unite, abbiamo
messo in campo strumenti globali di governo dello sviluppo per assicurarne
la sostenibilità e l’equità. Nell’ordine, solo per citare i maggiori,
l’Agenda 21, i Protocolli di Montreal e Kyoto, gli obiettivi del Millennio,
l’Agenda 2030 e gli Accordi di Parigi e di Kunming. Per noi europei il Green
Deal del 2019 ha aperto i cantieri della transizione ecologica.
Se il 2023 è l’anno dei bilanci per il clima va fatto anche quello della
sostenibilità, che non è confortante. Un gruppo indipendente di scienziati
ha proposto
una via da seguire alle le Nazioni
Unite. Il Rapporto ribadisce la
necessità di un cambiamento trasformativo
per portare il mondo su un sentiero di sostenibilità articolato in sei
linee: il benessere e le capacità umane; un’economia green sostenibile e
giusta; sistemi alimentari sostenibili e modelli nutrizionali sani;
decarbonizzazione dell’energia con accesso universale; sviluppo urbano e
periurbano e ambiente come bene comune globale. Gli autori riconoscono che
il percorso verso la sostenibilità deve includere anche l'abolizione di
pratiche non sostenibili, ma tenendo conto della sofferenza economica e
sociale che può causare. Ad esempio, aumentare la disponibilità di fonti
rinnovabili non basta per affrontare il cambiamento climatico: anche i
fossili devono essere gradualmente eliminati. C'è una resistenza attiva a
questo cambiamento e una reale necessità di sostenere le comunità colpite,
come quelle che hanno fatto affidamento sull'industria del carbone per
decenni. Il ruolo della scienza, nella transizione, viene esplicitamente
chiamato in causa e messo in discussione.
TORNA SU
Rapporto 2022 sullo
stato della Green economy
La crisi nel quadro internazionale,
di Toni Federico
Leggi il Rapporto completo
L'inconcepibile invasione russa dell'Ucraina del febbraio di quest’anno ha
messo in discussione il ruolo della Federazione Russa come uno dei primi tre
fornitori mondiali di combustibili fossili. Stati Uniti, Arabia Saudita e
Russia sono tra le prime nazioni in fatto di emissioni di gas serra.
L’energia e le materie prime sono le risorse centrali per lo sviluppo tanto
che ora vengono usate in chiave strategica per condizionare reciprocamente
le economie in competizione. La risposta alla scarsità di entrambe le
risorse sta nella energia rinnovabile e nella circolarità della materia ma
il percorso è irto di ostacoli.
La crisi ricorrente del modello di dominio occidentale è la causa della
comparsa di soggetti diversi nell’economia mondiale: il quadro
internazionale è ormai spezzato come non accadeva dai tempi della guerra
fredda. Sembra però che comune rimanga comune a tutti i soggetti la
dipendenza dai combustibili fossili, in palese contraddizione con il dato di
fatto che i paesi dell’area occidentale e dell’OECD di materie prime fossili
ne hanno molto poche, eccezion fatta, forse, per il carbone che di tutti è
il peggiore in termini di danni arrecati al clima. Anche mettendo da parte i
danni ambientali causati dall'estrazione e dall’uso dei combustibili
fossili, cui si deve probabilmente il grande balzo in avanti dell’economia e
della popolazione mondiali, si sta determinando una situazione di scarsità
generale e di dominio monopolistico che determina la volatilità dell'offerta
e la fluttuazione dei prezzi che ne fanno un pericoloso veicolo di ricatti e
di crisi.
Figura 1. Dipendenza dei paesi occidentali dalle importazioni di fossili
dalla Federazione Russa (fonte: IEA)
La capacità dell'Occidente di opporre sanzioni economiche al neoimperialismo
putiniano è compromessa dalla improvvida dipendenza dai combustibili
fossili. L'Europa, secondo una fonte americana,
è come un drogato che cerca di attaccare il suo spacciatore preferito. Non
può essere una minaccia credibile nel breve periodo.
Le interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali di energia,
materia e risorse naturali, non hanno origine soltanto dalla pandemia e
dalla guerra, ma sono un dato strutturale della crisi del mercato
globalizzato determinata dalla crescente difficoltà dei paesi occidentale di
imporre loro i prezzi e dalla oggettiva scarsità di tutte le risorse
primarie non meno che dei prodotti semilavorati, come i microchip, e delle
componenti hi-tech che sono in gran parte strategiche. Se è vero che in
Europa, USA e paesi OECD c’è una riserva di innovazione, automazione e
intelligenza artificiale, e quindi una maggiore disponibilità di lavoro e di
lavoratori ad alto livello di qualificazione, non è meno vero che ciò
prefigura un conflitto ineguale sui mercati internazionali e può favorire il
ritorno ad accaparramenti e soluzioni basate sulla forza militare, sul
riarmo e su quella teoria del dominio che ci siamo illusi di esserci
lasciati alle spalle.
In un mercato globale equilibrato la ricchezza dell'economia starebbe nei
servizi e nella creatività, nella produzione di informazioni, analisi,
design, benessere, educazione e intrattenimento. La tecnologia della
comunicazione, della informazione e dei trasporti rendono la produzione
globale il modo migliore per produrre beni e servizi di alta qualità e basso
costo. Quanto sta accadendo, pur se nascosto da dichiarazioni ufficiali
reticenti se non addirittura mendaci, mette in crisi l’approccio
multilaterale allo sviluppo sostenibile e alla lotta ai cambiamenti
climatici. Né l’uno né l’altra sono compatibili con situazioni di aperto e
dichiarato conflitto. L’approccio multilaterale non è mai stato rose e
fiori. Nel clima, in particolare, il paralizzante conflitto sulle
responsabilità tra Nord e Sud del mondo continua ad essere l’ostacolo
maggiore. Al recente meeting di Bonn i lenti passi in avanti della COP 26 di
Glasgow sembrano essere già un bel ricordo. La composizione delle
controversie con la Cina e i suoi 77 paesi in via di sviluppo (G 77) stava
facendo faticosi passi in avanti prima dell’irruzione brutale sulla scena di
un paese dimenticato come la Federazione Russa che vende fossili ed è
pertanto poco interessato alla lotta al riscaldamento globale. In più ha in
mano un impressionante arsenale nucleare.
TORNA SU
Gli
Stati generali della green economy alla decima edizione del 2021
Una roadmap al 2030 per portare l'Italia
all'avanguardia in Europa
Questa volta la peculiarità degli
Stati
Generali 2021, promossi dalla
Fondazione
per lo sviluppo sostenibile, è la
presentazione di una
roadmap al
2030 per fare dell’Italia una locomotiva
europea della green economy che contiene un percorso con
obiettivi precisi al 2030 e, soprattutto, una legge sul clima.
L’Italia ha le carte in regola per diventare una delle locomotive
europee della green economy
che può fare nel prossimo decennio un grande passo in avanti
grazie alla decarbonizzazione, all’economia circolare, al piano
europeo di Green Deal, alle risorse del PNRR,
alle nuove opportunità di innovazione e investimento, rafforzando e
rilanciando, così, importanti settori produttivi di beni e servizi
nazionali.
La
roadmap prevede: approvare una legge per la protezione del
clima per aumentare il passo nelle misure per la neutralità
climatica, raddoppiare le rinnovabili dal 20 al 40% e tagliare il
consumo di combustibili fossili del 40% al 2030, introdurre misure
di adattamento, coinvolgere attivamente le città nel raggiungimento
dei target climatici; valorizzare e sviluppare i potenziali
dell’Italia per l’economia circolare e il riciclo vincolando almeno
il 50% delle risorse del PNRR per sostenere progettazione e
innovazione di processi produttivi e di prodotti in direzione
circolare, semplificare le procedure end of waste e
promuovere l’impiego di materiali riciclati; accelerare la
decarbonizzazione dei trasporti aumentando gli investimenti per il
trasporto pubblico locale, disincentivando l’uso dell’auto privata
in città e approvando una legge quadro per la mobilità condivisa;
sostenere la transizione ecologica dell’agricoltura; approvare la
legge per la tutela del suolo; migliorare la tutela e la
valorizzazione del capitale naturale e recuperare i ritardi
dell’Italia nella digitalizzazione per sostenere la transizione ecologica.
L’Italia, ha dichiarato Edo Ronchi, che ha svolto la
relazione
introduttiva agli Stati generali, non deve
perdere questa occasione: deve puntare, con più decisione, a far
parte delle locomotive europee della green economy. Vincendo
la sfida della neutralità climatica con un’economia decarbonizzata e
competitiva, capace di generare maggior occupazione e un miglior
benessere, si costringerà così anche la Cina e gli altri paesi
ritardatari, ad inseguire. Ritengo giusto sollecitare la Cina, che è
una superpotenza economica, alla Cop 26 affinché prenda maggiori
impegni reali per l’attuazione dell’Accordo di Parigi, respingendo
il suo tentativo di nascondersi dietro ai Paesi in via di sviluppo,
per mascherare il suo disimpegno. Non si può però consegnare alla
Cina l’esito della Cop 26, anche perché con la conferma di un
massiccio uso del carbone, rifiutando impegni di riduzione delle
proprie gigantesche emissioni di gas serra fino al 2029 e rinviando
il suo percorso di decarbonizzazione, la Cina ha già deciso. Il
successo della Cop 26 dipende dal consolidamento dell’alleanza dei
Paesi che si stanno impegnando per la neutralità climatica, guidati
dall’Europa e dagli Stati Uniti: l’alleanza di coloro che, non senza
difficoltà, stanno facendo della neutralità climatica una leva di
Green Deal, per superare la recessione causata dal Covid.
Il Focus della
Relazione
sullo stato della green economy 2021
riguarda il rapporto fra la transizione green e la
trasformazione digitale: i due pilastri del Green Deal
europeo. In modo più accentuato nel dibattito italiano, rispetto a
quello europeo, questi due pilastri son stati presentati e, in
genere, gestiti nell’impostazione del nostro Piano nazionale per la
ripresa e la resilienza (PNRR) come separati, con poca attenzione
alle connessioni che li legano. Con questo focus La Fondazione si
propone di contribuire a superare questa rilevante carenza. La
digitalizzazione è molto importante per lo sviluppo della green
economy, in tutti i suoi aspetti strategici: un maggiore e
migliore utilizzo della digitalizzazione è indispensabile per
realizzare i cambiamenti decisivi della transizione ecologica.
TORNA SU
La Green economy come chiave del
rilancio dello sviluppo
di Toni Federico, Fondazione per lo sviluppo
sostenibile, Luglio 2021
Leggi l'intero Rapporto
Nella
interpretazione delle prime ore dello scorso anno la pandemia avrebbe
arrestato la crescita. Si pose allora come obiettivo di uscirne al più
presto per limitare la crisi ad un breve spike dei fattori della
crescita, seguito da un ritorno alla normalità preesistente. Potrebbe essere
il modello cinese che ha imposto un lockdown militarizzato seguito da
un ritorno rapido allo status quo ante. Non è andata così, la pandemia si è
diffusa in tutto il pianeta con vicende alterne, chiusure controllate,
varianti etc., alla fine delle quali si deve ammettere che il virus
continuerà a coabitare a lungo con l’umanità e che nulla sarà come prima. Il
problema che si pone è ora quello di un nuovo modello di sviluppo che vada
alle origini naturali della crisi sanitaria in atto e quindi,
inevitabilmente, dell’altra grave crisi in rapido sviluppo che è il
cambiamento climatico.
Il nuovo concetto in campo è quello della
transizione[1] da un modus
economico e sociale inadeguato, ingiusto e generatore di gravi crisi ad uno
nuovo, sicuro, giusto e resiliente. Sullo sfondo, è inutile dirlo, si
accresce una polemica contro il sistema economico che si è globalizzato
senza regole in chiave neoliberista, fallimentare in tutte le dimensioni,
della sostenibilità, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura
e, infine, della stessa efficienza economica. Basta ricordare la crisi
finanziaria del 2008, quando i governi di tutto il mondo hanno iniettato
oltre 3 trilioni di dollari nel sistema finanziario. L'obiettivo era
sbloccare i mercati del credito e far funzionare nuovamente l'economia
globale. Ma, invece di sostenere l'economia reale, la maggior parte degli
aiuti è finita nel settore finanziario. I governi hanno salvato le grandi
banche di investimento che avevano creato la crisi e che, quando l'economia
è ripartita, hanno goduto i frutti della ripresa. L'economia globale è
rimasta disarticolata, diseguale e ad alta intensità di carbonio come prima[2].
Nei mesi successivi alla comparsa del
virus, nel 2020, i governi sono intervenuti per affrontare la nuova crisi
lanciando pacchetti di stimolo per proteggere i posti di lavoro, emanando
norme per rallentare la diffusione della malattia e investendo nella ricerca
e nello sviluppo di cure e vaccini. Questi sforzi di salvataggio sono
necessari. Man mano che i paesi escono dall'attuale crisi, possono fare di
più che stimolare la crescita economica; possono guidare la direzione di
tale crescita per costruire un'economia migliore. Invece di fornire
assistenza senza vincoli alle aziende, possono condizionare i loro
salvataggi a politiche che proteggano l'interesse pubblico e affrontino i
problemi della società e dell’ecosistema. Possono rifiutarsi di salvare le
aziende che non intendono ridurre le loro emissioni di carbonio o smettere
di nascondere i loro profitti nei paradisi fiscali.
Per troppo tempo i rischi sono stati
socializzati e i benefici privatizzati. Nei momenti di bisogno, molte
aziende chiedono l'aiuto del governo, ma nei momenti favorevoli chiedono che
il governo si allontani. La crisi del Covid-19 rappresenta un'opportunità
per correggere questo squilibrio attraverso un nuovo stile di negoziazione
che costringe le aziende salvate ad agire maggiormente nell'interesse
pubblico e consente ai contribuenti di condividere i benefici dei successi
tradizionalmente attribuiti al solo settore privato[3].
Ma se i governi invece si concentrano solo sulla fine del disagio, senza
riscrivere le regole del gioco, allora la crescita economica che segue alla
crisi non sarà né inclusiva né sostenibile. Né servirà alle imprese
interessate per darsi un’opportunità di crescita a lungo termine.
L'intervento sarà stato uno spreco e l'occasione mancata non farà altro che
alimentare una nuova crisi.
Il futuro della terra[4]
Stiamo vivendo rapidi cambiamenti globali
a causa delle pressioni umane, che probabilmente superano i livelli di
sicurezza in diverse dimensioni. I tassi di estinzione delle specie sono da
decine a centinaia di volte superiori a quelli medi degli ultimi 10 milioni
di anni, con una diminuzione del 68% delle popolazioni di animali selvatici
solo a partire dagli anni '70; abbiamo la più alta concentrazione
atmosferica di gas serra degli ultimi 3 milioni di anni, un periodo
geologico in cui le temperature medie globali non hanno mai superato i 2°C
di riscaldamento globale rispetto ai livelli preindustriali; ci sono
elementi di instabilità dei sistemi che regolano lo stato del sistema Terra
e possono evolvere in maniera irreversibile e subiamo un diffuso
inquinamento dell'aria e dell'acqua a causa del nostro uso di minerali,
prodotti chimici e nuove sostanze. La frequenza di diffusione delle malattie
zoonotiche è aumentata con il degrado umano degli habitat naturali, come
prova la pandemia di Covid-19.
La comunità scientifica ha fornito
obiettivi basati sull'evidenza per evitare pericolosi cambiamenti climatici
e la perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici. È il caso
dell’obiettivo di Parigi di tenere l’aumento della temperatura media globale
ben al di sotto dei 2 °C, con l'obiettivo degli 1,5 °C al di sopra dei
livelli preindustriali. Sono necessari obiettivi certi e sicuri anche per
gli altri processi e sistemi vitali che regolano lo stato del pianeta,
compresa l'assegnazione e la configurazione appropriate dell'uso del suolo,
la salute degli oceani e il ciclo globale di azoto, fosforo e acqua che
supportano la vita. L'identificazione di intervalli sicuri per ciascuno di
questi sistemi, come le Planetary Boundaries[5],
non sarà sufficiente per indicare un percorso sicuro. Devono essere
considerate le complesse interazioni e i feedback tra i processi del sistema
Terra che possono rendere ogni percorso molto più arduo. È fondamentale
comprendere i feedback che regolano, o destabilizzano, ciascuna variabile,
come interagiscono su scale temporali diverse e come cambiano.
Lo stato del sistema terrestre durante
l'Olocene, iniziato circa 11.700 anni fa, con un clima relativamente stabile
al pari dei cicli biogeochimici e dei servizi ecosistemici, ha consentito
uno straordinario sviluppo umano, poggiato su una continua innovazione in
agricoltura, nelle città, nelle economie, nell’energia e nei sistemi di
comunicazione sempre più complessi e integrati. Non ci sono prove che
miliardi di esseri umani e società altrettanto complesse possano prosperare
in altri climi conosciuti, come le ere glaciali o le alte temperature.
La
comunità umana
Le scelte e le azioni umane possono
restringere o facilitare il percorso sicuro e giusto dello sviluppo. In
primo luogo un mondo non sicuro aumenta le disuguaglianze, quindi la
sicurezza è una precondizione necessaria per uno sviluppo giusto, ma non è
sufficiente. In secondo luogo, una domanda chiave è come possono essere
raggiunti obiettivi ecologicamente sicuri, raggiungendo allo stesso tempo
obiettivi per il benessere e la giustizia umani. Ad esempio, il
raggiungimento degli obiettivi sociali dell'Agenda 2030 può portare a
superare alcuni limiti di sicurezza per lo stato biofisico del sistema
Terra. Raggiungere obiettivi biofisici, come gli 1,5 °C per il clima o
aumentare la protezione degli ecosistemi, può minare il benessere, se, ad
esempio, la bioenergia compete con la produzione alimentare o le aree
protette minano i mezzi di sussistenza locali. In terzo luogo, i rischi di
superare obiettivi sicuri e giusti sono maggiori per le persone vulnerabili
e possono influire sulla salute umana, spostare le persone e destabilizzare
le società. Allo stesso tempo, i più colpiti dai cambiamenti ambientali sono
spesso quelli che causano un impatto ambientale minore e hanno meno
resilienza e capacità di adattamento. Gli eventi meteorologici estremi
uccidono o danneggiano in modo sproporzionato i poveri, le donne, gli
anziani, i bambini e le popolazioni indigene. Il cambiamento climatico può
costringere all’emigrazione milioni di persone, in particolare nelle parti
più povere del mondo. La pandemia di Covid-19, legata in parte al declino
naturale e al maggiore contatto uomo-fauna selvatica, ha colpito in modo
sproporzionato i più vulnerabili. La loro vulnerabilità è spesso creata da
strutture sociali, atteggiamenti e sistemi di governance che sono ingiusti e
non danno priorità al benessere per tutti.
Il percorso dello sviluppo sicuro e
giusto dovrà essere determinato per tutti gli obiettivi dal più rigoroso tra
i target sicuri e giusti. Ad esempio, un obiettivo climatico valido per
tutti gli esseri umani potrebbe essere più rigoroso di un obiettivo che
evita la maggior parte dei punti critici del clima, che a sua volta potrebbe
essere più rigoroso di un obiettivo che garantisce solo una minoranza della
popolazione.
