LE BASI TECNICO
SCIENTIFICHE DELL'ASSESSMENT
DELLA GREEN ECONOMY
a cura
della
OECD
Il
sito degli indicatori OECD della
Green growth
(>
vai al database)
2018
Green economy e green jobs a livello
internazionale
di Toni Federico
2018 ILO
Greening with jobs
WESO World Employment Social Outlook
2017
Lo stato della green economy a livello
internazionale
di Toni Federico
2017 UNEP PAGE
The Green Economy
Progress (GEP)Measurement Framework
Application
(>
scarica il Rapporto)
(>
scarica la presentazione ppt)
The Green Economy Progress (GEP)
Measurement Framework Methodology
(>
scarica il Rapporto)
2017 OECD
Green Growth Indicators 2017
(>
leggi il Rapporto online)
(>
scarica gli Highlights)
(>
explore Key data)
2016 GGEI
The Global Green Economy Index.
Measuring National Performance in the Green Economy
(>
scarica il Rapporto)
2015 University of Wroclaw
Green Economy Indicators
(>
scarica il Rapporto)
2012 - 2014 UNEP
2014. Inclusive
Wealth Report 2014. Measuring progress toward sustainability
2012.
Inclusive
Wealth Report 2012. Measuring progress toward sustainability
2014 Dual Citizen
The Global Green Economy Index. GGEI 2014. Quarta
edizione
2013
Toni Federico
Introduzione all'assessment della green economy
e dei green jobs
2013
GGKP, OECD, UNEP, WORLD BANK
Moving
towards a Common Approach on Green Growth Indicators
(> vai all'approfondimento)
2013
OECD
Private
Sector Initiatives on Measuring and Reporting on Green Growth
2013 UN ILO
International Labour Office
Methodologies for assessing Green Jobs
Green jobs becoming a reality. Progress and outlook
2013
2013 ASSOLOMBARDA, Fondazione Impresa
Indice
di
Green Economy 2013. Chi sale e chi
scende nella classifica regionale della green economy
2012
EPI, Economic
Policy Institute
Counting up to green.
Assessing the green economy and its implicationns for
growth and equity
2012
UNEP
Measuring Progress Towards an inclusive
Green Economy
2012 NORDEN
Measuring green jobs? An evaluation of definitions and
statistics for green activities
2011 EU European
Environment Agency
Europe environment.
An Assessment of Assessments
2011
OECD
Towards green growth – Monitoring progress,
OECD Indicators
2011
OECD
Tools for
Delivering
on Green Growth"
2011
OECD
Framework and Tools for Assessing and
Understanding the Green Economy at the Local Level”
2011
Istituto Battelle
Sizing the clean economy
2010
OECD
A Framework for Assessing Green Growth
Policies
2009
EUROSTAT
The environmental
goods and services sector. A data Handbook
|
2018: La
Green
Economy
nel mondo
Stato e tendenze della
Green economy
e dei
Green job
di
Toni Federico
A dieci anni dal lancio
del Programma da parte dell’UNEP,
le modalità di verifica ed assessment dello sviluppo della Green
economy nel mondo si possono considerare ormai consolidate. Nella serie
dei rapporti annualmente pubblicati dalla Fondazione per lo Sviluppo
sostenibile in vista degli Stati Generali della Green economy
italiana che si tengono ogni anno a novembre
abbiamo dato conto delle metodologie e dei risultati dello sviluppo della
Green economy nel mondo. Qui possiamo assumere, con riferimento alle più
recenti messe a punto tanto della Fondazione
che dell’OECD, che i paradigmi della Green economy in tutte le scale
sono i seguenti:
·
La tutela del
clima e della biosfera;
·
L’energia
rinnovabile e l’economia circolare per le risorse naturali;
·
Un benessere
inclusivo e di migliore qualità per tutti.
Le modalità di
assessment dell’avanzamento di tali paradigmi, secondo l’OECD, che cura
un database aggiornato degli indicatori per i paesi dell’area e per le
maggiori economie emergenti
sono le seguenti:
·
La produttività
delle risorse nell’economia, energia, carbone, materie prime, nutrienti
etc.;
·
Il capitale
naturale;
·
La qualità
della vita e dell’ambiente;
·
Le opportunità
politiche e le risposte, innovazione, mercati, flussi finanziari, regimi
fiscali e incentivi.