Come possiamo raggiungere gli obiettivi
sicuri e giusti? Accettiamo che un mondo giusto sia una precondizione per
poter realizzare un mondo ecologicamente sicuro? Per ottenere tali
trasformazioni occorre equità, responsabilità, condivisione del rischio e
prospettiva partecipativa. L’Agenda 2030 è accompagnata da un consenso
globale sui principi chiave della giustizia distributiva delle risorse e può
essere un punto di partenza per un percorso sicuro e giusto che garantisce
che nessuno sia lasciato indietro. Ma, mentre reclama la riduzione delle
disuguaglianze, deve ancora fissare obiettivi relativi a come dovrebbero
essere condivisi risorse e rischi. Sebbene richieda il rafforzamento dei
mezzi di implementazione, non indica come dovrebbero essere effettivamente
usati. La politica di chi ottiene che cosa, quando, dove e come, è spesso
determinata da coloro che sono più potenti nel sistema. Le regole di accesso
e distribuzione delle risorse sono così quasi sempre bloccate e difficili da
cambiare.
È necessario determinare quali strategie
di risposta sono più efficaci nel gestire non solo i sintomi di un problema
ma anche le cause sottostanti, quali siano capaci di corrispondere alla
diversità e alla evoluzione di società, culture, economie e tecnologie e
quali soddisfano criteri minimi di etica, trasparenza, fiducia,
collaborazione, riconoscimento e governance inclusiva. Spesso restano
indeterminati i trade-off e le sinergie tra obiettivi e target
differenti che possono condizionare una transizione che si prefigge di
condividere in modo equo le risorse scarse della Terra e al contempo
continuare a garantire lo sviluppo umano.
[1]
Edo Ronchi, 2021, Le sfide della transizione ecologica,
Piemme, Mondadori, Milano
[2]
Mazzucato M., 2020, Capitalism After the Pandemic. Getting the
Recovery Right, Foreign Affairs, https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2020-10-02/capitalism-after-covid-19-pandemic
[3]
Faiella, Natoli, 2020, The Covid-19 crisis and the future of the
green economy transition, Banca d’Italia, Covid-19 Notes
[4]
Rockström J. et al., 2021, Identifying a safe and just corridor
for people and the planet, Earth's Future, 9, e2020EF001866,
https://doi.org/10.1029/2020EF001866
[5]
Rockström J., 2021, The Planetary Boundaries, Stockholm
Resilience Centre, Stockholm University, https://stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries.html
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Lo stato internazionale della Green
economy sotto gli effetti della pandemia
di
Toni Federico, Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Settembre 2020
leggi
il rapporto completo
La pandemia perdurante ha introdotto
elementi di grave incertezza nel quadro mondiale delle politiche dello
sviluppo. È tradizione della Fondazione produrre ogni anno un Rapporto che
contiene un assessment dello stato della green economy a
livello internazionale. Generalmente i dati e i trend rilevati nell’ultimo
anno, oggi quindi nel 2019, sono quelli ai quali ci si riferiva. La pandemia
rende impossibile questo schema perché causa fortissimi shock su tutti gli
indicatori. Si pensi che il crollo dei consumi assieme al crollo dei PIL può
dare delle sorprese, eventualmente risultando in un miglioramento degli
indici di produttività delle risorse e delle efficienze. Questi andamenti,
resi incerti dalla difficoltà di avere dati credibili, possono dare
indicazioni fuorvianti.
Per queste ragioni il Rapporto sarà
svolto in due parti. La prima parte sviluppa un assessment
tradizionale con gli ultimi dati disponibili a fine 2019 utilizzando lo
schema di temi e di indicatori che ancora una volta segue i criteri
dell’OECD (in tabella) e le nostre tradizionali linee di analisi.
Tabella 1. Gli indicatori guida per l’assessment della Green economy (fonte:
OECD, 2017)
La seconda parte è un tentativo di
inoltrarci nei macrofenomeni causati dalla pandemia di Covid - 19, usando i
pochi dati disponibili e la moltitudine di inferenze, scenari ed illazioni
della pubblicistica internazionale che possono gettare luce sulla sorte
della green economy e dello sviluppo sostenibile dei prossimi mesi. Daremo
attenzione soprattutto alle misure di recovery varate praticamente da
tutti i governi del mondo allo scopo di potenziare la resilienza dei sistemi
economici e sociali, fortemente in crisi per effetto delle misure sanitarie
anti - Covid. Analizzeremo alcuni fenomeni spettacolari a vantaggio
dell’ambiente determinati dalle misure generalizzate di lockdown, in
fatto di emissioni in atmosfera di inquinanti short e long lived
e qualcuno degli effetti di rimbalzo visibili in questi ultimi mesi.
Esamineremo tutte le questioni rilevanti
per la green economy a fine decennio, dallo stato del clima,
dell’energia, delle risorse naturali e dell’inquinamento dell’aria, seguendo
il metodo tradizionale. Seguiremo nella misura dovuta il quadro di
assessment dell’OECD senza trascurare altri e più ampi fenomeni che
caratterizzano la sostenibilità nel mondo.
La produttività carbonica dei paesi OECD,
disponibile al 2018, è di 4,9 US$2015/kgCO2 con un trend annuale medio su
base decennale di +11%. Il dato mondiale non c’è, ma possiamo darlo per
l’Europa per cui i due dati sono rispettivamente 6,72 US$2015/kgCO2 e +19%.
Per la Cina si trovano 2,27 US$2015/kgCO2 con il +8,7%.
La produttività delle risorse non
energetiche, disponibile al 2017, per l’OECD vale 4 US$2015/kgDMC, con un
trend decennale medio per anno dell’11%. Qui è disponibile il dato per i
BRIICS che vale 0,9 US$2015/kgDMC, con un trend decennale medio modesto e
pari al 1,1% per anno. Per la Cina il dato 2018 è 0,67 con un magro trend
dell’1,3%.
La crescita della produttività
multifattoriale, calcolata dall’OECD come crescita green[1],
è negativa per Cina ed Italia. Disponibile al solo 2013, vale per la Cina
-0,28%, dopo annualità positive culminate nel 2007 con un +5%, con un trend
decennale che equivale ad una perdita lineare media totale di 0,29 punti per
anno, per gli USA 1,02 con una perdita di 0,19 punti per anno e per
l’Italia, a titolo di esempio vale -0,93 nel 2013 con una perdita lineare
negli ultimi dieci anni di 0,29 punti percentuali per anno.
La copertura verde è discretamente
stabile. Vengono date la superficie persa e quella guadagnata dal 1992 al
2015. Per il pianeta abbiamo -2,72 e +1,53%, in perdita di mezzo punto ogni
10 anni. I paesi OECD perdono un quinto di punto ogni dieci anni, come
l’Europa a 28. La Cina perde 0,4 punti ogni 10 anni e i BRIICS, Cina
compresa, perdono 0,7 punti ogni 10 anni. È evidente che la criticità non è
nei paesi sviluppati.
Come indicatore guida per la qualità
ambientale l’OECD sceglie l’esposizione della popolazione al particolato
fine, PM2,5. Rispetto all’ultimo dato del 2017 a livello mondiale che dà una
media di 44,7 µg/m3, con un trend incerto valutabile in -0,08 µg/m3 per
anno, cioè quasi niente, la situazione dei paesi OECD registra 12,5 µg/m3 in
discesa di 0,19 µg/m3 per anno. L’Europa è di poco più avanti con 12,5 e 0,2
µg/m3 per anno. La Cina viceversa resta nel 2017 a 53,45 ma migliora di
mezzo µg/m3 per anno, al pari dei BRIICS che sono a 59,33 e migliorano di un
misero 0,12 µg/m3 ogni anno. Le linee guida del WHO prescrivono 35 µg/m3 per
il 2030 e 10 µg/m3 per il 2050.
Il ricchissimo database della green
economy dell’OECD offre altri dati globali di interesse primario. Nel 2018
le emissioni di CO2 superano le 33 Gt (4,35 t pro capite su base annua); di
cui 9,5 sono cinesi (6,67 t pro capite), 4,9 USA (15 t pro capite) e 3,1
EU28 (6,16 t pro capite). La produttività energetica primaria dei paesi OECD
è di 10,6 kUS$/toe nel 2018, quella europea è di 13,2, quella USA è di 8,7 e
quella cinese è pari a 6,8 kUS$/toe.
L’ultimo dato 2014 sulla superficie
costruita ne fissa il valore mondiale allo 0,59% del totale, 1,11% per
l’OECD, 3,35% per EU28, 1,63% per gli USA e 1,13% per la Cina. Il patrimonio
forestale lordo vede al primo posto i BRIICS con 210,3 Gm3, poi il Brasile
con 96,7, i paesi OECD con 80,1, gli USA con 40,7 e la Cina con 16 Gm3. Nel
2017 la percentuale della popolazione con accesso all’acqua potabile è del
70,6% a livello mondiale, del 98% nell’area dell’euro, del 99% negli USA e,
tra i PVS, del 20% in Nigeria.
Il controverso quadro degli aiuti
ufficiali allo sviluppo, gli ODA, gestiti dall’OECD ed espressi in millesimi
di PIL vedono l’Italia al 3 permille, gli USA ad 1,8, la Federazione Russa a
0,8. Tra i solventi sopra il fatidico 7 permille sul quale tutti in Paesi
donatori si sono ripetutamente impegnati all’ONU, la Danimarca è al 7,4, La
Turchia al 9,5, la Norvegia al 9,9, la Svezia al 10,2, e, dulcis in fundo,
gli Emirati Arabi Uniti al 10,3 permille.
Le quote della tassazione ambientale in %
del PIL sono tutte in discesa più o meno marcata. Al 2018 vediamo l’OECD
all’1,55%, gli USA allo 0,71, La Cina allo 0,7, la Germania all’1,79, la UK
a 2,3 e l’Italia al 3,31%. La questione molto delicata dei sussidi ai
combustibili fossili, se calcolata in percentuale del gettito fiscale nel
2018, vede l’OECD allo 0,69%, gli USA allo 0,11, la Germania allo 0,34, la
UK all’1,67, l’Italia all’1,25, i BRIICS al 4,35%. La Cina è del tutto fuori
campo con il 655%, frutto delle diverse modalità ufficiali di calcolo del
gettito fiscale.
Per quanto riguarda il capitale naturale
e la biodiversità, le aree protette terrestri in percentuale del territorio
(e le aree marine protette espresse in termini % delle zone economiche di
competenza), sono nel 2019 a livello mondiale il 13,2% (16,8%). L’OECD
registra il 15,6 (20,7), EU28 il 25,9 (12), gli USA 12,54 (19). La Cina ha
protezioni misere, terrestri dell’1,7% e marine dello 0,3%.
Il reddito procapite in US$2015 nel 2019
vale 60.696 US$ per gli USA, 44.179 per l’area Euro, 43.018 per l’OECD e
13.432 per la Cina.
L’aspettativa di vita alla nascita in
Giappone è 84,4 anni, in Italia 83,3, in USA 78,9, nei paesi OECD 80,4 e in
Cina 77 anni.
Non ci possono essere certezze ma solo
tendenze, previsioni e scenari nella valutazione degli effetti della
pandemia sulla transizione in corso verso la sostenibilità guidata dalla
green economy. Ovviamente le basi di dati ufficiali e gli indicatori
guida della green economy non registrano ancora niente. Tutte le variabili,
dal PIL alla CO2 dovrebbero subire a fine anno 2020 una transizione
imponente, seguita da un rebound più o meno pronunciato. Sulle medie
di fine anno le variazioni rispetto alle serie storiche si vedranno, ma
quanto accadrà a medio termine dipenderà da una infinità di fattori. Il
primo è la imprevedibile evoluzione della pandemia che nei mesi estivi si
sta aggravando contro ogni ottimistica attesa. Il secondo è la resilienza
ecosistemica generale, messa a dura prova nella componente umana. A
politiche correnti sta succedendo che i prezzi maggiori sono a carico in
tutto il mondo delle fasce deboli per reddito, età, cultura e capitale
sociale. Le già gravissime diseguaglianze economiche e sociali tra i Paesi e
all’interno di ciascun
Paese stanno dando a piene mani i
loro frutti venefici. Conflitti e migrazioni non fanno che aggravarsi e la
pandemia è appena una ragione in più rispetto alla miseria, alla guerra e
alla fame di sempre.
L’assetto mondiale pre – Covid, che si
può definire in tutta approssimazione capitalismo globalizzato, sta dando
ovunque una ulteriore pessima prova di sé. Le catene del valore si
sbriciolano, i licenziamenti impazzano e il capitale accumulato dal settore
privato sembra essersi volatilizzato. Il nuovo mood dello Stakeholder
Capitalism[1],
celebrato in inverno a Davos[2],
si intravede solo nei messaggi promozionali.
Il peso della pandemia è stato lasciato
tutto sulle spalle della collettività. I governi, senza riserve e spesso
carichi di debiti, come il nostro, si stanno caricando mortalmente di altri
prestiti, emettendo altre obbligazioni e rinviando i pagamenti.
In questo quadro solo un valore può
contare, la solidarietà. E tale valore resterà nel novero delle buone
intenzioni se gli sforzi dei governi e delle istituzioni internazionali non
andranno verso lo sviluppo sostenibile con tutte le trasformazioni
economiche e sociali che esso comporta. È importante l’esempio che sta
dando al mondo intero l’Unione europea col Green Deal e il Next
Generation EU. Cina, India, Stati Uniti e Brasile sembrano però pensare
piuttosto ai fatti propri e a tornare alle loro economie brown.
L’Europa ha dichiarato che intende porre al centro della ripresa la lotta ai
cambiamenti climatici, l’Accordo di Parigi, la decarbonizzazione entro il
2050, nel quadro di una transizione giusta. Il punto è proprio questo. In
che misura saremo capaci di emergere dalla dura prova della pandemia con un
assetto economico e sociale diverso e dotato di una visione di sviluppo
equa, inclusiva e sostenibile? In che misura dimostreremo di essere non solo
resilienti ma capaci di uscire dalla crisi con una transizione positiva? Le
dichiarazioni ufficiali sono piene di questo ottimismo, le pratiche di
recovery dei vari governi, come vedremo, molto meno.
Le somme messe in gioco per rilanciare
l’economia e il benessere sono ingenti e ingente è la recessione se la
calcoliamo con i PIL e con gli indici di disoccupazione. Ci sono esperienze
precedenti di crisi altrettanto e più gravi a livello mondiale. Nonostante
il New Deal di Roosevelt la crisi del ’29 si è trascinata per 15 anni
finendo con una guerra mondiale sciagurata e sanguinosa. La più recente
crisi del 2008, una delle tante del ciclo capitalistico, non era ancora del
tutto recuperata alle soglie della pandemia. In tutte le crisi si è fatto
ricorso ai fondi pubblici, a pacchetti di stimolo e a tutto l’armamentario
delle misure finanziarie ma, in nessun caso, siamo usciti dalle crisi
migliori.
E allora? Riprendiamo le parole di un
visionario: “La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma da una crisi non si
può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori… Dopo la crisi,
continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di
disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato e della casa comune?
Pensiamoci … se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno
manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più
sano e più equo. Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia
sociale; è un virus che viene da un’economia malata. Quando l’ossessione di
consumare, possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari;
quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il
tessuto sociale e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato
minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare … dobbiamo
agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di
migliore. L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo
œconomicus in senso deteriore, individualista, calcolatore e dominatore.
Ci dimentichiamo che … siamo esseri sociali, creativi e solidali, con
un’immensa capacità di amare. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra
tutte le specie, e fioriamo in comunità…”.
[1]
WEF, 2020,
Davos Manifesto 2020: The Universal Purpose of a Company in the
Fourth Industrial Revolution, in:
WEF, 2020,
Taking stakeholder capitalism from principle to
practice,
in: https://www.weforum.org/agenda/2020/01/stakeholder-capitalism-principle-practice-better-business
[1] La
definizione originale OECD è: “Environmental and resource
productivity indicate whether economic growth is becoming greener
with more efficient use of natural capital and to capture aspects of
production which are rarely quantified in economic models and
accounting frameworks”.
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CLIMA
ED ECONOMIA IN UN MONDO PIÙ GREEN
Stato
e tendenze del 2018, con un focus sugli impatti ecosistemici dei cambiamenti
climatici,
di Toni Federico
Leggi l'intero Rapporto
C’è sempre più
green economy nel mondo, anche se non è abbastanza. Gli obiettivi dello
sviluppo sostenibile restano infatti ancora lontani nella dinamica di una
transizione che stenta ad avviarsi con l’intensità necessaria. La
transizione punta ad uno sviluppo umano capace di futuro nel quadro di
un’economia green, ecologica e sociale di mercato, in alternativa al
consumare e produrre sempre di più qualunque cosa mediante meccanismi che
alimentano disuguaglianze crescenti[1].
Siamo ormai ad oltre
dieci anni dal lancio del Programma della green economy da parte
dell’UNEP[2],
e la penetrazione della green economy si va consolidando[3]
nel mondo senza abbandonare le finalità originarie, cioè:
·
La
decarbonizzazione dell’energia;
·
Il risparmio
delle risorse naturali nei cicli industriali e civili, quindi l’economia
circolare;
·
La tutela del
clima e del capitale naturale;
·
Un benessere
inclusivo e di migliore qualità per tutti.
Le modalità di
assessment dell’avanzamento di tali paradigmi sulla scala planetaria
possiamo ritenere siano ancora quelle stabilite dall’OECD[4]
ed approfondite nella Relazione sullo stato della green economy prodotta
dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel 2018:
·
La produttività
delle risorse energetiche, materiali e biologiche;
·
Lo stato e gli
scenari dei cambiamenti climatici;
·
Lo stato del
capitale naturale;
·
La qualità
della vita e dell’ambiente;
·
Le politiche
attive per lo sviluppo sostenibile: innovazione, mercati, flussi finanziari,
regimi fiscali e incentivi.
Le produttività carbonica e dei materiali
sono migliorate a livello globale. Tra gli anni 1990 e 2016 la produttività
energetica è passata a livello globale da 5,25 a 7,94 US$2010/kep.
La produttività dei materiali non energetici è passata per i paesi OECD da
2,22 a 3,27 US$2010/kg. Nello stesso periodo, ad esempio, la Cina ha
risultati inferiori di un ordine di grandezza, 0,32 e 0,68 US$2010/kg. Il
quadro delle emissioni globali di CO2, pur se in costante aumento, registra
produttività carboniche che, per effetto della crescita economica, vanno a
livello globale nell’intervallo tra 2,25 e 3,38 US$2010/kgCO2 rispetto, ad
esempio, al dato italiano che va in pari tempo da 4,39 a 6,28 US$2010/kgCO2.
Lo sviluppo
sostenibile si definisce all’interno di una struttura concettuale a
ciambella[6]
che impone da un lato di non superare i limiti ecosistemici del pianeta e
dall’altro di non scendere al disotto delle compatibilità sociali minime ed
eguali per tutti della qualità della vita e dell’accesso alle risorse. La
green economy garantisce gli uni e le altre. Lo Stockholm Resilience
Centre[7],
ci informa che il superamento dei limiti planetari è già avvenuto per la
perdita della biodiversità e per i flussi biogeochimici di azoto e fosforo,
mentre per i cambiamenti climatici è per ora all’orizzonte vicino che è
quello del riscaldamento medio superficiale terrestre a 2 °C, il massimo
dell’anomalia termica stabilito a Parigi nel 2015. La green economy, per
mirare all’Accordo di Parigi, deve accompagnare le economie in transizione
verso la completa decarbonizzazione alla metà del percorso, al 2050.
OECD, 2011,
Towards Green Growth,
OECD Green Growth Studies, OECD Publishing, Paris, in:
http://dx.doi.org/10.1787/9789264111318-en
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Dagli Stati generali della
Green economy allarme sulla transizione troppo lenta
Dagli Stati generali della Green economy 2019, per il resoconto
puntuale dei quali rimandiamo al
sito, il
Rapporto 2019
sulla Green economy lancia un allarme sui ritardi
dell'avvio del processo di transizione energetica ed economico sociale che
deve mettere l'umanità al riparo dai gravi esiti del cambiamento climatico e
accelerare il conseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Molti gli interventi di rilievo che si sono succeduti. Di seguito riportiamo
alcuni dei contenuti dell'intervento
guida del presidente Edo Ronchi e del
responsabile
energia e clima Andrea Barbabella.
Il sistema energetico mondiale, basato sui combustibili fossili, sta
cambiando troppo lentamente Dal 1965 al 2018 la quota del fabbisogno
mondiale di energia soddisfatta dai fossili è scesa solo dal 94 all’82%.
L’aumento dell’uso di energia nel 2018 è stato ancora soddisfatto per il 71%
con carbone e petrolio. Il consumo di energia nel 2018 è cresciuto del 2,9%,
il massimo dal 2010. Nel 2018 il consumo di petrolio è cresciuto dell'1,5%,
principalmente a causa del settore trasporti e quello di carbone è aumentato
dell'1,4%, la crescita più rapida dal 2013. l contributo delle energie
fossili alla generazione elettrica è rimasto stabile intorno al 64%.
Lo sviluppo delle fonti rinnovabili è troppo lento. Nel 2017 le rinnovabili
hanno soddisfatto il 18,1% del consumo totale di energia. Nel 2018 le fonti
rinnovabili hanno fornito il 26% dell'elettricità globale. L’utilizzo di
energie rinnovabili nel riscaldamento e nel raffreddamento rimane invece
limitato a circa il 10% della domanda.
La crisi climatica globale si sta aggravando. Con gli
impegni dichiarati dagli Stati, siamo ben lontani dall’Accordo di Parigi:
stiamo marciando verso i 3 °C a fine secolo, ritenuto un livello di
riscaldamento globale molto pericoloso, dalle conseguenze sconvolgenti. Dopo
tre anni di stabilità, le emissioni di CO2
sono cresciute dell'1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018, fino a un record di
37,1 Gt. La concentrazione di CO2
in atmosfera ha oramai superato 413 parti per milione, un valore che la
Terra non ha mai conosciuto almeno negli ultimi 800 mila anni.
In Italia la green economy ha raggiunto, nel recente
passato, risultati importanti, ma siamo probabilmente entrati in una fase di
rallentamento e di difficoltà. Le emissioni italiane di gas serra non calano
da 5 anni: dal 2014, quando erano di 426 Mt di CO2eq,
le stesse del 2018. I dati del primo semestre del 2019 indicano un aumento.
Secondo Eurostat, nel 2017 l’Unione europea ha ridotto le proprie emissioni
di gas serra di oltre il 23% rispetto al 1990: il Regno Unito le ha ridotte
del 40% la Germania del 28%, l’Italia, pur tenendo conto che partiva da
emissioni pro capite minori, le ha ridotte solo del 17%.
Emissioni comparative in numeri indice rispetto al 1990 dell'Italia e
dell'Europa
Tra il 2014 e il 2017, con una ripresa economica modesta, il consumo interno
lordo di energia è tornato a crescere, da 166 a oltre 170 Mtep. Nel 2018 con
una crescita del Pil dello 0,9%, il fabbisogno energetico è aumentato di
quasi il 2%, facendo aumentare anche l’intensità energetica.
Dati delle dinamiche energetiche ed economiche italiane
Negli ultimi 5 anni la crescita delle rinnovabili in Italia si è quasi
fermata. Nel 2017 le fonti energetiche rinnovabili avevano soddisfatto il
18,3% del fabbisogno energetico, contro il 17,5% della media europea, il
17,5% della Spagna, il 16,3% della Francia, il 15,5% della Germania e il
10,2% del Regno Unito.
Crescita delle rinnovabili in Italia
In Italia, già Paese europeo con più auto, le emissioni medie di CO2/km
delle nuove auto stanno aumentando dal 2018. Nel 2018 l’Italia, con 644
automobili ogni 1000 abitanti (635 nel 2017), è il Paese europeo col tasso
più alto di auto. Nei primi otto mesi del 2019, le emissioni medie
specifiche delle nuove auto immatricolate sono aumentate a quasi 120 gCO2/km,
il 5,5% in più rispetto allo stesso periodo di un anno fa. L’Italia sconta
un ritardo storico nella penetrazione di veicoli elettrici: in totale sono
state vendute meno di 10.000 auto elettriche (in Germania 68.000) e circa
6200 motoveicoli elettrici. Con 148.000biciclette elettriche vendute,
l’Italia è solo il 5° mercato europeo. La gran parte della flotta di autobus
pubblici è ancora alimentata a gasolio, per il 50% con standard inferiore o
uguale a Euro 4. Solo alcune città italiane hanno avviato l’acquisto di
autobus elettrici.
Il Rapporto dell’European
Institute on Economics and the Environment
e della Fondazione per lo sviluppo sostenibile dimostra che gli impatti
economici del cambiamento climatico sono molto più significativi di quanto
precedentemente calcolato. Queste analisi mostrano perdite di Pil di oltre
l’8% nella seconda metà del secolo per l’Italia, con stime oltre sette volte
superiori a quelle precedentemente effettuate. Il riscaldamento globale
aumenterà le disuguaglianze economiche. I danni economici nel sud Europa
saranno otto volte maggiori di quelli del nord e in Italia il cronico gap
del Sud peggiorerà del 60% per la crisi climatica.
Per il clima l’Italia dovrebbe sostenere la posizione del Parlamento Europeo
e dei Paesi che chiedono di rivedere gli impegni europei al 2030 per attuare
l’Accordo di Parigi e aumentare l’impegno del Piano nazionale energia e
clima di riduzione di gas serra dal 37 al 50% rispetto al 1990. Per poter
arrivare a neutralizzare le emissioni nette al 2050 è necessario scendere
dalle 426 Mt di CO2
del 2018 a 260 Mt nel 2030. Con le misure attuali si arriverebbe a circa 380
Mt. Servono misure aggiuntive per ridurre di ulteriori 120 Mt le emissioni
al 2030.
Per l’efficienza energetica occorre rendere più incisiva la riqualificazione
energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato, sviluppare l’economia
circolare e la mobilità sostenibile.
In materia di rinnovabili per gli usi termici occorre raddoppiare il
contributo delle pompe di calore e aumentare geotermia, solare termico e
biomasse, in particolare con teleriscaldamento e cogenerazione. Per le
rinnovabili elettriche occorre arrivare al 65% al 2030. Per i trasporti va
sostenuta l’elettrificazione dei consumi, incentivato lo sviluppo di
biocarburanti avanzati, del biometano e la ricerca sull’idrogeno.
Per decarbonizzare i trasporti occorre ridurre l’uso dell’auto in città
investendo nella modernizzazione dei servizi di trasporto pubblico,
realizzando entro il 2025 15.000 km di corsie preferenziali, 15.000 nuovi km
di piste ciclabili e attivando servizi di
sharing
in ogni città con più di 150.000 abitanti. Sostenere l’innovazione dei mezzi
di trasporto e delle infrastrutture verso l’elettrificazione, partendo dai
veicoli più leggeri, l’utilizzo del biometano, dei biocarburanti di nuova
generazione e delle sperimentazioni con l’idrogeno.
Il quadro delle proposte che emerge dagli Stati generali del 2019 è il
seguente:
-
Puntare su obiettivi climatici ambiziosi
-
Realizzare la transizione ad un’energia efficiente e rinnovabile
-
Accelerare la transizione all’economia circolare
-
Puntare sulla rigenerazione urbana e sulle
green city
-
Tutelare il capitale naturale e l’agricoltura di qualità
-
Realizzare la decarbonizzazione dei trasporti
-
Sviluppare formazione, ricerca, innovazione e digitalizzazione
orientate alla
green economy
-
Attuare una riforma fiscale che, contemporaneamente, introduca una
carbon tax
e tagli in modo consistente il cuneo fiscale.
Su questo ultimo controverso punto richiamiamo di seguito le considerazioni
che Edo Ronchi ha presentato sul Corriere della sera rilevando che la
carbon tax
è un passaggio obbligato per ogni possibile
green New Deal.
Nel 2009 l’UNEP
avanzò la proposta di un
green New Deal
per affrontare sia la recessione economica sia la crisi climatica. Quando si
parla di green New Deal è sempre sottinteso un ingente impegno finanziario
pubblico, come quello roosveltiano, e misure impegnative per affrontare la
crisi climatica. Le emissioni mondiali continuano ad aumentare. Se si
aspetta che tutti i Paesi partano contemporaneamente, non si arriverà in
tempo a contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2 °C, come
previsto dall’Accordo di Parigi. Anche l'ltalia deve fare la sua parte e
aumentare il suo impegno per contrastare il cambiamento climatico per fare
di questa sfida epocale un'occasione di nuovo sviluppo a basse o nulle
emissioni di carbonio.
Negli ultimi anni però le emissioni di gas serra, dopo un periodo di calo,
hanno ripreso ad aumentare: nel 2018 sono state le stesse del 2014. Per
rispettare l'Accordo di Parigi, occorrerebbe entro il 2030 almeno dimezzare
quelle del 1990, facendole scendere a circa 260 Mt. Secondo ISPRA, con le
misure vigenti, mancherebbero all'appello 120 Mt (12 Mt l'anno nei prossimi
10 anni), oltre il doppio di quanto previsto dal Piano energia e clima. Il
Parlamento europeo ha votato una risoluzione che chiede di aumentare
l'impegno di riduzione al 2030 dal 40 al 55%. Il nuovo governo italiano non
ha ancora preso ufficialmente posizione su questa richiesta.
Arrivare alla decarbonizzazione dell’economia in poco più di tre decenni
richiede una conversione di ampia portata. Per azzerare le emissioni serra
occorre farle diventare economicamente onerose rendendo vantaggiose le
alternative. Visti i danni che provocano, non ci si può illudere che si
possa continuare ad emettere gas serra gratis o a basso costo. Un impegno
serio per il clima e per un
green New Deal
richiede una riforma della fiscalità che sposti il prelievo fiscale dal
lavoro e dagli investimenti green e lo carichi su una
carbon tax.
I paesi che hanno introdotto misure di
carbon pricing
sono cresciuti da 19 nel 2010 a ben 56 nel 2019. In Europa già 10 paesi
hanno introdotto una
carbon tax.
In Italia hanno il
carbon pricing
solo i grandi impianti regolati a livello europeo dall’ETS che dal 2021 sarà
piuttosto impegnativo. La gran parte delle emissioni generate al di fuori di
questi grandi impianti non è invece fiscalmente disincentivata. Una
carbon tax
di 40 euro per tonnellata di C02
per le emissioni diverse da quelle dei grandi impianti comporterebbe un
aumento del prezzo del gasolio di 10 eurocent e di 8 quello della benzina.
Operando con attenzione, e con misure compensative per evitare impatti
negativi e aprendo un dibattito pubblico sulla crisi climatica e sugli
impatti che ha sul nostro paese, una
carbon tax
di questa dimensione può essere condivisa dalla larga maggioranza dei
cittadini. Genererebbe 10 miliardi all'anno di nuove entrate che potrebbero
rendere più consistenti le misure di
green New Deal,
sia per aumentare l'occupazione sia per alimentare la ripresa economica con
maggiori investimenti
green.
TORNA SU
IL RAPPORTO GE 2019
Ottava Relazione sullo stato della
green economy in Italia e nel mondo
La
Relazione sullo stato della green economy del 2019,
quest'anno corredato da un
Executive Summary in lingua
inglese, presenta in apertura un focus sugli “Impatti economici dei
cambiamenti climatici in Italia”: uno studio realizzato dall’European
Institute on Economics and the Environment in collaborazione con la
Fondazione per lo sviluppo sostenibile e Italy4Climate. Il 2019 è un anno di
riflessione e di rilancio: l’Accordo di Parigi per il clima stenta a
decollare, le emissioni mondiali di gas serra continuano a crescere, in
Europa e in Italia l’impegno si è affievolito, in molte città i giovani sono
scesi in piazza per chiedere maggiore impegno per il clima e il loro futuro
con Greta Thunberg, una ragazzina che ha attivato un’attenzione mediatica
mondiale. I temi della crisi climatica e dell’ambiente sono oggi al centro
di un dibattito pubblico e sui media come mai in passato. C’è stato un
cambio di maggioranza e il nuovo governo ha posto fra le priorità
programmatiche un green New Deal: una proposta che gli Stati generali della
green economy sostengono da qualche anno come via per affrontare
congiuntamente la crisi climatica e il rilancio dello sviluppo sostenibile
dell’Italia basato sulla green economy.
Con l’aggravarsi della crisi climatica, le analisi sui
suoi impatti economici rilevano che in genere, anche nel recente passato,
sono stati sottostimati e che lo scenario che prospettano le analisi più
aggiornate è molto più preoccupante. Il riscaldamento è globale ma, come è
intuibile e verificato, è maggiore nelle aree del Pianeta più calde nelle
quali, per la maggior parte, si trovano Paesi e popolazioni le cui economie
hanno una grande dipendenza da agricoltura e pastorizia, dalla disponibilità
di acqua e di altre risorse naturali fornite dalla terra, e dove minore è la
resilienza per scarsità di risorse economiche e tecnologiche: ciò alimenterà
nuova povertà, nuova e maggiore instabilità globale, con una crescita di
conflitti e di nuovi e consistenti fenomeni migratori.
L’Italia, pur non essendo fra queste aree più povere e
vulnerabili, è tuttavia, per la sua collocazione mediterranea, uno dei Paesi
europei più esposti alla crisi climatica: proseguendo con il trend attuale
potremmo avere perdite di alcuni punti percentuali di Pil già a metà secolo
e fino al 10% del Pil nella seconda metà del secolo. Colpisce in questa
analisi anche il rilevante aggravamento, causato dalla crisi climatica, del
divario delle condizioni economiche del Sud Italia rispetto al resto del
Paese. I danni economici maggiori in Italia sarebbero quelli causati dalle
alluvioni; quelli all’agricoltura per una variazione delle produzioni e una
diminuzione delle rese; al turismo per le ondate di calore, l’avanzamento
dell’erosione delle spiagge, la mancanza di neve in montagna, la frequenza
degli eventi atmosferici estremi. I costi dei consumi di energia elettrica
per il raffrescamento continueranno a crescere e anche quelli, di più
complessa quantificazione, sanitari per l’aumento delle patologie legate
all’aumento delle temperature.
TORNA SU
LA
TRANSIZIONE ALLA GREEN ECONOMY
Lezione tenuta da Edo Ronchi alla Fondazione per lo
sviluppo sostenibile
Roma, 5 marzo 2019
IL RAPPORTO GE 2018
Settima Relazione sullo stato della
green economy in Italia e nel mondo
Lo stato della
transizione alla green economy in Italia e nel mondo viene analizzato
nella tradizionale
Relazione sullo stato della green economy 2018
presentata a novembre nella giornata inaugurale degli agli Stati generali
della green economy ad Ecomondo da Edo Ronchi, Presidente della
Fondazione,(>
vedi la presentazione di Edo Ronchi). La dimensione
mondiale della green economy è stata al centro della giornata
conclusiva degli Stati Generali, con un confronto tra attori internazionali,
istituzioni e industria sul tema: “Il ruolo delle imprese nella
transizione alla green economy: i trend mondiali”. Nell’edizione 2018
particolare attenzione viene poi riservata ai problemi occupazionali:
formazione di nuovi green job e perdite di posti di lavoro nella
trasformazione.
“L’Italia non è
all’anno zero in green economy
ha sottolineato,
Sergio Costa, Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del
mare. Investire in green economy significa fare economia circolare e,
l’economia circolare deve sostituire l’economia lineare perché le risorse
non sono illimitate. “I vantaggi economici di questi investimenti green sono
molteplici secondo Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo
Sviluppo sostenibile. Il primo riguarda i costi evitati dell’inquinamento
e di altri impatti ambientali; il secondo la capacità di queste scelte green
di attivare, con investimenti pubblici, effetti moltiplicatori anche di
quelli privati; il terzo vantaggio sta nella capacità di utilizzare e
promuovere innovazione, diffusione di buone pratiche e buone tecniche”.
Alla fine di queste
righe trovate una nota di presentazione della Relazione 2018 e delle
risoluzioni adottate dagli Stati generali nella quale vengono riassunti i
risultati dell’analisi internazionale sullo stato della green economy
che la Relazione affronta dando priorità al grave ed incombente problema dei
cambiamenti climatici e a quello strettamente connesso dell’avanzamento
della produzione di energia da fonti rinnovabili. Più approfondita è l’analisi dell’evoluzione green
dell’economia italiana articolata nella Relazione per settori con una
elaborazione aggiornata degli indicatori principali.
La Relazione sulla
green economy 2018 fornisce un aggiornamento sull’andamento dei settori
strategici delle green economy in Italia registrando eccellenze e cadute.
L’Italia nel 2017 è prima fra i grandi Paesi europei in economia circolare,
agricoltura biologica ed anche eco-innovazione, ma ha ancora molto da fare
sul consumo del suolo, la tutela della biodiversità e la decarbonizzazione.
Concludiamo la nostra
nota esponendo le proposte di policy elaborate dal Consiglio
nazionale della green economy e fatte proprie dagli Stati generali
con una dichiarata destinazione al nuovo governo ed alle forze politiche del
nuovo Parlamento. (>
leggi la nota)
TORNA SU
LA TRANSIZIONE
ALLA GREEN ECONOMY
Edo Ronchi fa
il punto sulla Green economy a 10 anni dal suo lancio
Quanto mai opportunamente questo libro fa il punto sulla Green economy
10 anni dopo che, nel 2008, l'UNEP ed un gruppo di economisti delle Nazioni
Unite lanciarono- questo programma di promozione dell'economia per lo
sviluppo sostenibile per orientare lo sforzo che alcuni Paesi stavano
intraprendendo per orientare gli investimenti pubblici in chiave keynesiana
per invertire il trend della grave crisi appena nata negli Stati
Uniti. Gli investimenti pubblici effettivamente green furono molto diversi
ed andarono da quasi il 100% nella Corea del Sud a quasi niente in Italia,
ma furono rilevanti in Paesi chiave come Stati Uniti e Giappone (>
vedi una presentazione storica della GE di T. Federico).
Il decennale della Green economy coincide con il decennale della
nostra Fondazione che ha scelto come sede di elezione per la presentazione
del nuovo libro di Ronchi il suo decimo
Meeting di primavera tenuto a Roma
il 9 maggio del 2018. Invitati ad un ragionamento sulla transizione erano i
rappresentanti dei partiti politici, dei cui interventi riferiamo più
avanti.