Agli occhi di tutti
gli osservatori la prima delle priorità per l’economia e l’ambiente è il
cambiamento climatico con le conseguenze che ha sulla vita delle persone. È
un problema di gravità e di urgenza. Se infatti osserviamo gli studi dello
Stockholm
Resilience Centre,
il superamento dei limiti planetari è già avvenuto per la perdita della
biodiversità e per i flussi biogeochimici di azoto e fosforo, mentre per i
cambiamenti climatici è per ora all’orizzonte vicino che è quello del
riscaldamento medio superficiale terrestre a 2 °C. Ma la gravità degli
effetti climatici è già in campo, eventi estremi, migrazioni etc. e non
lascia spazio per ritardi nelle contromisure. La traccia dell’impegno da
porre in atto con l’orizzonte dell’intero secolo ventunesimo è stata
disegnata dall’Accordo di Parigi del 2015 con il consenso, con eccezioni
irrilevanti, dell’intera umanità rappresentata dai 195 Paesi delle Nazioni
Unite. Per questa ragione in questo rapporto tratteremo per prime le
emergenze sulle emissioni serra e le valutazioni del rischio connesso con i
cambiamenti climatici.
La Green economy,
per mirare all’Accordo di Parigi, deve trasformare le economie verso la
completa decarbonizzazione alla metà del percorso, al 2050. Il terzo e
quarto capitolo sono pertanto dedicati al tradizionale assessment
della Green economy a livello globale, come nelle precedenti edizioni
di questo Rapporto, e allo spinoso problema del finanziamento della
transizione green e dello sviluppo sostenibile.
L’occupazione e i
diritti dei lavoratori si stanno dimostrando il cardine principale della
transizione alla Green economy. L’occupazione è anche lo scoglio sul
quale sono naufragate le teorie neo-ecologiste della decrescita, in un
periodo in cui decrescita e disoccupazione sono state manifestazioni della
crisi del sistema economico globale, proprio quello al quale il movimento
imputa, con qualche ragione, il consumismo esasperato, gli sprechi, il
degrado ambientale e le disuguaglianze. Una questione delicata in fatto di
occupazione è il bilancio tra i new job procurati dalla transizione
alla Green economy e quelli persi con gli
stranded asset.
Una varietà di fattori potrebbe portare ad asset bloccati (stranded),
in particolare nuovi regolamenti governativi come la carbon tax che
limitano l'uso di combustibili fossili, cambiamenti della domanda, in favore
delle energie rinnovabili a causa dei minori costi unitari, o anche
un'azione legale. Un fattore molto discusso in un periodo di occupazione
debole è quello degli effetti dell’automazione e della robotizzazione del
lavoro, sul quale le opinioni sono spesso opposte e i dati non ci sono
ancora.
Dedichiamo l’ultimo
capitolo alle prime stime e alle previsioni della qualità e della crescita
dell’occupazione, ai Green job, utilizzando il lavoro meritorio
fatto, tra gli altri dalla UN ILO, International Labour Organization,
dall’IRENA, International Renewable Energy Agency per il settore
delle energie rinnovabili e da una serie di operatori ed esperti privati.
Non ci sono invece ancora dati affidabili sugli effetti della gestione
sostenibile delle risorse, per le quali la via alla Green economy è
quella dell’economia circolare, se si fa eccezione sui primi dati dei
presunti effetti sull’industria estrattiva e mineraria e sull’abbattimento
degli inquinanti end of pipe.
I rischi
sistemici del cambiamento climatico
La nostra generazione
gode ancora di una disponibilità senza precedenti di risorse tecnologiche,
scientifiche e finanziarie, ma con una distribuzione intragenerazionale,
all’interno della gran parte dei paesi del mondo, del tutto iniqua. Secondo
il World Economic Forum, il WEF, dovremmo usare queste risorse, per
tracciare un percorso verso un futuro migliore, sostenibile, equo ed
inclusivo, equo anche rispetto alle generazioni future. Pur incapace di dare
una spiegazione dell’iniquità distributiva generalizzata e del ruolo della
globalizzazione dei mercati che ne è il quadro, il WEF sta dando una
effettiva ed importante priorità alla dimensione ambientale della crescita.