A dieci anni
di vita il concetto di
transizione è al centro della Green economy.
è infatti in rapida
espansione il settore economico dell'industria green, classificata da
Eurostat come
EGSS, a causa del forte aumento
della domanda da parte delle energie rinnovabili, dei rifiuti e dei servizi
ambientali. Ma il punto non è questo, perché il grosso del sistema
industriale resta altrove, nella produzione e nel consumo dei beni e dei
servizi di largo consumo. Escludendo l'industria brown, carbone,
fossili, armi, nucleare, che necessariamente deve svanire nel percorso dello
sviluppo sostenibile, la partita si gioca nella penetrazione del paradigma
della Green economy nella produzione, mediante la progressiva
adozione delle energie rinnovabili, dell'economia circolare e del
mainstreaming della gestione degli asset non finanziari e nei
consumi, attraverso una radicale revisione dei modelli consumistici ormai
insostenibili e e un ancor più radicale mutamento delle preferenze e delle
attitudini dei consumatori. Il concetto si riassume nel processso
transizionale che abbiamo chiamato go green, costituito dall'insieme
di cambiamenti che progressivamente spostano gli equilibri della produzione
e del consumo verso la Green economy.
è un processo in rapida
diffusione nel mondo, ovunque con modalità diverse. Lo prevedeva il
documento finale del Summit UN CSD sullo Sviluppo sostenibile di Rio+20.
Quel Summit aveva in Agenda, nel ventennale di Rio 1992, la Green economy
e la governance dello Sviluppo sostenibile. rimandiamo a quel
documento per una esposizione chiara di come la Green economy sia per tutti
l'economia dello Sviluppo sostenibile e possa segnare ovunque il passo dello
sviluppo a condizione che i governi, con le politiche e gli investimenti, e
le imprese, con la trasformazione interna e il cambiamento del
posizionamento sociale, possano promuovere la transizione di cui parla Edo
Ronchi. Se l'impegno dei governi richiede una difficile evoluzione delle
visioni politiche e della stessa cultura amministrativa, la transizione del
sistema industriale verso la Green economy è più difficile ancora a
causa dei grandi cambiamenti richiesti, degli investimenti e
dell'innovazione che devo essere messi in campo e delle resistenze degli
interessi costituiti. Le convenienze dello sviluppo sostenibile a
medio-lungo termine sono evidenti e molto spesso apertamente riconosciute
sia dagli uomini politici che dai manager industriali.
è il breve termine il
luogo geometrico del conflitto tra vecchi interessi e nuove convenienze. La
letteratura su questo argomento è immensa e la questione della transizione
industriale è bene focalizzata in molti di essi tra cui, a titolo di
esempio, il recente
Corporation 2020, scritto
significativamente dal direttore del programma
UNEP TEEB per la difesa del
capitale naturale.
I lettori
possono ascoltare la presentazione che ha fatto lo stesso autore al Meeting
di Primavera tanto scorrendo il
powerpoint del quale si è servito
quanto ascoltando
la voce di Edo Ronchi.
Inoltriamoci
ora nel libro. L'introduzione
è corposa ed importante, contiene in sé lo spirito del libro che, proprio
per il carattere di questa introduzione, non si serve di presentazioni né ha
bisogno di conclusioni che null'altro aggiungerebbero. La visione
dell'autore si racconta in una serie di passi, tutti determinanti nel
disegno del libro. La fiducia nel futuro è ormai una risorsa scarsa. La
mancanza di fiducia fa evaporare il pensiero critico. Lo sviluppo avrebbe
dovuto migliorare la qualità della vita di tutti, senza lasciare nessuno
indietro. Ha invece approfondito le disuguaglianze su tutte le scale sociali
e ha generato una terribile crisi climatica ed ecologica. L'attuale sviluppo
globalizzato deve essere rimesso in discussione, ma senza rinunciare ad esso
quanto piuttosto va riconfigurato come sviluppo umano (termine
coniato da Amartya Sen già dal 1990), capace di futuro, rispettoso dei
limiti planetari, inclusivo ma irriducibile comunque alla sola dimensione
economica. Questo è il significato della transizione. Quindi l'economia ne
resta al centro ma con una forte connotazione etica e con un mercato
corretto e regolato dalle politiche pubbliche. L'altra sfida della
transizione è la crisi climatica: quell'economia nuova deve essere
decarbonizzata del tutto da qui a trent'anni e il mercato non può farlo da
solo. Carbon tax e Border tax devono al più presto togliere
ogni vantaggio ed ogni incentivazione alle energie fossili, accompagnate dai
sistemi cap&trade e dall'imposizione di standard, secondo la
sensibilità dei vari paesi. L'altro aspetto della Green economy dopo
l'energia rinnovabile è la soluzione del rebus della scarsità delle risorse
naturali. Qui occorre puntare su un'economia circolare e spezzare il
paradigma lineare del take-make-dispose in favore del riciclo, del
recupero, del riuso e della rigenerazione delle risorse per la
minimizzazione del carico sulla natura e il definitivo disaccoppiamento tra
ricchezza prodotta e prelievo delle risorse. La materia infatti, a
differenza dell'energia, è sempre riciclabile se si dispone di abbastanza
energia, di tecnologia e di disponibilità delle persone ad abbandonare
l'idea dell'usa e getta. Va da se che i concetti di rinnovabilità e
circolarità vanno accompagnati da quello di resilienza
ecosistemica, quel limite dello sfruttamento della natura e dei suoi
generosi servizi oltre il quale gli ecosistemi naturali non sono più in
grado di rinnovarsi e di riprendere il loro millenario lavoro di
rigenerazione circolare delle risorse. Infine un concetto caro all'autore,
quello della sobrietà: "Nello spazio ecologico limitato dobbiamo
starci tutti" e per questo la cattiva abitudine agli sprechi e la bulimia
consumistica devono essere lasciate alle spalle.
Il
primo capitolo
è dedicato allo
sviluppo
sostenibile.
In una
ventina di pagine se ne traccia un (troppo) rapido profilo. Questo sito
rende disponibile tutta la documentazione storico-politica necessaria (>
vedi in particolare la pagina su storia e tendenze). Non
ci sono in circolazione nuove idee su come dovrebbe essere uno sviluppo, anche se tutti ne
deprecano l'attuale insufficienza, nè c'è un dibattito pubblico
riconoscibile sull'argomento. Tuttavia il concetto di sviluppo sostenibile, seppur definito
in questo libro "arrugginito", è entrato ormai nel lessico della politica a tutti i
livelli. Il processo della sostenibilità è possibile ed è stato avviato. Il
passo è però lento e l'ambizione globale è insufficiente: il testo ne
riporta la prova con numerosi riferimenti alla lotta ai cambiamenti
climatici che, come è noto, sono oggetto della Convenzione di Rio 1992, e al
degrado del capitale naturale per effetto di un prelievo immane di risorse
ambientali. L'autore attribuisce questa impasse ad una visione troppo
debole dello sviluppo sostenibile: fattori come fame, povertà,
migrazioni,occupazione e welfare non sono più problemi tra i tanti, ma
ineludibili priorità. Su questo nodo critico si sviluppa l'analisi
che l'autore fa dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite che sarebbe priva del necessario
ordinamento gerarchico degli obiettivi e quindi sarebbe piatta e debole, priva della
capacità di riconoscere i nessi obbligatori dell'economia e
della società con le condizioni con la biosfera. Si cita al proposito lo
Stockolm Resilience Center di Johann
Rockström
che
propone una gerarchizzazione dei pilastri della sostenibilità, e quindi dei
relativi SDG, e pone gli obiettivi economici al servizio della società ed
entrambi in debito rispetto allo stato della biosfera. Alla stessa
conclusione era giunto il Comitato italiano di esperti che ha redatto il primo
Rapporto Italiano sul Capitale naturale
(cfr. § 13.2 a pag.90). Lo schema delle priorità degli SDG è
riportato in figura ed è di
Pavan Sukhdev,
ex direttore del TEEB, ed autore di Corporation 2020. Lo schema è
stato presentato nell'ambito della Conferenza dello SRC sulla
produzione mondiale di cibo. L'Agenda 2030 presterebbe inoltre il fianco a
contraddizioni tra i vari goal che sono troppi e dotati di troppi
target ed indicatori. Sappiamo che tale pericolo era già stato messo in
evidenza dall'IPCC per la lotta ai cambiamenti climatici nella
bozza del sommario dello SR15 sugli
obiettivi di Parigi, che sarà pubblicato entro il 2018. Il target 8.1
propone ad esempio "almeno
il 7% di crescita annua del prodotto interno lordo nei paesi meno
sviluppati". Qui per errore il testo traduce least developed countries
in paesi in via di sviluppo causando un errore di ragionamento che,
includendo la Cina ed altri big tra questi, porta a conclusioni di ovvia
insostenibilità generale dello SDG 8. Ovviamente non si può che condividere
l'avviso che la sostenibilità, il clima, il consumo delle risorse e la
preservazione del capitale naturale non sono conciliabili con gli alti tassi di
crescita dei PIL dei grandi paesi che guidano l'economia mondiale, in
particolare Cina e Stati Uniti. Il
paradigma che la crescita e lo sviluppo sono ammissibili soltanto
entro i limiti dei confini planetari, proprio quelli quantificati dal
direttore dello SRC, Johann
Rockström, è
ormai acquisito nel pensiero ecologico.
è l'economia della ciambella
teorizzata dalla Raworth, che appunto prescrive tali limiti, ma anche che i
meno sviluppati, quelli che giacciono ancora nel "buco" della
ciambella, devono
rapidamente emanciparsi ed entrare con noi nello spazio del benessere
sostenibile. Il punto finale del capitolo è dedicato alla critica della
teoria della decrescita, con argomentazioni che si aggiungono
validamente alla grande messe di smentite che quelle teorie hanno ricevuto.
Tra esse la più chiara è quella data dalla
decrescita infelice che abbiamo subito nei lunghi anni della crisi
economica iniziata dieci anni orsono. Che si tratti di teorie sbilenche
è ormai un fatto assodato, tra le altre dalle argomentazioni di Stiglitz,
Sen, Fitoussi e dello stesso Jackson seconda maniera (del 2016). Non c'è
quindi un gran bisogno di dedicare spazio a quel tipo di proposte ormai
ultraminoritarie e fuori moda. A parere di chi scrive i richiami a fine
capitolo alle equazioni di Piketty e al
concetto di progresso senza crescita di Jackson appaiono in qualche
modo filologicamente imprecisi.
Il
secondo capitolo
è dedicato alle definizioni della Green economy. All'inizio se ne
traccia la storia a partire dall'iniziativa dell'UNEP del 2008, all'idea del
2009 di articolare i pacchetti di stimolo per uscire dalla crisi verso un
Green New Deal, fino al Summit di Rio sullo Sviluppo sostenibile del 2012
(Rio+20). Si citano le definizioni principali della Green economy
dati dai vari istituti della governance mondiale dello sviluppo
sostenibile. è utile
puntualizzarli qui per esteso. La Green economy è un sistema di
attività economiche relative alla produzione, distribuzione e consumo di
beni e servizi che genera miglioramento del benessere a lungo termine senza
esporre le future generazioni a rischi ambientali significativi o a scarsità
ecologiche (UNEP, 2009). È a basse emissioni di carbonio, efficiente
nell’uso delle risorse e socialmente inclusiva. In una Green economy,
la crescita del reddito e dell’occupazione dovrebbe essere guidata da
investimenti pubblici e privati per ridurre le emissioni di carbonio e
l’inquinamento, per aumentare l’efficienza energetica e dell’uso delle
risorse e per prevenire la perdita di biodiversità e di servizi ecosistemici
(UNEP, 2012). Cerca di portare benefici sociali a lungo termine da attività
a breve termine che mirano a mitigare i rischi ambientali. La Green
economy è una componente che rende possibile l’obiettivo complessivo
dello sviluppo sostenibile (UNCTAD, 2011). È un’economia resiliente che
procura una migliore qualità della vita per tutti all’interno dei limiti
ecologici del pianeta (Green Economy Coalition, 2011). Può essere
vista come una lente per focalizzare e afferrare le opportunità di avanzare
simultaneamente obiettivi ambientali ed economici (UN CSD, 2011).
è il mezzo per raggiungere lo
sviluppo sostenibile, per affrontare le crisi climatica ed ecologica, per
rilanciare l’economia correggendo i limiti e i fallimenti del mercato, per
promuovere un benessere inclusivo e di migliore qualità (UNDESA, 2012).
La Green economy, infine, sollecita e promuove maggiore equità fra le
generazioni, ma anche fra i paesi in un quadro di cooperazione
internazionale. In queste definizioni non è ben argomentata la natura della
crisi ecologica generata dall'attuale modello economico. Si tratta anzitutto
della crisi climatica e del depauperamento degli ecosistemi naturali e dei
servizi vitali che essi forniscono all'umanità. Fa bene quindi Ronchi a
dedicare il secondo paragrafo alla definizione del concetto di resilienza
ecosistemica ed alla crisi ecologica, specificandone lo stato, le
tendenze e le priorità degli interventi che si richiedono al nuovo modello
della Green economy.
Il
terzo paragrafo mette a fuoco il concetto di
Circular economy, oggi di gran moda
ma spesso usato senza la dovuta chiarezza. Di circolarità si può parlare
solo con riferimento all'uso sostenibile delle risorse naturali e alla
relntroduzione nel ciclo produttivo di materiali, macchine ed apparati,
sfruttando la capacità di rigenerazione che ha la natura per i materiali
biologici. Il beneficio per il risparmio delle risorse può essere decisivo
per la sostenibilità dei cicli industriali. La circolarità è dunque una
delle caratteristiche principali della Green economy (in figura ne
riportiamo un'efficace rappresentazione insiemistica, da EEA, 2015). Diverso
è il percorso dei flussi energetici la cui dotazione entropica non può che
aumentare (II Principio). Per l'energia vale il concetto di rinnovabilità,
cioè dell'uso diretto dell'energia solare, ma i cicli energetici restano
lineari. Circolarità e rinnovabilità sono pertanto due descrittori del
modus operandi della Green economy. Il terzo è la qualità del
benessere. Qualità ecologica ed inclusività sociale sono le caratteristiche
della Green economy cui è dedicato il paragrafo finale. La povertà,
le diseguaglianze economiche e di genere e la disoccupazione sono i bersagli
del cambiamento di modello di sviluppo. Il welfare al quale siamo
abituati in occidente va ridefinito e condiviso su scala globale. Occorre un
benessere più sobrio e di migliore qualità che comporta la diminuzione
dell'abitudine al consumo superfluo e indirizza il risparmio e le
maggiori risorse che si rendono disponibili in varie altre direzioni:
salute, istruzione, attività culturali, alimentazione migliore, prodotti di
migliore qualità, migliore benessere abitativo, una mobilità non
congestionata e via dicendo. Le nuove attività e i nuovi consumi più sobri
possono crescere e compensare ampiamente economicamente l’abbandono del
consumismo sprecone e inquinatore. Non c'è alcun bisogno per questo di fare
ricorso ai modelli di vita ascetici cari ai teorici della decrescita.
ll
terzo
capitolo
è il cuore del
libro e contiene tutti i messaggi sulla centralità e l'attualità del
processo di transizione alla Green economy. Sono 45 pagine dense di
argomentazioni e di dati del tutto originali nel panorama asfittico della
cultura italiana. Inizia con un excursus sulle teorie economiche cui
si riconosce un carattere storico e transitorio. Che si possano apparentare
con le teorie scientifiche alla Thomas Kuhn (1962) è dubbio dal momento che
esse hanno marxianamente un carattere politico, cioè legato ad un tipo di
dominanza di interessi, di classe o altro. Purtuttavia, se non per
confutazione ed aggiornamenti, esse si succedono seguendo il corso delle
forze sociali che le determinano. Così è la storia delle rivoluzioni, delle
guerre e delle crisi che ci hanno accompagnato fino alla crisi del 2008
senza che mai gli economisti siano stati in grado di prevedere o contrastare
queste emergenze senza l'apporto empirico delle politiche. Le nuove teorie
economiche si affermano, si legge, per la loro capacità di rappresentare i
cambiamenti. La freccia della causalità va dunque dalla storia alla sua
interpretazione sotto forma di teoria economica, non viceversa. Per la
Green economy la storia è fatta dal degrado ambientale e sociale cui
essa tenta di porre argine. Ma se non avesse una base etica solidale, di
maggiore equità sociale, sarebbe poco credibile. Il paragrafo si conclude
con una citazione molto a proposito dell'enciclica
Laudato sì di Papa Francesco del
2015.
Il secondo
paragrafo definisce la transizione: essa punta a realizzare "uno sviluppo
sostenibile quale sviluppo umano capace di futuro", nel quadro di
un’economia ecologica e sociale di mercato, regolata e indirizzata dalle
politiche giuste. La transizione alla Green economy è alternativa a
un’economia fondata sul consumare e produrre sempre di più qualunque cosa e
su meccanismi che alimentano crescenti disuguaglianze, perché punta su uno
sviluppo umano basato su un migliore benessere e sull’inclusione sociale,
entro uno spazio ecologico sicuro. La transizione punta su una crescita
qualitativa e quantitativa selettiva: mira a far crescere molte attività e a
cambiarne e riqualificarne molte altre. Dovranno essere eliminati
dall'economia il carbone e la combustione dei fossili, chiuse le centrali
nucleari, tolti dall'ambiente gli inquinanti e i rifiuti con una urgenza
proporzionata alle crisi ecologica e sociale in atto. Le politiche correnti
non sono omogenee nella chiave della transizione, gli investimenti tardano
ad orientarsi alla Green economy, la spesa per la ricerca e
l'innovazione non è sufficiente. I tempi della transizione ne risultano
rallentati e il cambiamento non è diffuso abbastanza.
Qual è il
ruolo delle politiche pubbliche? Sono necessarie politiche pubbliche in
grado di internalizzare i costi esterni, con vari strumenti economici:
tasse, imposte, tariffazioni o disincentivi per gli impatti negativi,
permessi di emissione e sistemi certificati. Le politiche di di
incentivazione economica: investimenti agevolati, tassi agevolati,
esenzioni, sussidi, tariffe incentivanti, assicurazioni agevolate, sgravi
fiscali, nonché diversi strumenti per il credito garantito a lungo termine,
sono indispensabili per la transizione e non possono contemporaneamente
sostenere economie con finalità opposte. La carenza o la eccessiva debolezza
di tali strumenti sono fra le ragioni sostanziali del passo lento della
Green economy e della sua mancata estensione, perché senza
internalizzazione dei costi e dei vantaggi reali la competizione con
l'economia corrente non avviene ad armi pari. Per indirizzare produzioni e
consumi verso la Green economy è indispensabile che i costi
ambientali siano posti a carico di chi inquina. La fiscalità è lo strumento
principe per riequilibrare i costi esterni ambientali, per farli emergere
con trasparenza e ripartirli con equità fra chi li genera. Ci sono ampi
margini per riformare la fiscalità vigente – principalmente basata sulle
accise sui prodotti energetici – per un maggiore utilizzo di imposte
specifiche sulle emissioni, come la sempre più urgente carbon tax.
Il quarto
punto è dedicato all'innovazione. Essa è stata storicamente diretta ad
accrescere la produttività e tagliare posti di lavoro e salari.