Secondo il WEF, la nostra è la prima generazione a portare il pianeta
sull'orlo di una rottura sistemica.
Il problema viene
affrontato a Davos da una molteplicità di punti di vista. Tra i più
pregnanti è quello del rischio che, com’è noto è, assieme al rendimento, il
fattore guida per la qualificazione di ogni investimento. Il WEF dà priorità
al rischio come carattere dominante del sistema economico-finanziario dei
nostri giorni, perché esso influenza tutte le sue componenti, senza
eccezioni, fino ormai ad assumere forti contenuti etico-politici. Resta
viceversa ovvio che la perdita associata ad un rischio dipende
fattorialmente dai capitali messi in gioco e dalla disponibilità di capitale
del soggetto impattato, individuo, azienda o istituzione. Con queste
premesse il WEF può a buon diritto assumere l’umanità come soggetto del
rischio, dal momento che esso coinvolge la natura, le persone e i beni
comuni. Si può concordare o meno, ma non sfugge che questa visione ecumenica
richiama la concezione della ricchezza estesa di impronta Stiglitziana che
caratterizza il pensiero moderno sullo sviluppo sostenibile.
L'umanità, si dice,
deve trattare una moltitudine di problemi locali, anche gravi, ma è a
livello globale che deve affrontare un numero crescente di sfide sistemiche,
tra cui rotture e fallimenti che interessano l'ambiente, l’economia, i
sistemi tecnologici e istituzionali su cui poggia il futuro di tutti.
L'umanità è ormai capace di contenere i rischi convenzionali che possono
essere con relativa facilità isolati e gestiti con approcci standard. Non
così quando si tratta di affrontare rischi complessi nei sistemi
interconnessi come le organizzazioni, le economie, la società e l'ambiente.
Quando il rischio scende a cascata attraverso un sistema complesso, ce lo
insegna la System Theory, il pericolo non è il danno marginale ma una
possibile brusca transizione del sistema verso uno stato nuovo e sconosciuto
come, a titolo di esempio, è accaduto per le crisi economiche, ultima quella
del 2008.
Il WEF pubblica nel
2018 la
13° versione del suo Rapporto annuale sul rischio.
La serie storica dei Rapporti consente di monitorare l’evoluzione negli anni
del rischio percepito, quantificato attraverso sondaggi estesi ed autorevoli
nel mondo delle imprese.
Lo stato della Green economy nel modello di
assessment dell'OECD
La metodologia di
valutazione dello stato della Green economy ha ormai raggiunto la sua
maturità, in particolare nell’approccio dell’OECD. Con l’inserimento di
tutti i paesi del G20 e quindi sostanzialmente dei BRICS, Argentina, Cina,
India, Arabia Saudita, Brasile, Indonesia, Federazione Russa e Sud Africa,
l’OECD ha superato i limiti iniziali del suo approccio che faceva
riferimento alla sola platea dei paesi sviluppati dell’area OECD. Il
pletorico numero di indicatori, che indebolisce più o meno tutti i metodi di
assessment, è stato riportato dall’OECD ad un gruppo di indicatori
guida, sintetico ed ancora in evoluzione, che caratterizzano tre tematiche
tra le quattro prospettate. Infine la differenza che per qualche tempo si è
voluta sottolineare tra la Green growth dell’OECD e la Green
economy dell’UNEP, si può considerare superata con l’attenzione
riservata dall’OECD all’ambiente, all’occupazione e alla qualità della vita
e con la convergenza di queste due istituzioni, e di gran parte delle altre
rilevanti, in iniziative unitarie.
È pertanto oggi
possibile dare una valutazione di carattere globale della Green economy,
considerando che i 46 paesi presi in considerazione dall’OECD,
rappresentano gran parte dell’economia mondiale. La maggior parte dei
paesi usa oggi le risorse naturali disponibili e i servizi ambientali in
maniera più efficiente e responsabile, riducendo l’inquinamento e quindi
alcuni dei rischi ambientali a cui le loro popolazioni sono esposte.