è ora di orientarla alle finalità dell'interesse generale e alla
conservazione di tutte le forme del valore della ricchezza, quindi
occupazione e capitale umano, rigenerazione degli ecosistemi, del
territorio, delle città e del capitale naturale, individuazione forme di
governance consapevoli, partecipate, aperte e capaci di futuro.
Grande il ruolo delle ICT per la partecipazione, lo scambio di conoscenza e
di know how ed anche per nuove forme di democrazia. I paragrafi 5 e 6
sono dedicati al ruolo del settore privato, finanza ed imprese: un ruolo
altrettanto se non di maggiore importanza per la transizione rispetto alle
politiche pubbliche di normazione e di governo. L'incentivazione finanziaria
è un compito tanto del pubblico quanto del privato.
Accessi
affidabili a fondi sufficienti e a finanziamenti adeguati sono essenziali
per sostenere la transizione. Le regolazioni finanziarie restrittive a
livello globale del credito e della liquidità, un chiodo fisso della
governance neo-liberista, possono avere effetti negativi per la
richiesta di investimenti ambientali che comportano costi di capitale più
alti. Il mondo della finanza dovrà adeguarsi ai nuovi modelli di economia
circolare che comportano un cambio di prospettiva verso la vendita di
servizi invece che di merci. I diritti di proprietà dei prodotti non sono
più trasferiti al consumatore, ma saranno tenuti dalle compagnie di
produzione. Il business non deriverà dal pagamento all’inizio del
ciclo di vita del prodotto, ma durante il suo periodo d’uso. Occorre per
questo abbandonare il modello delle convenienze finanziarie a breve termine:
i costi delle politiche ambientali vanno in genere sostenuti nel breve
termine, mentre i benefici generati si manifestano tipicamente più nel medio
e lungo termine.
Questo
fondamentale capitolo si conclude con un approfondito esame del ruolo e
delle responsabilità delle imprese.
Il sistema
delle imprese, essendo il “principale esecutore economico
dell’umanità” ha la maggiore responsabilità sia della insostenibilità dello
sviluppo economico, sia del suo cambiamento in direzione della Green
economy (Sukhdev, 2012). Gran parte delle analisi a scala globale
documentano la solidità ormai raggiunta delle radici e dell’impianto su cui
si basano le imprese che intraprendono la transizione (go green), in
particolare nei paesi industriali maturi, dove sono inserite in un percorso
di cambiamento in atto da anni che punta ad elevate performance ambientali.
Un'indagine italiana (Istat) rileva le ragioni principali che le imprese
indicano alla base delle innovazioni ambientali introdotte: la presenza di
una normativa ambientale e anche la prospettiva di nuove norme in materia;
la disponibilità di incentivi per le innovazioni ambientali e/o di
tassazioni e altri disincentivi economici per gli impatti ambientali; la
domanda di beni e servizi di qualità ambientale già attiva e comunque attesa
per il prossimo futuro; l’adozione di accordi o di impegni di miglioramento
ambientale; iniziative di apprendimento di buone pratiche e buone tecniche
in campo ambientale. L’elevata qualità ecologica, compresa quella delle
basse o nulle emissioni di gas serra, l’uso efficiente e il risparmio delle
risorse, la qualità del benessere e l’inclusione sociale possono convivere
anche con buone performance economiche per le imprese. Oltre
alle regolamentazioni e prescrizioni normative, per le imprese hanno grande
importanza le innovazioni che migliorano l’offerta dei loro prodotti. Una
migliore efficienza energetica e nell’uso dei materiali può ridurre anche i
costi di produzione e migliori gestioni ambientali sollecitano più
efficienti gestioni del processo produttivo. L’innovazione spesso segue
anche i cambiamenti delle caratteristiche della domanda: l’aumento della
sensibilità e dell’attenzione ambientale ha ormai un ruolo rilevante
nell’orientare le scelte dei consumatori e quindi gli sbocchi di mercato dei
prodotti di migliore qualità ecologica. Nel mondo delle imprese go green
vi sono ormai figure di imprenditori e di manager con orientamenti avanzati,
come dimostra una indagine a campione condotta nel 2014 dalla Fondazione per
lo sviluppo sostenibile. Le imprese go green dovrebbero poi
considerare il rapporto col proprio territorio in modo positivo e attivo.
Nei rispettivi territori le imprese go green possono contribuire
anche finanziariamente a sviluppare, senza costi eccessivi, iniziative
ambientalmente virtuose di qualificazione, di infrastrutture verdi, in modo
da non essere – e non essere percepite – come un corpo estraneo o
ambientalmente ostile nel territorio. A maggior ragione la realizzazione dei
nuovi impianti dovrebbe essere condotta da ogni impresa con grande
attenzione alla corretta informazione e al dialogo con i territori,
valorizzandone i benefici ambientali e occupazionali.
Il
quarto capitolo,
sviluppato con la collaborazione degli esperti di settore della Fondazione,
segue la ripartizione dell'economia del modello UNEP del 2011: energia,
agricoltura manifattura, costruzioni, rifiuti, trasporti e turismo. Sono
tutti settori dell'economia corrente per i quali, come per la dimensione
urbana, è quanto mai opportuno fare il punto della transizione. Si sente
però la mancanza di un capitolo dedicato alla dimensione inclusiva della
Green economy, quindi alla capacitazione del capitale umano, alle
diseguaglianze, all'occupazione, all'accoglienza, alle donne e al nuovo
modello di società. I settori economici sono trattati con una grande messe
di dati e numeri, quanto più possibile aggiornati. Questi capitoli sono
pertanto una miniera di dati di fatto che sostengono le nostre tesi
sull'attualità ma anche sull'urgenza del completamento della transizione
green nelle chiavi del rilancio dell'economia, dopo una crisi certamente
brown, dell'Europa e del benessere.
Ne vediamo qui
essenzialmente i messaggi: l'energia
della transizione è solo rinnovabile. Il percorso è tracciato dall'Accordo
di Parigi sul clima, in base al quale la decarbonizzazione dell'economia
mondiale deve avvenire intorno alla metà del secolo. Solare ed eolico sono
le punte di lancia della transizione. I loro costi continuano a scendere, le
tecnologie dei generatori e delle reti sono ormai mature, ma gli incentivi
alle fonti fossili devono essere eliminati. Le rinnovabili consentiranno di
abbattere l'inquinamento dell'aria che è una ipoteca globale crescente sulla
salute e sulla qualità della vita, soprattutto nelle megalopoli avanzanti.
Eviteranno le scarsità e i conflitti gravissimi creati dall'appropriazione
delle fonti minerarie dei fossili: il sole e il vento sono eguali per
(quasi) tutti. è dal settore
dell'energia che verrà, se lo si vorrà, la soluzione al problema del
cambiamento climatico.
Gli estensori
del testo sull'agricoltura
sembrano occuparsi unicamente della situazione italiana. La produzione di
cibo è viceversa una drammatica emergenza mondiale. I messaggi che leggiamo
sono piuttosto generici e parlano di agricoltura biologica, di riduzione di
fertilizzanti e fitofarmaci e di resilienza ai cambiamenti climatici. Non di
problemi occupazionali, né di migranti né di precariato e di sfruttamento
dei lavoratori stagionali.
Il
settore industriale e quello della
manifattura
sono il cuore del problema della Green economy e della transizione.
Ad esso si deve un terzo delle emissioni climalteranti globali e la
manifattura è da sempre la sede principale di generazione di esternalità
negative per l'ambiente e di esternalità sociali che, seppur positive in
gran parte, non possono nascondere talune gravi evidenze come la
delocalizzazione degli impianti e la precarietà occupazionale. I messaggi
per la sostenibilità sono il ricorso all'energia rinnovabile e la
circolarità delle risorse. Della circolarità fa parte la bioeconomia, la
sostituzione di materie fossili con risorse naturali e la progressiva
eliminazione dei rifiuti. L'Italia è all'avanguardia. Il messaggio comprende
anche la promozione della sharing economy e, tendenzialmente, della
sostituzione dei beni in proprietà con i servizi, una proposta che viene da
lontano dall'area ecologica tedesca e che però ha bisogno di una
ridefinizione, ancora impervia, dei modelli di business e di consumo.
Lodevole l'accenno finale al problema occupazionale ma manca un esame delle
implicazioni sociali dell'automazione, della delocalizzazione e della
precarietà, compresi fenomeni come quelli della
gig economy
(figura a dx) e del selfemployment nelle
catene industriali del valore.
Per la
transizione del settore delle
costruzioni
si parla di rigenerazione urbana, cioè il recupero, riqualificazione, riuso,
riciclo e manutenzione degli edifici e delle opere urbane. Si tratta anche
qui di economia circolare, con il beneficio atteso dell'azzeramento del
consumo di nuovo suolo, contro lo sprawl ed ogni sorta di
gentrificazione, anche apparentemente benefica.
è evidente che anche qui si
parla di Italia e di Europa, ma il problema è mondiale. In Europa il 40%
dell'energia primaria finisce nel settore dell'edilizia, nei consumi e anche
nella produzione. L'efficienza energetica è pertanto l'altra chiave della
transizione alla Green economy. Edifici intelligenti a consumo ed a
rifiuti zero, nuovi materiali ed infrastrutture verdi sono i paradigmi per
le nuove costruzioni e, nei limiti del possibile, del retrofitting.
I
rifiuti
sono il settore di primo impatto dell'economia circolare. Questo contributo
è molto ben costruito ed articolato, come è nella tradizione della
Fondazione. è tutto giocato
sul paradigma dell'economia circolare e dell'efficienza dell'uso delle
risorse. Dal 1970 la produttività mondiale delle risorse si è triplicata ma
il consumo globale delle stesse è aumentato di più. In Europa il tasso di
circolarità medio è dell'11% ma l'Italia (19%) è seconda dietro l'Olanda
(27%). La raccolta differenziata in Italia supera il 60% nelle Regioni
migliori, ma in Sicilia è al 15%. Dovrà arrivare al 65% in media per
rispettare l'obiettivo europeo del 55% al 2025. In 20 anni il ricorso alle
discariche è sceso dall'85 al 25% in media. Viene auspicato un sistema di
incentivazione e di tassazione compatibile con l'abbattimento della quantità
dei rifiuti prodotti e con la circolarità. Gravi nuovi problemi come le
microplastiche nelle acque e nei prodotti industriali e alimentari non sono
per ora referenziati.
Nei
trasporti
si gioca gran parte della transizione alla Green economy. I trasporti
generano a livello mondiale il 24 % delle emissioni di carbonio. La domanda
di mobilità cresce, indifferente alle crisi. Le risposte sono scontate
quanto di difficile attuazione. Veicoli elettrici, ciclopedonalità e
trasporto pubblico o condiviso. Nella transizione occorrono incentivi
all'innovazione e carbon tax. Il 75% delle emissioni ha origine nelle
città. Drammatica la situazione della logistica, dove il commercio
elettronico aumenta i veicoli in circolazione. Come per le smart grid
elettriche, anche l'elettrificazione dei trasporti dipende dalle tecnologie
e dai costi delle batterie. Questi ultimi per fortuna, decrescono
rapidamente. Gli altri ostacoli ad una transizione non più rinviabile vanno
cercati nella testa delle persone.
La materia
prima del
turismo
è il capitale naturale cui si aggiunge in paesi come l'Italia il patrimonio
artistico e culturale. Il settore è in rapida e devastante espansione a
livello mondiale e tende a distruggere proprio gi asset ambientali e
culturali su cui poggia. L'entropia del sistema turismo evolve in crescita
verso la perdita delle biodiversità ambientali e culturali con elementi di
preoccupante irreversibilità. Se ne è occupata non a caso la Convenzione ONU
sulla biodiversità con la pubblicazione di linee guida per il turismo
sostenibile. Il messaggio d'allarme è chiaro in questo contributo, molto
meno una strategia per la transizione dove si fa cenno solo al pagamento dei
servizi ecosistemici, un concetto affermato nella protezione del capitale
naturale che qui risulta generico. Quindi che fare se non si dice niente
sugli incentivi alle compagnie aeree, sulle grandi navi, sulla mobilità
privata, sul settore del lusso, sul numero chiuso, sulla fiscalità, etc.?
Il corposo
quinto capitolo
si occupa del ruolo delle città del quale la Fondazione si è occupata a
fondo nell'ultimo anno, non da sola, bastando pensare all'UN Habitat III di
Quito a fine 2016. Le città ospitano oltre la metà della popolazione
mondiale, in crescita, producono l'80% del PIL e il 70% delle emissioni
globali consumando il 70% delle risorse e dell'energia. Della sostenibilità
di questa matrice ambientale antropogenica e antropomorfa si occupano
progetti di innovazione urbana e, tra essi, il
Green city, punto di concentrazione delle
maggiori istituzioni internazionali. Anche qui si punta il dito sul consumo
di suolo e sullo sprawl. Le proposte sono articolate sulla
rigenerazione urbana e sulle infrastrutture verdi, entrambe condizioni per
un sostanziale aumento della resilienza urbana ai fenomeni estremi del
cambiamento climatico. Così presentata la città non appare abitata da uomini
e donne ma solo da cose più o meno sostenibili e da reti tecnologiche. E le
periferie, la povertà, la immigrazione urbana dei poveri delle megalopoli
mondiali scacciati dalla mancanza di risorse, dal caldo, dal freddo e dal
clima?
Una breve
conclusione
al libro è incorporata in questo capitolo. Vi si ricorda che green
non vuol dire solo ambiente ma anche gioventù. Da noi non è accettabile che
un giovane su tre sia senza lavoro e che gli altri siano quasi tutti precari
senza futuro.
Il libro di
Ronchi è stato commentato al termine della presentazione nel
Meeting di primavera
2018
della
Fondazione. Di seguito potete scaricare l'audio della
presentazione a cura dell'autore
e i commenti di
Jean Paul Fitoussi
e di
Andrea Orlando.
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IL RAPPORTO GE 2017
Sesta Relazione sullo stato della
green economy
La
Relazione del 2017 è dedicata alle città.
è stato sviluppato un
sondaggio richiedendo l'opinione dei cittadini sul clima, l’energia,
l’economia circolare, la rigenerazione urbana, il capitale naturale e le
infrastrutture verdi, la mobilità urbana sostenibile e i vantaggi della
green economy per lo sviluppo locale.
L’indagine è stata realizzata da "Demetra opinioni" su un campione
rappresentativo di 1.500 italiani maggiorenni stratificato secondo le
principali variabili demografiche, intervistato via telefono e via web
utilizzando un questionario a domande chiuse predisposto ad hoc in
collaborazione con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile. La numerosità
campionaria,
ad un livello di confidenza del 95%, dà un errore del
±
2,5%.
I
58% dei cittadini è informato sulla green economy e oltre il 70% dà
importanza alle politiche pubbliche per la sostenibilità. Le misure per il
clima e l’energia incontrano un consenso superiore al 90% ed il 64% dimostra
willingness to pay per l'energia rinnovabile. 9 intervistati su 10
sono favorevoli a misure per la rigenerazione urbana e l’economia circolare
e 8 su 10 sono
favorevoli ad
attuare misure
per eliminare
gli sprechi
idrici, così
come alto è
il consenso
sulla proposta
di multare
chi non
fa la
raccolta differenziata
(87%). Sempre
alto (90%)
è il consenso
verso le misure
per tutelare
il capitale
naturale e
le infrastrutture
verdi, e
7 intervistati
su 10
vorrebbero veder aumentare la
diffusione dei
prodotti biologici
anche se
costassero il
10% in più.
Le misure
per una
mobilità più sostenibile sono al
90% e
calano un
po’ quando diventano
molto impegnative, come il
divieto di
vendere auto
a gasolio
e a benzina entro
10 anni
(77%).
L’opinione che in
periodi di crisi le
misure di
green economy
siano troppo
costose resta
abbastanza diffusa
(57%), ma
è molto
alto anche
il consenso sul fatto che
la green
economy possa
migliorare lo sviluppo
locale (intorno
al 90%).
Per lo
sviluppo locale
la green
economy è la preferita,
poco dietro
alla filiera
agroalimentare, l’imprenditoria
giovanile e
il turismo,
ma molto
avanti rispetto alla manifattura
e anche
alle nuove
tecnologie.
è
dunque probabile che
tali
questioni potrebbero
avere
un peso
rilevante nell’orientamento elettorale dei cittadini, confermando l’ipotesi
che era alla base del Manifesto per lo sviluppo della green economy
nelle città lanciato lo scorso anno.
Per la prima volta la Fondazione prova a guardare la Green economy
italiana a partire dallo stato di sviluppo delle città rappresentandolo con
i dati quantitativi degli indicatori. Si è scelto il criterio di analisi dei
capoluoghi di provincia, un criterio originale urbano-centrico che non
considera il territorio provinciale ma solo quello urbano. Le difficoltà di
reperimento dei dati sono immense. I dati disponibili sono limitati,
disomogenei e spesso imprecisi. La selezione degli indicatori è stata
condizionata da questa arretratezza del sistema statistico italiano, non
ancora avvezzo alla manipolazione dei big data e all'uso estensivo
della strumentazione informatica. Alla fine la lista degli indicatori
"trattabili", guidata dalle scelte UNEP e OECD, si è dovuta limitare ai
seguenti temi e alle seguenti variabili:
- Clima: Il patto dei sindaci per il clima
- Energia: Lo sviluppo del fotovoltaico
- Risorse naturali: Le perdite nelle reti idriche
- Mobilità sostenibile: Autovetture a combustibili alternativi, piste
ciclabili e offerta di mezzi pubblici di trasporto
- Rifiuti: Raccolta differenziata
- Governance: Green public procurement. Città che hanno fatto
acquisti adottando i Criteri ambientali minimi (Cam) in almeno una
procedura su undici tipologie di merci.
Il quadro che emerge da questa analisi è fatto di luci e ombre. Quasi tre
capoluoghi su quattro hanno aderito all’iniziativa europea del Patto dei
Sindaci, a cominciare dai comuni di grandi dimensioni, ma quasi la metà di
questi non hanno rispettato le scadenze. Sul fotovoltaico, le aree urbane
medio-piccole hanno risultati migliori di quelle metropolitane ma tutte
risentono negativamente del trend delle politiche nazionali degli ultimi
anni. Nella gestione delle risorse idriche, i comuni più virtuosi presentano
perdite pro capite che sono 10-20 volte inferiori a quelle dei comuni che
sprecano di più, confermando ampi margini di miglioramento in questo
settore; tuttavia, nonostante la situazione sia nota da anni, nel complesso
le perdite sono cresciute (e Roma si conferma tra le peggiori aree
metropolitane in questo senso). Un discorso analogo sulla mobilità:
nonostante le dichiarazioni circa l’importanza di riequilibrare la
ripartizione modale sfavorendo il mezzo privato, negli ultimi anni l’offerta
del trasporto pubblico è diminuita nella maggior parte delle nostre città;
d’antro canto, è cresciuta la diffusione delle autovetture alimentate con
combustibili alternativi, ma a ritmi ancora troppo blandi, e la dotazione di
piste ciclabili, più nei piccoli centri che nelle aree metropolitane (con
alcune lodevoli eccezioni, come Milano e Firenze). I rifiuti raccolti in
modo differenziato e avviati a riciclo continuano a crescere ma, anche in
questo caso, i divari tra le aree geografiche restano troppo alti e, con
poche eccezioni (come Andria, Barletta e Oristano), i comuni meridionali
faticano a recuperare il gap. Un dato positivo, infine, viene dal fronte
degli acquisiti verdi: quasi la metà dei capoluoghi ha adottato, in modo più
o meno diffuso, criteri ambientali nelle procedure di acquisito, segno che
la sensibilità della Pubblica Amministrazione verso questi temi è in
crescita e che i nuovi strumenti messi in campo dal Ministero dell’Ambiente
stanno funzionando.
Lo stato della green economy in Italia. Anche quest’anno la Relazione
aggiorna l’analisi delle tematiche strategiche della green economy in
Italia: le emissioni di gas serra, l’efficienza e il risparmio energetico,
le fonti rinnovabili, l’economia circolare, l’ecoinnovazione, l’agricoltura
di qualità ecologica, il capitale naturale e la mobilità sostenibile.
Sono possibili tendenze al peggioramento delle emissioni di gas serra in
Italia: dopo l’aumento del 2015 abbiamo avuto un calo delle emissioni di CO2
nel 2016, ma le previsioni del 2017 sembrerebbero indicare un nuovo aumento.
Gli impatti del cambiamento climatico sono in peggioramento: nel 2017
abbiamo avuto un’ondata di siccità e di calore preoccupante e in autunno
nubifragi che hanno prodotto danni rilevanti in diverse località. L’Istat
ha documentato che i nostri ghiacciai alpini negli ultimi 40 anni hanno già
perso quasi la metà dei propri volumi. I consumi energetici dopo un lungo
periodo di calo nel 2015 e nel 2016 hanno ripreso ad aumentare, in
particolare quelli di gas. Il Piano nazionale per l’efficienza energetica
del 2014 indicava come obiettivo di riduzione dei consumi energetici tra il
2011 e il 2020 15,5 Mtep: al 2015 il risparmio conseguito è stato di 6 Mtep,
circa il 40% del target in cinque anni. Con i trend attuali non
raggiungeremo l’obiettivo fissato al 2020. Nel 2015 l’Italia ha superato il
suo obiettivo di quota di rinnovabili sul consumo interno lordo con il
17,5%, a fronte di una media europea del 16,7%. Tuttavia nel settore
elettrico, che rappresenta circa il 40% di tutte le rinnovabili, nel 2017
stiamo registrando la prima flessione assoluta con un forte calo della
produzione idroelettrica, un lieve aumento nel fotovoltaico che compensa
appena il calo dell’eolico e con l’elettricità da biomassa che non è
sostanzialmente cresciuta. Sintomatico anche il calo degli investimenti
nelle rinnovabili, da 3,6 miliardi nel 2013 a soli 1,7 nel 2016. Nel 20°
anniversario del DLgs 22/97 oggi in discarica va il 26% contro l'80% del '97
e la raccolta differenziata ha raggiunto il 47%, con 14 Gt di rifiuti urbani
riciclati in circa 5.000 imprese che occupano 120.000 dipendenti e fatturano
diverse decine di miliardi.
Lo stato della green economy nel mondo. La Relazione 2017 aggiorna i
dati sull'andamento globale dei fattori della green economy con
riferimento particolare ai risultati presentati dall'UNEP e dall'OECD IEA.
Il documento dedica un focus alla comparazione fra Europa, Cina e Stati
Uniti.
L’Europa ha conseguito con anticipo gli obiettivi del pacchetto di misure
per il clima al 2020, ma nel nuovo pacchetto al 2030 ha identificato target
(27% di rinnovabili sul consumo finale lordo e 30% di riduzione del consumo
tendenziale di energia) che difficilmente consentiranno di centrare
l’obiettivo di riduzione dei gas serra del 40%.
La
Cina ha puntato in passato su un modello di crescita accelerata, basato
sulle esportazioni, di bassa qualità ed elevati impatti ambientali, con un
utilizzo di carbone come fonte di energia di gran lunga prevalente. Questo
modello di crescita ha fatto diventare la Cina una potenza economica
mondiale, ma anche il principale paese emettitore di gas serra (con il 29%
delle emissioni globali di CO2), con emissioni totali
ormai superiori a quelle degli Stati Uniti ed emissioni pro capite superiori
a quelle europee. Ora la Cina sembra intenzionata a cambiare strada: sta
diminuendo l’uso del carbone e aumentando quello delle energie rinnovabili.
Le sue emissioni di gas serra non crescono dal 2014.
Circa il 40% delle emissioni di gas serra degli Stati Uniti proviene da
Stati che hanno ufficialmente dichiarato che manterranno il loro impegno di
riduzione di gas serra in attuazione dell’Accordo di Parigi. Per ora gli
investimenti nelle rinnovabili negli Usa continuano a crescere: a marzo e ad
aprile del 2017 solare ed eolico, per la prima volta, hanno superato il 10%
della domanda elettrica. Gli Stati Uniti continuano a essere leader mondiale
nella produzione di biocombustibili e nelle tecnologie per l’efficienza
energetica. Le emissioni di green bond nel 2016 sono state 80 volte
superiori a quelle del 2012, raggiungendo la cifra di 38,4 miliardi di
dollari. Per ora sembra che le dichiarazioni di Trump sull’Accordo di Parigi
non siano in grado di produrre effetti rilevanti sulle concrete misure
economiche e tecnologiche per il clima, ormai avviate negli Stati Uniti.
> leggi tutto
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IL RAPPORTO GE 2016
Quinta Relazione sullo stato della
green economy in Italia
La
Relazione 2016 propone una riflessione internazionale ed europea sulla green
economy. La prima parte offre una valutazione comparata fra le performance
della green economy italiana, la media europea e quella delle altre 4
economie più importanti (Germania, Francia, Regno Unito e Spagna). La
comparazione riguarda 8 tematiche strategiche (le emissioni di gas serra,
l’efficienza energetica, le fonti energetiche rinnovabili, l’efficienza
delle risorse, l’ecoinnovazione, l’agricoltura di qualità, il capitale
naturale, la mobilità sostenibile) ed è effettuata con 16 indicatori. La
Relazione stila quindi una graduatoria per ogni indicatore e una finale fra
le performance delle 5 principali economie europee.
La seconda parte della Relazione pubblica un
approfondimento internazionale relativo alla green economy italiana,
realizzato dal centro di ricerca “Dual Citizen” di Washington DC che ha
indagato e comparato la green economy di 80 Paesi. L’analisi mette a
confronto 4 dimensioni (leadership e cambiamento climatico; efficienza di
alcuni settori; mercato e investimenti; ambiente). Viene valutata e stilata
una graduatoria sia delle performance della green economy di questi paesi
sia della percezione internazionale della green economy di ogni Paese
registrata da un numero qualificato di esperti. L'elemento critico di questa
analisi è la sistematica sottovalutazione, in termini della cosiddetta
percezione da parte degli esperti, della reale performance dell'Italia. Un
elemento non inconsueto per il nostro paese che ha suscitato molte
discussioni nel corso degli Stati generali a Rimini.
La terza parte fornisce un aggiornamento dei progressi
della green economy a livello internazionale. In particolare fornisce alcuni
dati aggiornati sulle politiche climatiche dopo l’Accordo di Parigi per il
clima; i dati, prodotti dall’OCSE nel 2016, relativi a 4 indicatori guida
della green economy su scala mondiale e, infine, i risultati più importanti
del Rapporto internazionale “State of green business 2016”, realizzato da
GreenBiz, in collaborazione con Trucost che valuta le performance green di
1600 grandi imprese presenti in 24 Paesi.
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AGGIORNAMENTO DELLO STATO
DELLA GREEN ECONOMY NEL MONDO E LA NUOVA AGENDA 2030
di Toni Federico, 2016
(>
leggi il Rapporto integrale)
L’anno 2015 è un punto cruciale di snodo dello sviluppo sostenibile e della
green economy a livello internazionale. C
La green economy fu lanciata come programma per lo sviluppo mondiale
dell’economia nel 2008-2009 dall’UNEP e poi seguita con alcune varianti
dall’OECD come green growth. A quella data le ambizioni dell’UNEP
erano ancora quelle di stabilirsi come Agenzia dell’ONU per lo sviluppo
sostenibile (era allora un Programma) e fu anche merito suo se il Summit
decennale sullo sviluppo sostenibile del 2012 (Rio+20) mise in agenda
sostanzialmente due punti: la green economy e la governance
internazionale dello sviluppo sostenibile. Furono anche gli anni in cui l’UNEP
produsse il massimo sforzo per la copertura dei tre pilastri dello sviluppo
sostenibile con il Progetto TEEB per la biodiversità, la green economy
e il Progetto di Inclusive Wealth (di marca Stiglitziana) per
l’equità, il welfare e gli altri aspetti sociali.
Lo
sforzo dell’UNEP fu solo parzialmente premiato a Rio+20, perché mentre alla
green economy venne riconosciuto il ruolo di guida della transizione
verso un modello di sviluppo economico sostenibile e verso la eradicazione
della povertà (la transizione green), l’UNEP ne uscì potenziata dal
punto di vista economico e politico, fu dotata di un’Assemblea generale, ma
la governance dello sviluppo sostenibile salì di livello e passò
direttamente sotto il controllo dell’ECOSOC, Il Comitato Economico e sociale
che coordina le 14 Agenzie dell’ONU, che avrebbe operato da allora in avanti
con un’Assemblea annuale e una sessione speciale dell’Assemblea generale
UNGA ogni quattro anni.
La prima di queste ha avuto luogo nel settembre 2015 a New York ed è lì che
si intrecciano tutti i fili dello sviluppo sostenibile. La 60° UNGA mette
capo contemporaneamente al Summit di Rio+20, alla verifica quindicennale
degli obiettivi del millennio, gli MDG, e alla gestione politica, per
saldarli in un programma unico per lo sviluppo sostenibile che prende in
questa occasione il nome di Agenda 2030, in continuità ideale ed
operazionale con l’Agenda 21 di Rio 1992. Il quadro strategico dell’Agenda
2030 si completa a Parigi, in Dicembre, con la 21° Conferenza delle Parti
sul clima, che fissa i nuovi obiettivi della lotta contro i cambiamenti
climatici, che resterà, a livello internazionale, sotto il controllo della
Convenzione climatica UNFCCC di Rio.
Se non l’unica, la gestione ONU delle politiche di sviluppo, resta l’istanza
principale per la guida della transizione green a livello globale.
Dal 2015 infatti comincia una fase nella quale alle azioni dei governi si
aggiungono, in forma sempre più autorevole, le azioni del sistema
industriale e quelle della società civile organizzata, in continua crescita
di estensione e di efficacia.
L’Agenda 2030 non è articolata nelle dimensioni usuali dello sviluppo
sostenibile, ambiente, economia, società e governance, quanto
piuttosto per temi intersettoriali di primaria esigenza per lo sviluppo.
Tali temi hanno trovato una sintesi condivisa da tutti i paesi dell’ONU in
17 nuclei strategici e programmatici cui è stato dato il nome di
Sustainable Development Goals, SDGs, accompagnati ciascuno da obiettivi
(target) che ne specificano i contenuti e le finalità.
Per la verifica dei conseguimenti che i vari paesi potranno ottenere, sulla
base delle particolarità nazionali e sulle specifiche scelte e priorità per
lo sviluppo, l’ONU ha messo in campo una Data Revolution che è un
Programma mondiale che dovrà mettere tutti i paesi in grado di sviluppare
programmi nazionali di analisi statistica delle rispettive realtà locali,
con linee di assistenza, anche economica, da parte di chi ha già le
potenzialità tecnico-scientifiche necessarie di elaborazione dei dati. Si
tratta di portare poco meno di 200 paesi alla condizione di stimare
quantitativamente i 240 indicatori scelti a presidio dei 17 goal e
dei relativi 191 target. Nella primavera del 2016 il Gruppo di lavoro
ad-hoc, IAEG, istituito dall’ONU, ha reso nota la lista di questi
indicatori.
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IL RAPPORTO GE 2015
Quarta Relazione sullo stato della
green economy in Italia
Questo Rapporto è la prima Relazione (>
scarica la Relazione) sullo stato della green
economy, realizzata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile.
è articolata in tre parti: la
prima presenta i risultati di un’indagine sulle imprese della green
economy in Italia, la seconda disegna un quadro delle tematiche
strategiche per la green economy in Italia e la terza fornisce dati e
spunti internazionali.
L’indagine sulle imprese green in Italia è la
prima che viene fatta nel nostro Paese con l’uso della doppia
classificazione, utilizzata in sede internazionale relativa a:
-
le imprese Core Green che producono beni o
servizi ambientali o specificamente finalizzati a elevate prestazioni
ambientali;
-
le imprese Go Green che hanno adottato
modelli green di gestione definiti dal rispetto di almeno 8
condizioni della lista preparata dalla Fondazione.
L’indagine non riguarda solo l’industria, ma ha
incluso anche l’edilizia, ed è stata estesa all’agricoltura, ai servizi e al
commercio: è quindi uno studio ampio sulle imprese italiane dei diversi
settori. Dall’indagine risulta che ben il 27,5% delle imprese italiane è
Core Green, produce beni o servizi ambientali o specificamente
finalizzati ad elevate prestazioni ambientali, e che della parte rimanente
un rilevante 14,5% è Go Green, perché ha adottato modelli green
di gestione: un totale del 42% delle imprese italiane: un dato che non
sorprende chi opera in questo mondo cresciuto fortemente negli ultimi
decenni, ma che farà discutere. Nel mondo dell’informazione, e quindi della
politica e della pubblica opinione, permane infatti una vecchia visione
delle imprese che ignora la consistente dimensione ormai raggiunta dalle
imprese green.
Nella seconda parte della Relazione è presentata una
ricognizione aggiornata delle tematiche strategiche della green economy
italiana, segnalando le forti difficoltà che stanno incontrando le
rinnovabili, il trend positivo dell’efficienza energetica, la positiva
riduzione delle
emissioni di
gas serra, ma anche l’aggravamento del dissesto idrogeologico prodotto dal
cambiamento climatico, le tendenze positive verso una circular economy,
ma anche i molti ritardi come nell’ecoinnovazione; importanti progressi sono
stati compiuti dall’agricoltura di qualità ecologica, mentre nella mobilità
i segni di cambiamento sono ancora insufficienti e il quadro complessivo
resta carente.
Infine, nella
terza parte si espongono dati e spunti sul quadro internazionale. La
domanda mondiale di energia dal 1990 al 2013 è cresciuta del 54,5%; il
petrolio continua a essere la principale fonte mondiale di energia primaria,
fornendo il 31,2% dell’energia nel 2013 (era il 36,8% nel 1990). Segue a
breve distanza il carbone, che è arrivato a fornire il 29,2% della domanda
di energia primaria nel 2013, cresciuto rispetto al 25,4% del 1990 In
aumento anche il gas: dal 19,1 del 1990 al 21,2 del 2013, mentre il nucleare
è in calo: dal 6% del 1990 al 4,7% del 2013. Le rinnovabili sono in aumento,
dal 12,7% del 1990 al 13,7% del 2013, ma rappresentano una quota ancora
bassa della domanda mondiale di energia primaria, che continua a essere
soddisfatta per l’81,6% da combustibili fossili. La CO2
di origine energetica è aumentata di ben il 53,7% dal 1990 al 2013. Con i
trend attuali il mondo è su una traiettoria che porterebbe a un aumento
compreso fra i 3,7 e i 4,8°C: un cambiamento con impatti sociali, ambientali
ed economici drammatici.
Vengono poi
forniti dati sulla produttività delle risorse, cioè il valore aggiunto
prodotto per unità di materia consumata che cresce in tutto il mondo, ma
meno del Pil: siamo cioè in regime di disaccoppiamento relativo. Il Consumo
nazionale di materia (Dmc, risorse interne + importazioni - esportazioni) è
invece in disaccoppiamento assoluto in Italia e in Europa.
Infine, viene
presentata la sintesi di un rapporto di assessment del programma
della green growth dell’Ocse che fa un bilancio della penetrazione
della green economy nei Paesi sviluppati e aggiorna la “Strategia
della green growth” elaborata nel 2011.
TORNA SU
LO STATO
DELLA GREEN ECONOMY NEL MONDO
di Toni Federico, 2015
(>
leggi il Rapporto integrale)
A seguito delle conclusioni del Summit
Rio+20 del 2012, del quale la green economy è stato il punto
strategico centrale, le politiche di sviluppo dovranno essere differenziate
in funzione delle specificità dei singoli paesi, ma mirare ad un obiettivo
comune di salvaguardia del pianeta. I paesi dell’area dello sviluppo,
grossomodo gli OECD, dovranno disaccoppiare la loro crescita da ogni forma
di danneggiamento degli ecosistemi e dalla distruzione delle risorse
naturali. All’opposto viene riconosciuto che la crescita economica è la
chiave per migliorare il benessere dei paesi in via di sviluppo, ma che essa
non può costare la sopravvivenza del pianeta.
La green growth pone ai paesi in
via di sviluppo sfide complesse per affrontare i costi dei rischi naturali,
della sicurezza ambientale e industriale e la grande imprevedibilità del
commercio mondiale. È chiaro che perché più persone possano godere di
migliori standard di benessere ed allo stesso tempo promuovere la
sostenibilità, è necessaria una sempre maggiore innovazione per ridurre il
consumo delle risorse naturali e i danni agli ecosistemi.
Lo sviluppo economico deve essere basato
per tutti su un impiego ottimale a lungo termine delle risorse naturali,
preservando e valorizzando l'ambiente (il capitale naturale). Molti governi
nazionali, e l’Europa, stanno introducendo formalmente il capitale naturale
nelle loro contabilità, una pratica che sta cominciando ad essere adottata
anche dal settore privato.
In questi anni le iniziative istituzionali
in favore della green economy sono diventate numerose. Non si contano
i progetti sviluppati dalle NGO e da associazioni private. Molte condividono
indirizzi e metodi simili. Quasi tutte includono le categorie del benessere
umano, l’efficienza e la produttività delle risorse, la trasformazione
economica, la qualità ambientale e il capitale naturale, e l’efficacia delle
risposte politiche.
Le Nazioni Unite hanno sviluppato un sistema di contabilità ambientale
(SEEA) che, promosso dalla FAO, dalla World Bank, dall’IMF, dall’OECD ed in
corso di adozione da parte di Eurostat per la Commissione Europea, si avvia
a diventare uno standard universale. Hanno inoltre promosso il partenariato
PAGE, al fine di dare attuazione al dettati di RIO+20 sulla green economy.
Cinque agenzie ONU, UNEP, ILO, UNDP, UNIDO e UNITAR forniranno servizi di
green economy che consentiranno di trasformare in senso green le
strutture economiche nazionali.
La Banca Mondiale, che ha contribuito allo
sviluppo del concetto degli stock di capitali come base della
ricchezza, ha messo a punto un sistema di calcolo dei flussi di tali
capitali sotto forma di un Adjusted Net Savings, indirizzato alla
sostituzione del PIL che calcola solo i flussi finanziari. Ha inoltre
lanciato un programma per calcolare questi stock (WAVES).