Molti paesi hanno stabilizzato l'estrazione di risorse naturali
rinnovabili (legno, pesce, acqua dolce) e stanno adottando pratiche di
gestione più sostenibili. I dati sembrano già dimostrare che i processi
di transizione alla Green economy, ancora a stadi molto diversificati,
sono compatibili con il mantenimento della prosperità economica e con il
benessere delle persone. Diversi paesi sono in prima linea nella
transizione, ma nessun paese è al primo posto su tutti i fronti. Troppo
spesso, i progressi sono stati insufficienti: ne è prova il perdurante
degrado del capitale naturale, su tutte le scale.
I paesi del Nord
Europa hanno ottenuto i migliori risultati complessivi dell’assessment
dell’OECD, valutati come media dei singoli indicatori rappresentati
sulle scale del grafico da zero (peggiore) a 100 (migliore). Questi
paesi sono tra i migliori su parte delle dimensioni valutate, ma nessuno
su tutte. La media viene fatta sulle distanze
dal leader degli indicatori di ciascun paese. Tra le economie non OECD
studiate, Colombia e Costa Rica sono all'avanguardia.
Sostituendo al valore assoluto degli indicatori
la loro variazione rispetto al 2000, calcolando cioè il trend
piuttosto che lo stato raggiunto, ritroviamo in classifica l’Italia
ed altri big europei come la Gran Bretagna soprattutto per l’aumento
della produttività delle risorse, quindi per l’economia circolare (material
productivity) e per l’Italia anche per la fiscalità ambientale.
Nota l’OECD che la variabilità dei dati sulle varie
dimensioni delle performance conferma la scelta di eseguire le valutazioni
usando un numero di indicatori non troppo ristretto. Tuttavia, una
valutazione multidimensionale può essere complessa da interpretare e può
essere utile rapportare gli indicatori tra loro e con indicatori
macroeconomici per noi più familiari. Viene d’aiuto un’analisi della
dipendenza attraverso la correlazione lineare. Le emissioni di carbonio e la
produttività dei materiali sono positivamente correlati a una minore
esposizione all'inquinamento atmosferico da polveri fini (PM2.5). La
produttività multifattoriale (EAMFP) è correlata con un minore consumo di
suolo pro capite e minori disuguaglianza di reddito (indice di Gini). Ciò
indica che la promozione della crescita della produttività può generare
alcuni risultati ambientali e sociali desiderabili. Allo stesso tempo, il
minore consumo di suolo è malauguratamente correlato con una maggiore
esposizione della popolazione al PM2,5. I paesi che si affidano in misura
maggiore alla tassazione ambientale e promuovono l'innovazione attraverso le
tecnologie ambientali sembrano raggiungere livelli più elevati di
produttività carbonica e dei materiali.
Il finanziamento della transizione alla green economy
È
tutt’altro che semplice fornire un quadro degli investimenti e dei
trasferimenti nazionali e tra nazioni che promuovono lo sviluppo globale
della Green economy in un mondo dove le differenze tra paesi in
termini di capitali e di conoscenze sono enormi. Gli investimenti pubblici
sono in qualche modo tracciabili, ma il ruolo dei capitali privati,
probabilmente il più importante, è difficilmente quantificabile.
Le
fonti esogene di finanza pubblica e privata in paesi privi di risorse
proprie soddisfano l’assunto che la cura dell’ambiente globale è meno
costosa e più efficiente se praticata nelle aree svantaggiate che ne possono
trarre beneficio per la loro crescita. Perché non si tratti di spese inutili
le fonti pubbliche e private di finanziamento internazionale devono
contribuire alla cooperazione transfrontaliera, allo scambio di know-how
e di competenze, promuovere l'imprenditorialità locale e rafforzare la
domanda sui mercati.
Ci
sono due principali sfide per i governi locali. In primo luogo, per attirare
con successo i capitali stranieri, le amministrazioni pubbliche devono
migliorare le condizioni del quadro interno in termini di capitale umano e
sociale e perseguire politiche che facilitino le dinamiche del mercato senza
discriminare tra le diverse categorie di investitori. I governi devono in
secondo luogo gestire gli aiuti pubblici per moltiplicare i finanziamenti
privati per
progetti a sostegno della transizione verso la Green economy. La
cattiva governance politica è immediatamente evidente quando la
finanza pubblica scaccia la finanza privata.