L’UNEP lancia nel 2009 la proposta di un
Green New Deal e dà inizio alla stagione della green economy
con l’omonima iniziativa. Dà origine poi al TEEB, il programma di studio e
sviluppo dell’economia degli ecosistemi. Pubblica un suo sistema di
indicatori per la green economy. In collaborazione con UNU e IHDP,
sviluppa per la green economy un indice inclusivo della ricchezza
che, in applicazione degli insegnamenti del Rapporto Stiglitz del 2009
(cit.), comprende i capitali costruito, umano e naturale, ma non ancora il
capitale sociale.
L’UNDP sta espandendo e perfezionando il
suo tradizionale approccio sullo sviluppo umano (HDI), proponendo un nuovo
indice multidimensionale della povertà e della disuguaglianza.
L’UNEMG, in preparazione di Rio+20, ha
creato un gruppo di lavoro per promuovere la green economy.
L’Unione Europea ha in corso molte
iniziative in favore della green economy, a partire dalla Strategia
EU 2020 per la quale Eurostat pubblica regolarmente i dati. Il programma
iGrowGreen fornisce i dati della green economy relativi a 27
stati membri coprendo quattro domini: la riforma fiscale green, il
mercato e la competitività, la promozione della green growth e i
cambiamenti climatici e la biodiversità.
L’OECD apre il suo programma della
green growth nel 2011 con il testo di riferimento Towards a Green
Growth (cit.). Lancia il "Your Better Life Index", un indice di
misura flessibile e interattivo della qualità della vita, che consente
all'utente di inserire i coefficienti di ponderazione, per ottenere un dato
che rispecchia la propria visione delle preferenze sociali. Pubblica nel
2014 i dati aggiornati degli indicatori della green growth. Nel
luglio del 2015 pubblica il primo rapporto di assessment globale
della green growth.
Il Global Green
Growth Institute, GGGI, con sede a Seoul in Corea, è una piattaforma
internazionale che opera prevalentemente nel sud del mondo, promossa dalle
grandi istituzioni internazionali per lo sviluppo. In collaborazione con
UNEP, OECD e Banca mondiale, i principali promotori del GGGI, è stata creata
la Green Growth Knowledge Platform (GGKP) cui si deve il primo
approccio all’unificazione degli indicatori per la green economy a
livello mondiale.
TORNA SU
IL RAPPORTO GE 2014
Le imprese della green
economy. La via maestra per uscire dalla crisi
Presentato a Roma il 23 febbraio 2015 all'ENEA
Introduzione di Ligia Noronha,direttore della Divisione di tecnologia,
industria ed economia dell’UNEP
Mai
prima
d’ora
le
sfide
ambientali
nel
mondo
hanno
ricevuto
tanta
attenzione
internazionale,
e
anche
generato
tante
preoccupazioni
circa
il progresso
economico
e
sociale.
È
sempre
più
chiaro
che
una
crescita
sostenibile
a
lungo
termine
e
la
creazione
di
posti
di
lavoro
non
possono essere
raggiunte
senza
affrontare
queste
sfide.
Viste
in
questa
luce,
le
crisi
ambientali
che
si
stanno
verificando
in
diverse
regioni
del
mondo
rappresentano
un’opportunità
storica
per
il
cambiamento.
In
effetti,
un
numero
sempre
maggiore
(e
crescente)
di
paesi
ha
iniziato
il
cammino
verso
questo
cambiamento.
A
seguito
del Summit Rio+20
del
2012,
la
green
economy
è
stata
adottata
dai
governi
come
uno strumento
per
realizzare
uno
sviluppo
sociale,
economico
e
ambientale sostenibile, anche
perché porta
con
sé la
promessa
dell’aumento dei
posti
di
lavoro
e
di
imprenditori
dal
profilo
innovativo.
L’Italia ha già
iniziato a muoversi in questa direzione. Tuttavia, rimane
un
potenziale
non ancora
sfruttato per
intraprendere
un percorso
che può
creare altri
green
job,
supportare
una
crescita
sostenibile e
ripristinare
la salute
e la
qualità
dell’ambiente.
Con il
governo
e le
imprese
che lavorano
insieme
verso una
green
economy,
l’Italia non
può
mancare di
superare
le attuali
difficoltà
economiche,
per
costruire le
basi
per una
crescita
sostenibile
per il
futuro.
Questo
rapporto è
un
passo
importante in
questo
senso, in
quanto
delinea il
ruolo
potenziale per
le
imprese
italiane nella
realizzazione
di tale
cambiamento.
Anche
se sono
i
governi a
guidare
questo
processo
attraverso
regolamenti e
incentivi,
sono le
imprese
che apriranno
la
strada verso
una
green
economy
attraverso
le
loro
scelte
quotidiane
per
gli
investimenti
e
per
l’occupazione.
Con
la
rapida
innovazione
tecnologica, il
passaggio
a
un’energia
più
pulita
e
a
un
uso
più
efficiente
delle
risorse al
centro
della
green
economy,
gli
imprenditori
e
la
società
dovrebbero beneficiare
entrambi
di
una
qualità
ambientale
solidamente
incardinata nella
competitività
e
nella
crescita
economica.
Guidato
dalla
Fondazione
per
lo
sviluppo
sostenibile
e
dall’Agenzia
nazionale per l’energia e lo sviluppo sostenibile (Enea), il
rapporto contribuisce
al
dibattito
in
corso
sulla
green
growth
in
Italia,
e
su
come
potrebbe
presentarsi
un
percorso
di
ristrutturazione
dei
settori
produttivi dell’economia. Analizzando
sia
il
quadro
teorico
sia
il
processo
di
cambiamento,
questo
rapporto
costituisce
un
importante
punto
di
riferimento
per
il
paese e
per
la
comunità
imprenditoriale
italiana. La
visione
condivisa
di
una
green
economy
che
si
trova
in
questo
libro, e
tra
gli
imprenditori
italiani,
accresce
la
speranza
per
il
futuro
e
mostra che
l’Italia
sta
lavorando
seriamente
ed
è
pronta
per
il
compito
di
crere
un’economia
più
verde
e
più
inclusiva,
come
pietra
angolare
della
sua crescita futura.
TORNA SU
Materiali di discussione
e presentazione di Toni Federico
(>
scarica l'intero contributo)
(>
scarica la presentazione
e >
ascolta l'intervento)
“La
green economy
è un catalizzatore dello sviluppo. Ma tutta l’economia deve andare in quella
direzione”
Katia
Bastioli, Meeting di Primavera, Roma 2014
And those who
were seen dancing were thought to be insane by those who could not hear the
music
Attribuita a Friedrich Nietzsche
Introduzione.
Una transizione verso un futuro progressivamente più sostenibile, con
emissioni di gas serra decrescenti e il recupero del degrado ambientale,
richiede una economia diversa, vale a dire processi produttivi e tecnologie
più rispettose dell'ambiente ed una diversa concezione del benessere,
associata a criteri nuovi attraverso cui le imprese possano valutare il
valore aggiunto da esse stesse prodotto in funzione di tutto l’arco della
ricchezza e non solo del flusso dei ricavi e della quantità di macchine e di
infrastrutture accumulate.
Il
vettore di questa irrimandabile trasformazione è la green economy
che, pur declinata secondo diverse accezioni settoriali e scalata ai livelli
di sviluppo delle diverse nazioni e delle loro vocazioni, raccoglie tutto lo
sforzo attualmente in atto nel mondo verso lo sviluppo sostenibile, come
deriva dalla lezione di Rio+20. La green economy comporta una nuova
visione dei problemi e delle dinamiche dello sviluppo, nuove culture,
diverse abilità e modalità di formazione.
Definizione
del nuovo perimetro ambientale e sociale delle attività industriali
(fonte: EU EC)
In
risposta alla necessità di capire la transizione verso un'economia più verde
diverse iniziative sono state messe in campo per comprendere di che si
tratta quando si parla di settori verdi (core-green), posti di lavoro
verdi (green jobs) e tecnologie verdi. Si tratta di valutare il
potenziale delle attività industriali e delle risposte della politica per la
costruzione di un nuovo tipo di benessere, rilanciare l’occupazione e
avviare il processo di ricostituzione del capitale naturale, i tre cardini
del cambiamento. Quindi si tratta di valutare:
Ci sono imprese green originarie per prodotti, servizi o processi, ma
l’interesse maggiore è nella grande massa di imprese in transizione, avviate
verso una green economy: per esse vanno individuate quattro caratteristiche,
essenzialmente:
-
la qualità delle motivazioni, accertabile con indagini dirette;
-
il livello dell’ecoinnovazione, per cui esistono indicatori specifici;
-
i
risultati ambientali e la qualità ecologica, con valutazioni
quantitative;
-
il
modello di business cui si chiede la capacità di mettere lo
sviluppo sostenibile al centro delle decisioni strategiche aziendali.
I
lavori verdi, che definiremo e analizzeremo in un successivo contributo,
sono evidentemente quelli delle industrie o dei settori industriali e dei
servizi core-green, cui molti altri se ne aggiungono nel vasto
movimento delle attività “in transizione”. La dinamica espansiva dei green
job è senza dubbio uno degli esiti più attesi e promettenti della green economy. I green job sono in parte sostitutivi ed in parte aggiuntivi, in
entrambi i casi portano un miglioramento della qualità del lavoro, dei
contenuti di conoscenza e dell’inclusività sociale, con vantaggio
particolare per i giovani e le donne.
I
paesi come il nostro, con alto tasso di disoccupazione, cercano nuove
opportunità per stimolare l'occupazione e la crescita economica. Autorità e
responsabili politici chiedono informazioni per eseguire confronti
internazionali, per tenere traccia dei progressi ambientali in ogni settore
e nell'economia nel suo complesso e per quantificare gli effetti delle
politiche di tutela ambientale e di protezione sociale. La tentazione di
dividere le attività economiche in due gruppi, green e brown è da
abbandonare, secondo un orientamento ormai comune. Non è infatti
teoricamente possibile segregare le attività green dal resto dell'economia e
non solo perché, in qualsiasi accezione risultassero genuinamente green,
esse assommerebbero a quote percentuali dell’economia ad una sola cifra.
Da un lato, infatti, anche le attività core-green generano un certo
livello di pressione ambientale, dall’altro molte delle attività dei settori
tradizionali si vanno allineando agli obiettivi dello sviluppo sostenibile,
sia pure con modalità ed efficacia diverse. Si fa notare che anche settori
di solito classificati core-green, ad esempio le energie rinnovabili,
implicano pressioni sulla natura, il territorio o il paesaggio, e che alcune
aziende si servono di vecchie pratiche sociali, talvolta esplicitamente
contrarie ai principi della sostenibilità.
Anche
in una prospettiva di un nuovo tipo benessere, non sarà possibile ignorare
la necessità che, per fornire gli importi desiderati di beni e servizi,
occorrerà governare ed equilibrare la produzione e l'occupazione, l’uso di
materia e di energia, le emissioni ed i rifiuti. Va inoltre considerato che,
mentre alcuni settori generano emissioni significativamente più elevate per
unità di prodotto e a pari numero di lavoratori dipendenti rispetto ad
altri, l'interdipendenza tra le attività rende problematico accreditare
particolari settori come più green o semplicemente più rispettosi
dell'ambiente rispetto ad altri. Non adotteremo quindi la visione binaria
delle due categorie, green e brown, quanto piuttosto un
continuum scandito dalle esternalità generate per unità di prodotto e
per lavoratore occupato e controllato attraverso l’evoluzione nel tempo dei
parametri.
La
green economy viene oggi prevalentemente valutata attraverso la performance
globale di un paese, ma il problema della qualità ecologica differenziale
dei settori e delle singole aziende non può essere ignorato né si può
evitare di dare una soluzione equa al problema della definizione degli
obiettivi per gli operatori pubblici e privati sol perché si tratta di un
esercizio difficoltoso. Una modalità equa, non l’unica, per ripartire i
carichi della transizione potrebbe essere, una volta definiti obiettivi e
target, quella di parificare i costi marginali di abbattimento delle
emissioni e di ripristino ambientale a carico degli operatori. Questa
scelta, come ogni altra, richiede una forte regolazione attraverso la
fiscalità o i sistemi di permessi negoziabili cap&trade.
TORNA SU
I green jobs, una analisi preliminare, di Toni Federico
(>
scarica l'intero contributo)
“Io penso
che il problema di oggi sia l’occupazione e lo sarà per molti anni ancora.
Se non abbiamo un progetto realistico e convincente su come risolverlo, non
credo che nessuno ci ascolterà parlare di problemi di ambiente e sviluppo”
Anders
Wijkman, Peccei Lecture 2014
La
green economy e l’industria green si iscrivono da protagoniste,
come abbiamo visto, nel processo
di transizione verso uno sviluppo
sostenibile. Ad esse si chiede di fornire una risposta alle molteplici
crisi - climatica, alimentare, finanziaria, economica e sociale - che il
mondo ha dovuto affrontare negli ultimi anni, perché offrono notevoli
opportunità per creare posti di lavoro e un nuovo tipo di economia capace di
progresso e di futuro. Il cambiamento verso la green economy può
comportare un onere finanziario per le industrie inquinanti e provocare uno
spostamento dell’occupazione in diversi settori e regioni, ma porterà nuove
attività che offrono significative opportunità di investimento, crescita
economica e nuovi posti di lavoro green.
La
maggior parte degli osservatori è interessata alla dimensione della green
economy, in termini di numero di stabilimenti, numero di green jobs
e fatturato totale, e al suo contributo alla crescita economica, in
particolare per maggiore fatturato, maggiore occupazione, numero di persone
impiegate direttamente o indirettamente, il loro livello di abilità e le
competenze specialistiche necessarie, il valore aggiunto, gli investimenti,
le esportazioni. Il volume, il livello e la qualità dell’occupazione in
posti di lavoro verdi è visto da molti forse come il più importante
indicatore del progresso complessivo verso un'economia più green e più
sostenibile.
L'identificazione delle attività riconducibili alla green economy, e
la misurazione delle caratteristiche dei rapporti di lavoro in queste
attività, possono essere utilizzate per guidare le decisioni per quanto
riguarda le industrie che richiedono il supporto in forma di sovvenzioni e
di accesso al credito e, anche, di corsie preferenziali dal punto di vista
normativo e fiscale. Il monitoraggio statistico può anche consentire una
valutazione della misura in cui gli stabilimenti ristrutturano i loro
processi organizzativi e produttivi. Si tratta di una condizione necessaria
per valutare come le abilità e i sistemi di istruzione e formazione devono
adattarsi allo sviluppo della green economy.
Queste
premesse prefigurano una separazione tra lavoro green e brown, come
per le imprese, ma non può esservi una corrispondenza biunivoca tra imprese
green e i green jobs. L’UNECE, elaborando i suoi indicatori
legati al lavoro, intanto, definisce impraticabile una distinzione tra
l’occupazione in posti di lavoro green e in posti di lavoro ambientalmente
sostenibili. Se questo è vero non potranno essere classificati come green
impieghi ed attività svolte per conto di imprese che non abbiano fatto una
scelta esplicita ed operazionale in favore della sostenibilità: non basta
cioè piantare fiori nel giardino di un’industria brown, nella misura
in cui ciò non ne modifica i ruoli né le tendenze. Per converso, un gran
numero, forse la maggior parte dei green job, si vanno creando nelle aziende
in via di trasformazione che stanno intraprendendo quello che abbiamo
chiamato un cambiamento del modello di business. Naturalmente le difficoltà
di quantificare statisticamente questi processi dal punto di vista
occupazionale, possono essere molto grandi, specialmente nelle prime fasi
della transizione.
Molti
degli uffici statistici nazionali, almeno nei paesi sviluppati, hanno
iniziato a produrre stime per quantificare l'economia green nelle sue varie
forme e con essa l’occupazione ambientale e i green job, sulla base di dati
provenienti da indagini ufficiali di stabilimento. In questi casi, i dati
sul tipo di attività economica o sui beni e servizi prodotti sono utilizzati
insieme ai dati sull'occupazione totale in ogni azienda per generare una
stima attendibile dell’occupazione in posti di lavoro green. I dati resi per
ora disponibili, sono classificati in base al tipo di attività economica
secondo i settori core-green come la gestione dei rifiuti o
l’energia rinnovabile, così come definiti nel SEEA. Le stime tendono,
tuttavia, a non essere comparabili tra i diversi paesi a causa delle
differenze nelle fonti, nei metodi di stima e nelle definizioni di green job
utilizzate[3].
Più
completo e moderno è l’approccio adottato dall’US Bureau of Labor Statistics
(BLS), che definisce i green job come:
-
posti di lavoro in imprese che producono beni o forniscono servizi a
beneficio dell'ambiente e alla conservazione delle risorse naturali,
cioè le imprese EGS;
-
posti di lavoro in cui i doveri dei lavoratori implicano processi di
produzione del loro stabilimento più rispettosi dell'ambiente o che
utilizzano meno risorse naturali.
L'uso
di queste categorie interagenti per definire i green job implica due diversi
approcci alla misurazione statistica: un approccio di prodotto e un
approccio di processo. Occorre a questo fine definire con precisione quali
beni, servizi o processi devono essere considerati. L'occupazione nel
settore della produzione di beni e servizi ambientali riguarda i posti di
lavoro negli stabilimenti che producono beni e servizi a beneficio
dell'ambiente. Va però considerato che questi prodotti non sono sempre
ottenuti mediante processi e tecnologie di qualità ecologica. Ad esempio,
gli edifici verdi o le auto elettriche possono essere prodotti utilizzando
tecnologie che possono anche avere un impatto ambientale negativo.
Occupazioni in processi ambientalmente favorevoli, d'altra parte, possono
essere trovate in industrie tradizionali, ad esempio minerarie o di
produzione dell’acciaio, certamente inquinanti. Saranno classificati green
job a condizione che le aziende stiano aumentando la loro l'efficienza
energetica attraverso nuovi modelli di organizzazione o che impieghino
tecnologie rispettose dell'ambiente nei loro processi produttivi. Questi
cambiamenti, anche se non sempre guidati da preoccupazioni ambientali,
possono avere un notevole impatto positivo sull'ambiente, anche dove vengono
prodotti beni o servizi ambientali non EGS.
TORNA SU
IL RAPPORTO GE 2013
Un Green New Deal
per l'Italia
Presentato a Roma nel gennaio 2014 all'ENEA
l ruolo
della Green economy per uscire dalle crisi
dalla introduzione
di
Tim Jackson, Professore di sviluppo sostenibile all'Università
del Surrey, UK, al Rapporto Green Economy 2013 (>
leggi l'intero contributo)
Di recente, e in particolare nell’imminenza del summit Rio+20 del
giugno del 2012, è emerso il concetto di green economy, inteso come
nucleo attorno al quale aggregare idee da cui ricavare una possibile
alternativa alle crisi.
Secondo l’UNEP, la green economy è un’economia “che
produce miglioramenti del benessere umano e dell’equità sociale, riducendo
nel contempo i rischi ambientali ed ecologici”. In poche parole, la green
economy è “low carbon, usa le risorse in modo efficiente ed è social- mente
inclusiva”
In cosa si
distingue questa economia dal paradigma convenzionale; cosa richiede a
imprese, lavoratori, consumatori, governi e sistema fiscale; quali benefici
arreca. Perché, ed è bene ricordarlo, nessuna economia – verde o di
qualunque altro colore – è un fine in sé. Piuttosto, si tratta sempre di un
mezzo per raggiungere una prosperità condivisa e duratura. L’economia
dovrebbe consentire agli individui di prosperare e alle comunità di
progredire. Ben oltre la semplice fornitura di beni e servizi, ciò vuol dire
che l’economia deve rafforzare il benessere delle società e proteggere
l’integrità degli ecosistemi. Mercati stabili, lavori sicuri, ecosistemi
sani, forniture sostenibili, equità: queste sono alcune delle condizioni da
cui dipende la prosperità, presente e futura.
Le attività
economiche che danneggiano gli ecosistemi su cui si basa la nostra
prosperità futura sono ovviamente insostenibili. Come già detto, però,
l’economia dovrebbe consentire agli individui di prosperare e alle comunità
di progredire. La prosperità richiede, oltre alla semplice fornitura di beni
e servizi, anche la sicurezza del lavoro e la stabilità dei mercati. Se la
prosperità porta vantaggi a pochi e non allevia le situazioni più critiche,
quelle in cui versano i poveri, si creano le precondizioni per l’in-
stabilità sociale. Nonostante sia facile da articolare concettualmente,
questa visione ancora non definisce in modo netto le varie dimensioni della
green economy. Inoltre, non delinea un contesto macroeconomico
distinto dal pensiero e dalla pratica economici tradizionali. Occorre
definire il ruolo delle imprese nel dare alle persone le possibilità di
progredire. Oltre ai prerequisiti fondamentali per la vita: cibo, indumenti
e riparo, la nostra prosperità dipende da quei “servizi” che
migliorano la qualità delle nostre vite: sanità, cure sociali, istruzione,
tempo libero e ricreativo, mantenimento, rigenerazione e protezione del
patrimonio naturale.
Sottolineo
l’importanza del lavoro. Un impiego è molto più che un mezzo per guadagnarsi
i mezzi di sussistenza di cui si ha bisogno. È infatti un elemento
essenziale della nostra connessione con gli altri – una sorta di “collante”
sociale. Un buon lavoro garantisce rispetto, motivazioni, appagamento,
partecipazione alla comunità e, nel migliore dei casi, dà senso e scopo alla
propria vita.
Il
terzo pilastro della green economy sono gli investimenti. In effetti,
buona parte dell’attuale riflessione teorica individua proprio negli
investimenti l’elemento caratterizzante della green economy. Spiega
l’UNEP, “i miglioramenti dei redditi e dei livelli di occupazione sono
generati dagli investimenti pubblici e privati mirati a ridurre le emissioni
di carbonio e l’inquinamento, a migliorare l’efficienza nell’uso
dell’energia e delle risorse e a prevenire la perdita di biodiversità e di
servizi degli ecosistemi”. Nonostante la green economy sia
qualcosa di più degli investimenti verdi, l’attenzione agli investimenti è
comprensibile, dato che questi ultimi giocano un ruolo essenziale in
qualsiasi economia. Conta anche l’economia del denaro (la creazione, il
mantenimento e la stabilità del flusso monetario), inteso come componente
essenziale della green economy. L’illimitata creazione di denaro
attraverso il debito commerciale stimola insostenibilità negli investimenti
e instabilità nei mercati finanziari. La riforma del sistema finanziario,
oltre a essere la risposta più ovvia alla crisi, è anche uno dei
prerequisiti fonda- mentali della green economy.
Presi
assieme, questi quattro elementi – tipologia delle imprese, qualità del
lavoro, struttura degli investimenti e ruolo del denaro – possono portare a
una radicale trasformazione dell’economia, che va molto al di là delle
ristrette finalità politiche dell'austerity.
L'impresa green
Non si
tratta solo di produrre e consumare beni materiali, quanto piuttosto di dare
alle persone quelle capacità che gli servono per svilupparsi nelle loro
comunità, socialmente, psicologicamente e materialmente dando pur sempre
alle persone mezzi di sussistenza sufficienti e dignitosi. Una green
economy deve generare basse emissioni di carbonio, usare le risorse in
modo efficiente e lasciare un’impronta “leggera” sulla Terra. Deve cioè
creare le condizioni necessarie per prosperare senza distruggere il capitale
da cui dipende la nostra prosperità futura. Questi elementi rappresentano la
base per una nuova visione dell’impresa che non sarà più basata su una
divisione del lavoro speculativa, sulla massimizzazione dei profitti e e
sull'uso intensivo delle risorse, quanto piuttosto su una forma di
organizzazione radicata nella comunità sociale e impegnata nella fornitura
di quei servizi che migliorano la qualità della vita: sanità, cure sociali,
istruzione, tempo libero, mantenimento e protezione del patrimonio naturale.
L’idea dell’impresa come servizio può essere applicata all'energia,
all’abitare, ai trasporti e all’alimentazione. Oltre che con i bisogni
materiali, la prosperità ha a che fare con la dimensione sociale e
psicologica: identità, affiliazione, partecipazione, creatività ed
esperienza.
Il
lavoro green
Come ha
sottolineato Schumacher, l’ideale per un datore di lavoro, sarebbe avere
prodotti senza lavoratori, mentre per il lavoratore sarebbe guadagnare senza
lavorare. Questa dinamica perversa è stata incorporata nell’economia moderna
con il perseguimento della produttività del lavoro, considerato il motore
dell'economia, cioè la volontà di incrementare continuamente le unità di
prodotto per ore di lavoro svolte. Tuttavia, questo atteggiamento pone la
società di fronte a un dilemma difficile da risolvere. Se ogni ora lavorata
diventa sempre più produttiva, serviranno sempre meno persone per
raggiungere un determinato risultato economico. A livello macroeconomico,
questa dinamica è devastante. Se le nostre economie non crescono, si rischia
di espellere le persone dal mondo lavorativo.
La
disoccupazione riduce il potere di acquisto e fa crescere i costi per il
welfare ed aumentare il debito pubblico. Nell’attuale sistema finanziario
gli interessi sul debito sono pagati, alzando le tasse sui
redditi futuri. Imposte più alte comprimono ancor di più il potere di
acquisto, e il ciclo si perpetua. Quando la crescita rallenta, la
dinamica dell’innalzamento della produttività del lavoro diventa una
padrona spietata. Ci sono due strade per evitare la “trappola della
produttività”. La prima consiste nella riduzione delle ore lavorate
per dipendente cioè nel suddividere il lavoro disponibile. La seconda è
spostare le attività economiche verso settori a più alta intensità di
lavoro.
Nel saggio del 1930 "Possibilità economiche per i nostri nipoti",
Keynes delineava un futuro in cui tutti avremmo lavorato di meno e
avremmo passato più tempo con la nostra famiglia, i nostri amici e la
nostra comunità. In molti contesti inseguire a tutti i costi la
produttività ha poco senso. Alcuni compiti dipendono per loro natura dal
tempo e dall’attenzione. La cura e le preoccupazioni di un essere umano
per un altro, per esempio, sono un “bene” peculiare. Non si possono
accumulare. Non possono essere erogate da una macchina. La loro qualità
si fonda sull’attenzione che una persona nutre nei confronti di
un’altra. La manifattura è un altro esempio. Sono l’accuratezza e la
cura del dettaglio che danno ai beni il loro valore. Sono l’attenzione
del carpentiere, del sarto o del designer a rendere squisito un lavoro.
Allo stesso modo, è il tempo speso a praticare, a provare e ad esibirsi
che dà alle arti il loro fascino. Cosa potrebbe venire fuori se si
chiedesse alla Filarmonica di New York di ridurre il tempo per le prove
e di suonare la 9° Sinfonia di Beethoven ogni anno sempre più
velocemente?
È
affascinante
notare
come
questi
settori
dell’economia
–
cure
alle
persone,
manifattura,
cultura
–
sono
al
centro
della
visione
dell’impresa
delineata
in
precedenza.
Gli investimenti green
Gli investimenti possono essere l’elemento più importante di un’economia,
dato
che
danno
corpo
alla
relazione
tra
presente
e
futuro.
Il
fatto che
gli
individui
accantonino
parte
dei
loro
guadagni
per
investirli
riflette
un
aspetto
fondamentalmente
prudente
della
natura
umana:
la
prosperità
di
oggi
ha
ben
poco
valore
se
compromette
quella
di
domani.
Gli
investimenti
sono
il
mezzo
con
cui
costruiamo,
proteggiamo
e
manteniamo
il
patrimonio
da
cui
dipende
la
nostra
prosperità
presente e futura.
Una
solida strategia
di
investimenti
verdi
si
basa su tre
semplici principi:
-
la
prosperità
consiste
nella
nostra
capacità
di
progredire come
esseri umani
–
adesso
e
in futuro;
-
l’impresa
è l’organizzazione dei
servizi economici
che fornisce le
capacità
di
cui abbiamo bisogno
per
progredire;
-
gli
investimenti
consistono
nell’accantonare
le
entrate
per
mantenere, proteggere
e
migliorare
il
capitale
da
cui
emergerà
la
prosperità
futura.
Gli investimenti
servono
per
costruire
e
mantenere
il
patrimonio
materiale
attraverso
cui
gli
individui
e
le comunità possono
progredire con
il
minimo
flusso di
materiali
possibile. Inutile
dirlo,
nessuno
dei
servizi
da cui
dipende
la
prosperità
può
fare
del
tutto
a
meno
di
un
flusso
di
materia
e di
energia.
La
sanità
richiede
medicinali
ed
equipaggiamenti.
L’istruzione
ha
bisogno
di
libri
e
computer.
Ai
musicisti
servono
gli
strumenti,
ai
giardinieri
gli
attrezzi
e
i
fertilizzanti.
Anche
le
attività
ricreative
più
“lievi”
–
danza,
yoga,
tai-chi,
arti
marziali
–
hanno
bisogno
di uno
spazio
ben
tenuto.
Ancora
più
ovvio,
alle
persone
servono
case,
abiti,
cibo
e
mezzi
di
trasporto.
In
altri termini, persino nell’economia più green e nell’impresa più
dematerializzata rimane comunque un irrinunciabile elemento materiale.
La strategia di investimento nell’(eco)efficienza di materia ed energia
assume dunque un ruolo fondamentale.
Più in generale, possiamo dire che occorre investire per mantenere il
capitale naturale. Foreste, praterie, zone umide, laghi, oceani, i suoli
e l’atmosfera sono essenziali perché forniscono quei servizi da cui
dipende la vita stessa.
Il
valore economico di questi servizi è difficile da calcolare, ma
l’integrità del capitale naturale è centrale per il benessere umano.
Parte degli investimenti green devono essere destinati al
mantenimento e alla protezione di questo patrimonio: questo è uno dei
principi cardine della green economy.
La finanza green
Pochi
economisti avevano previsto che la massiccia espansione del sistema
commerciale basato sull'indebitamento avrebbe potuto destabilizzare l’intero
sistema monetario.
Si
tende a pensare al denaro come a qualcosa di stampato dalle banche centrali
sotto il controllo dei governi. In realtà, solo una piccola frazione (meno
del 5% nelle economie occidentali) del denaro in circolazione è creato in
questo modo. Gran parte del denaro circolante è invece generato dalle banche
commerciali, letteralmente dal nulla: quando una banca accorda un prestito a
un imprenditore o a una famiglia non fa altro che iscriverne l’importo come
prestito nella sezione degli attivi del proprio bilancio e come deposito nel
lato dei passivi del bilancio. Questo deposito può essere così speso per
acquistare beni o servizi. Le banche creano denaro concedendo dei prestiti.
La crisi è stata una conseguenza diretta di questo sistema. Nei
decenni passati, le banche hanno concesso sempre più mutui a persone che
sempre meno potevano saldarli.
Una
dopo l’altra, le banche più vulnerabili si sono trovate con bilanci in cui
le passività superavano di parecchio il patrimonio.
Stabilizzare il sistema finanziario è fondamentale per la green economy.
Dopo la crisi, con un sistema finanziario ancora allo sbando, è ancora più
difficile conseguire la prosperità. Le restrizioni al credito ostacolano gli
investimenti green e danneggiano la qualità delle vite delle persone
e la resilienza delle comunità in cui vivono. In queste condizioni,
riformare il sistema finanziario è una priorità fondamentale per la green
economy. Tre
sono le importanti innovazioni necessarie: l’impact investing,
il reinvestimento dei risparmi privati nella green economy; le banche di
comunità e i crediti cooperativi, cioè l’adozione di sistemi di risparmio e
di veicoli di investimento che restituiscono i benefici alla comunità; la
ridefinizione degli aggregati monetari, che dovrebbero essere sottratti al
controllo degli interessi commerciali e restituiti al settore pubblico o
alle comunità.
è chiaro che la green
economy ha bisogno di un contesto finanziario diverso da quello che ha
portato alla crisi. La sicurezza di lungo periodo deve avere la priorità sui
guadagni immediati. I guadagni sociali ed ecologici devono essere
conteggiati nelle decisioni di investimento assieme ai più convenzionali
guadagni finanziari. È infine di capitale importanza migliorare la capacità
delle persone di investire localmente i propri risparmi, a beneficio delle
loro stesse comunità.
Oltre l'austerity e oltre il PIL
La
turboeconomia del secolo scorso ha creato instabilità finanziaria, ha
accresciuto le diseguaglianze e ha prodotto danni ambientali insostenibili.
L’austerità ha aggravato questi pericoli. Mentre inseguiva la prosperità
attraverso il consumismo, il capitalismo moderno ha posto le basi del
proprio collasso. Niente di tutto ciò è inevitabile.
È
innegabile
che
una buona
vita
abbia
una
dimensione
materiale.
È
assurdo
discutere
se
mancano
cibo e riparo. Ma è altrettanto evidente
che equiparare prosperità e abbondanza
è
sbagliato,
anche
quando
si
tratta
di
questi
beni materiali primari.
Quando
c’è
in
ballo
la
sopravvivenza,
non
sempre
di
più
è
meglio.
La
qualità
è
diversa
dalla
quantità. Di
fatto,
è
chiaro
però
che
la
prosperità
non
è
un
dato
interamente
materiale. Ha
infatti delle dimensioni sociali e psicologiche
fondamentali. Il benessere
ha
a
che
fare
con
la
nostra
capacità
di
dare
e
ricevere
amore, di
godere
del
rispetto
dei
nostri
compagni,
di
contribuire
con
un
lavoro
utile,
di
sentirsi
sicuri
di
fronte
alle
incertezze,
di
provare
un
senso
di appartenenza
e
fiducia
nella
nostra
comunità.
La
componente
importante
della
prosperità
è,
in
poche
parole, la
capacità
di
partecipare
significativamente
alla
vita
della
società.
La
sfida
della green economy è
quella
di creare
le
condizioni
per
far
sì
che
tutto ciò
possa avvenire.
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Presentazione a Roma del Rapporto
Green economy 2012 "Per uscire dalle due crisi"
ll
14 dicembre 2012 presso la sede centrale dell'ENEA è stato presentato il
Rapporto che esplicita i contenuti scientifici che hanno supportato il
cammino degli Stati generali della Green economy. Il Rapporto, edito
in volume dalle Edizioni Ambiente, è distribuito in libreria e se ne può
leggere qualche pagina sul sito dell'editore (> fare click sulla copertina).
è stato preparato da un
team di ricercatori della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e
dell'Enea che ha lavorato in otto gruppi con la stessa organizzazione di cui
si sono dotati gli Stati generali.
Nella presentazione Edo Ronchi ricorda che per scrivere
questo Rapporto è stata attivata una collaborazione con l'Enea che dovrà
continuare. Tra le due crisi, la recessione potrebbe anche essere affrontata
peggiorando le condizioni ambientali e la crisi ambientale ha forti
implicazioni di carattere economico. Queste due crisi vanno affrontate
congiuntamente, altrimenti si aggravano l'un l'altra. La Green economy
è un processo reale, in atto. Va molto al di là dell'economia ecologica che
ha un valore storico ma aveva il limite di privilegiare la protezione
dell'ambiente e la internalizzazione dei costi esterni, quindi non la
ristrutturazione dell'economia né la rimodellazione inclusiva dei rapporti
sociali. La Green economy nel nostro paese è un processo superiore
alla sua rappresentazione politica che non dà un quadro di riferimento
all'altezza della transizione né garantisce la necessaria stabilità dei
percorsi. Recentemente il Governo ha varato la Strategia Energetica
Nazionale, la SEN,che, pur con qualche limite, è sembrata essere un
esempio di politica partecipata ed inclusiva che va sostenuto e riproposto.
La Green economy deve spezzare gli schieramenti politici, non può
essere la bandiera di una sola parte. Deve invece essere una prospettiva
strategica comune e condivisa di dimensione europea. Solo una larga e
consapevole partecipazione delle imprese può garantire questa trasversalità
ed assicurare la stabilità necessaria. ... (>
ascolta l'intervento di presentazione di Edo Ronchi)
Questo Rapporto, dice il Ministro dell'Ambiente Corrado
Clini,deve essere consegnato al futuro governo per l'impostazione di una
nuova politica economica nazionale. I dati che esso esplicita ci consentono
una visione alta su alcune questioni aperte, anzitutto quella della
competitività. Ci sono paesi nel mondo che stanno investendo molto più
di noi nella Green economy. Questo vuol dire più tecnologia, più
impianti e energia più efficiente ed apre un mercato di dimensioni immense.
Vuol anche dire più efficienza burocratica perché nel mondo i tempi
dell'innovazione sono molto più brevi che in Italia. I "numeri" della
Germania sono dovuti alla capacità delle loro imprese di essere presenti in
questo tipo di mercati, a cominciare dal settore dell'auto. Ciò dimostra che
la Green economy piuttosto che una virtù è un affare. Le imprese che
in Italia hanno i conti in attivo sono quelle che sono riuscite a collocarsi
per tempo in questo mercato. Le caratteristiche della Green economy
sono anche le più adatte per il mercato interno perché consentono di avere
efficienza nell'uso dei materiali, che in Italia sono sempre importati, e
quindi di alleggerire i costi di uno dei fattori della produzione
industriale per noi più gravosi. Il discorso è lo stesso per l'energia e i
rifiuti: non abbiamo infatti combustibili fossili né territorio per le
discariche. Un'altra partita aperta per il governo che verrà è la delega
fiscale, una politica, tra quelle che avremmo potuto attuare, la cui
mancata realizzazione più mi dispiace. Era e rimane una misura strutturale
indispensabile per regolare l'uso delle materie prime e dell'energia, senza
la quale rimangono in campo due dei fattori principali che hanno determinato
la crisi e impediscono la crescita nel nostro paese. Il credito d'imposta
è l'altra obbligazione che non abbiamo onorato.
è uno strumento essenziale
per far crescere la produttività, la produzione e il valore aggiunto,
necessario per la Green economy come per qualsiasi altro tipo di
economia. Analogo discorso vale per le regole, la cui semplificazione
è indispensabile. In particolare nelle procedure ambientali i tempi epocali
uccidono lo sviluppo. La sedimentazione delle norme che si sono accumulate
nel tempo è responsabile di questa diseconomia quanto il cattivo uso dei
poteri locali e della magistratura. Ci sono procedure aperte da dieci anni.
Occorrono un chiarimento dei ruoli ed una semplificazione drastica. Se ciò è
infatti negativo per l'economia lo è ancor di più per la protezione
dell'ambiente e per la Green economy, perché lascia aperte partite
decisive. Si rifletta che spesso la causa dei recenti disastri climatici
sono le opere non finite o bloccate da misure incerte e contraddittorie. ...
(>
ascolta l'intervento di Corrado Clini)
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