Il più
antico degli strumenti per lo sviluppo precede d i oltre vent’anni il Summit
di Rio de Janeiro del 1992 ed è rivolto genericamente allo sviluppo dei
paesi svantaggiati. Le Nazioni Unite nel 1970 stabilirono che si sarebbe
dovuto trattare di un contributo pubblico del 7 permille del PIL dei paesi
donatori, indicati in un’apposita lista. L’obiettivo fu confermato a Rio e
poi a Monterey, Addis Abeba e Rio+20. Si tratta dell’Assistenza ufficiale
allo sviluppo, ODA, monitorata storicamente dall’OECD, che comprende gli
aiuti pubblici allo sviluppo in settori selezionati, protezione ambientale,
energia rinnovabile, acqua e servizi igienico-sanitari, erogati a condizioni
economiche favorevoli. Il finanziamento proviene per il 95% da paesi OECD.
L’Italia, come gli Stati Uniti, non raggiunge nel 2015 che un terzo
dell’obiettivo, segno di un debito enorme verso i paesi poveri che si è
andato accumulando negli anni. La quota ambientale del contributo italiano è
appena del 10%.
Un
filone di finanziamenti bilaterali direttamente connesso con la lotta ai
cambiamenti climatici ha origine a Kyoto nel 1997. Si tratta del
finanziamento dei progetti regolati dal Clean Development Mechanism (CDM),
in cantiere nei paesi non Annesso 1, compensati con crediti di emissione per
le riduzioni certificate delle emissioni (CER). Lo scambio viene espresso in
percentuale di tutti i progetti, per paesi e regioni e compensa gli
investimenti in progetti di energia rinnovabile, da fonti sia private che
pubbliche, presentati da Paesi Annesso 1 per settore e per paese ospitante.
Le
transazioni basate su progetti nell'ambito del CDM sono diminuite fino a
zero dopo il 2013-15, per effetto dell’uscita degli Stati Uniti dal
protocollo di Kyoto e della bassa domanda di certificati proveniente dal
sistema ETS dell'Unione europea e da altri mercati tradizionali per i
crediti di emissione. Nel 2012, il valore dei nuovi progetti di energia
rinnovabile nell'ambito del CDM ha raggiunto il picco massimo di 314 MldUS$
ma, nel 2015, siamo al di sotto di 6 MldUS$.
Nel
2009 a Copenhagen, nelle pieghe di una Conferenza delle Parti sul clima per
altri versi drammatica, fu stabilito che ai paesi più svantaggiati sarebbe
andato un sostegno per la mitigazione e l’adattamento con un importo
crescente che avrebbe dovuto raggiungere i 100 MldUS$ all’anno entro il
2020. A tal fine è stato istituito il Global Climate Fund, GCF,
con l'obiettivo di mobilitare finanziamenti per il clima per sostenere
azioni di mitigazione e adattamento scalabili nei paesi in via di sviluppo.
Il GCF è stato formalmente istituito un anno dopo, nel 2010, alla COP 16 di
Cancùn e può contare su una disponibilità fast start di 30 MldUS$ nei
tre anni 2010 - 2012. Nel 2011 il GCF ha adottato il suo strumento di
governo, al quale ha affidato il compito di promuovere il cambio di
paradigma verso i percorsi di sviluppo a bassa emissione e resilienti ai
cambiamenti climatici fornendo sostegno ai paesi in via di sviluppo per
limitare o ridurre le loro emissioni di gas serra e adattarsi all'impatto
del cambiamento climatico. Il GCF, adottato come parte del meccanismo
finanziario dell'UNFCCC in aggiunta all’esistente Global Environmental
Facility, la GEF,
è stato confermato in questa funzione nell'Accordo di Parigi, ha
trovato la sua sede in Corea del Sud ed ha l'ambizione di incanalare una
parte significativa dei futuri finanziamenti per il clima sia che provengano
dal settore pubblico che da quello privato.
Resta
da valutare il contributo alla Green economy che proviene dal mercato
di capitali privato. Le prime grandi opportunità nel finanziamento
internazionale si sono create nel campo delle energie rinnovabili. I nuovi
flussi di investimento, sia nazionali che internazionali, sono più che
quadruplicati in questo settore dal 2005. Nel 2015, la maggior parte dei
fondi sono stati investiti in progetti legati all'eolico (38%) e al solare
(56%). Globalmente, gli investimenti marginali su base annua nella
generazione di energia da fonti rinnovabili hanno superato gli investimenti
nei combustibili fossili, principalmente a causa dei vantaggi dei costi in
rapido calo delle due tecnologie. L'investimento nella capacità di energia
rinnovabile copre la crescita della domanda globale di energia elettrica nel
2015, pur non essendo ancora coerente con il raggiungimento degli obiettivi
dell'Accordo di Parigi.
Sono
inoltre emerse nuove opportunità per finanziare progetti legati alla
Green economy.
Ci si riferisce in particolare all’aumento del numero di istituti finanziari
che stanno emettendo obbligazioni etichettate green. Questo mercato è
ancora relativamente piccolo rispetto ai mercati obbligazionari globali.
Tuttavia, l'emissione di green bond, che ammontava nel 2015 a circa
42 MldUS$, è più che quintuplicata nel 2017, a 221 MldUS$. Il quadro
previsionale del 2018 secondo la Climate Bond Initiative, CBI,
che opera per il rispetto degli impegni presi per il GCF,
porterebbe a 250 MldUS$ a fine anno.
Non esiste una metodologia
concordata a livello internazionale per classificare i green bond ma
ci sono lodevoli tentativi per definirne gli standard, come quello
dell’International Capital Market Association, ICMA, che distingue i
green bond dai sustainability bond, che vengono emessi anche
per finalità sociali. ICMA definisce i green bond come
“Qualsiasi tipo di obbligazione i cui proventi siano esclusivamente
destinati a progetti di Green economy”. Il problema sta
nell'implementazione e nella verifica della conformità con gli obiettivi
promessi o dichiarati.
L’UNEP
ha dato vita nel 2014 ad un progetto internazionale denominato Inquiry
per far avanzare gli sforzi nazionali e internazionali per spostare gli
ingenti investimenti necessari per offrire una Green economy
inclusiva e attraverso la trasformazione del sistema finanziario globale.
Inquiry ha coinvolto più di venti paesi, tra cui l’Italia,
sui propri processi nazionali e funge da Segreteria per il Gruppo di studio
della finanza green del G20.
Dal suo lancio, Inquiry ha affrontato tre domande fondamentali:
-
in
quali circostanze dovrebbero essere prese misure per garantire che il
sistema finanziario tenga maggiormente conto dello sviluppo sostenibile?
-
quali misure sono state e potrebbero essere applicate più ampiamente per
allineare meglio il sistema finanziario allo sviluppo sostenibile?
-
come possono essere meglio implementate tali misure?
Inquiry
è un progetto di promozione delle politiche di finanziamento dello sviluppo
sostenibile e della Green economy, ed ha preso in considerazione le
politiche finanziarie e monetarie, i regolamenti finanziari e gli standard,
inclusi requisiti di trasparenza, il rating del credito, le
quotazioni e gli indici.
Cambiare il verso degli investimenti spostandoli verso la Green economy
può farsi anche con iniziative come il Fossil fuels divestment,
movimento nato nei campus universitari americani nel 2011 con il fine di
lasciare i combustibili fossili nel sottosuolo (keep it in the ground),
promosso inizialmente dal sito americano 350.org di Bill McKibben ma poi
diffuso ovunque.
La definizione di divestment data dall’OECD in lingua originale è la
seguente: “The action or process of selling off subsidiary business
interests or investments”. Al 2017 si parla di 800 soggetti
istituzionali e privati che hanno disinvestito dai fossili 6000 MldUS$. A
metà 2018 saremmo giunti ad oltre 7900 MldUS$, secondo il sito 350.org.
I green job, la disoccupazione
tendenziale e l'informatizzazione del lavoro
Ci sono
idee contrastanti sul dilemma se la Green economy crea o distrugge
occupazione. Secondo la London School of Economics (LSE) al momento
non è possibile valutare pienamente le conseguenze delle politiche
ambientali per l'occupazione. Prendere in esame i cambiamenti nel mondo del
lavoro nelle industrie core green che forniscono beni e servizi
ambientali (EGS) non può essere soddisfacente. È invece necessario contare i
posti di lavoro creati quando le imprese adottano tecnologie con minore
impatto ambientale e passano a materie prime ed energie meno inquinanti,
indipendentemente dal tipo di merci o servizi prodotti (go green). Ma
la transizione influenza anche i mercati del lavoro indirettamente
attraverso le catene di approvvigionamento e attraverso i cambiamenti nella
domanda complessiva. Va presa in considerazione anche la distruzione di
occupazione brown nelle industrie inquinanti. Sono spesso trascurate
le conseguenze delle politiche green per i mercati del lavoro, che
funzionano sulla base di parametri macroeconomici, come i cambiamenti della
produttività del lavoro e i costi dell’occupazione.
La
creazione di posti di lavoro nuovi è uno dei vantaggi importanti della
Green economy che è volta a favorire la crescita e lo sviluppo economico
assicurando al tempo stesso che la natura possa continuare a fornire le
risorse e i servizi ambientali su cui si basa il nostro benessere. L'UNEP
afferma che la Green economy è un generatore netto di posti di lavoro
decorosi (decent), buoni posti di lavoro che offrono salari adeguati,
condizioni di lavoro sicure, sicurezza del posto di lavoro, ragionevoli
prospettive di carriera e diritti per i lavoratori.
La UN FCCC e l'Organizzazione internazionale del lavoro (UN ILO) sostengono
che l’azione per mitigare i cambiamenti climatici crea occupazione di alta
qualità.
Le
voci dissonanti non mancano. C’è chi ha scritto che le politiche ambientali
potrebbero essere molto meno attraenti per i mercati del lavoro. Altri
criticano quello che definiscono il "mito" dei green job, o dicono
che la Green economy potrebbe essere terribilmente controproducente
per l’economia e per l’occupazione. Altri ancora protestano che la
letteratura dei green job è piena di contraddizioni interne, di
terminologie vaghe, di basi scientifiche dubbie e perfino di ignoranza dei
principi economici fondamentali (LSE).
Al di
là della soluzione di questa controversia resta il fatto che la transizione
alla Green economy è necessaria per ragioni ecologiche ed è comunque
già in atto. La scarsità di prove empiriche e di buoni dati occupazionali
non fa velo al percorso della transizione né alla necessità che abbiamo di
fare al più presto i conti con l’occupazione nei nuovi scenari.
L’energia rinnovabile è parte integrante della Green economy, è
contabilizzata nell’EGSS Eurostat – ONU, ma non assorbe certamente il
conto globale dei green job che vorremmo. Tuttavia l’evoluzione
dell’occupazione in questo settore è un prezioso indice della
transizione go green e ci permette di fare tesoro delle puntuali
rendicontazioni pubblicate ogni anno da IRENA.
Il settore delle
energie rinnovabili, compresa l’energia idroelettrica di grandi
dimensioni, impiega nel 2017 10,3 milioni di persone, direttamente e
indirettamente, con un aumento del 5,3% rispetto all'anno precedente.
Nel corso del 2017 si è verificata la più forte espansione a livello
globale nel settore del solare fotovoltaico (PV) e delle bioenergie.
Diminuisce invece il lavoro per l'energia eolica, il riscaldamento e il
raffreddamento solare, mentre è stabile per le altre tecnologie.
IRENA ritiene che la transizione globale verso un sistema energetico
più sostenibile si svilupperà e che la forza lavoro mondiale
dell'energia rinnovabile continuerà ad espandersi. L'analisi dell’IRENA
suggerisce che i green job nel settore potrebbero salire da
10,3 nel 2017 a 23,6 nel 2030 e 28,8 milioni nel 2050. Il suo
rapporto 2018 comincia a dare qualche dato sull’occupazione generata
dall’energia distribuita off grid, in particolare nei paesi
africani più poveri. Si occupa anche delle quote di genere nel
settore delle rinnovabili che sarebbero del 35% nel 2016. La
questione femminile è particolarmente grave per quanto riguarda gli
usi domestici di energia di pessima qualità per cucina e
riscaldamento che accorciano drammaticamente la vita delle donne.
IRENA, va detto, non si occupa delle perdite occupazionali e di
valore aggiunto che si provocano nell’economia parallelamente alla
transizione dalle energie fossili alla green energy e alla
decarbonizzazione.
Questo tipo di
preoccupazione è ben presente all’International Labour
Organization delle Nazioni Unite, l’ILO, attiva sui green job
fino dal 2007.
Nel 2008 è stato lanciato dall’ILO il Programma Green Jobs.
Lo spazio per questa dimensione sociale della Green economy,
già presente nella proposta dell’UNEP del 2008, si consolida con
l’introduzione da parte dell’UNEP della Green economy
inclusiva che avviene a valle del Summit di Rio+20. L’ILO ha
specializzato nella Green economy il Centro italiano di
Torino dedicato alla formazione fin dalla sua fondazione nel 1964.
Nella valutazione dell’ILO l'effetto netto della transizione sul
numero di posti di lavoro sarà positivo. La transizione verso la
Green economy causerà inevitabilmente perdite di posti di lavoro
in determinati settori come il carbone e i combustibili fossili e le
industrie intensive nell’uso delle risorse saranno ridimensionate,
ma le perdite saranno più che compensate dalle nuove opportunità di
lavoro.
I dati
di assessment dicono che oggi in tutto il mondo tra il 1999 e il
2015, il PIL è cresciuto di quasi l'80%,
i salari reali sono migliorati del 42%,
il lavoro minorile è diminuito dal 16 all’11% nei primi 12 anni del secolo
e la partecipazione femminile alla forza lavoro è aumentata. Nei paesi a
basso reddito, la percentuale di persone occupate che vivono in condizioni
di estrema povertà (meno di 2 $ PPP al giorno) è scesa da oltre il 64 al
38%, dal 41 al 15% in paesi a reddito medio e dal 24 al 3,7% nei paesi a
reddito medio-alto.
Eppure, nonostante questi progressi, la disuguaglianza è aumentata.
La
crisi occupazionale è da molti posta in relazione all'automazione,
all'intelligenza artificiale, ai robot e alle ICT. I robot di oggi sono
macchine informatiche dotate di automazione e di intelligenza le cui
prestazioni per i lavori ripetitivi e di routine potrebbero costare
tendenzialmente meno dello stipendio di un lavoratore. In Giappone si sta
sviluppando un robot antropomorfico per la cura degli anziani. Il mantra
di oggi è di conseguenza diventato che i robot distruggeranno l’occupazione.
La questione è in realtà alquanto più complessa.
Siamo
da tempo nella fase postindustriale in cui la forza lavoro totale, degli
uomini e delle macchine, pur mal distribuita e mal retribuita, è
progressivamente superiore al volume della produzione necessaria di beni e
servizi. I volumi di disoccupazione e sottoccupazione non possono dunque che
crescere creando un divario insopportabile tra i redditi e le condizioni di
vita tra paesi diversi e all’interno dei paesi avanzati.
Secondo il modello economico neo liberista, vincente in occidente fino alla
grave crisi del 2008 – 09, viene retribuito (salariato) solo chi crea valore
aggiunto, in termini marxiani solo il lavoro produttivo, quello capace di
creare plusvalore. Ma il modello salariale neoliberista è in contraddizione
con la enorme quantità di lavoro aggiuntivo necessario per tenere in piedi
la società, come il lavoro di formazione, di cura, delle donne in casa, dei
servizi sociali etc. Questo è solo parzialmente retribuito con la fiscalità
generale, non è marxianamente produttivo ma è altrettanto indispensabile. La
questione è che quel modello considera come unica forma di ricchezza il
capitale finanziario e i beni immobili.
La
lezione dello sviluppo sostenibile ci serve per capire che la ricchezza è
formata da altri tre asset, il capitale umano, il capitale naturale e il
capitale sociale,
ognuno dei quali richiede grandi importi di lavoro qualificato per crescere
e svilupparsi o, per essere difeso come per la natura, il clima e la
biodiversità. È impensabile che questo lavoro non venga retribuito sulla
base della sua necessità e qualità. Non si tratta di riempire delle inutili
buche keynesiane ma piuttosto di apportare ricchezza all’umanità, in una
grande varietà di modi, circostanze e culture. Ne conseguono due
incontrovertibili teoremi: la ricchezza generata va ripartita su tutto il
lavoro necessario ambientalmente e socialmente in modo da garantire redditi
equi a tutti. Non può verificarsi eccedenza di lavoro ma solo la necessità
di retribuirlo e di utilizzarlo meglio per l’ambiente e la società. Quindi i
robot non sono nemici, come non lo sono i migranti, ma aiutano a rendere il
lavoro più agevole e dignitoso e contribuiscono a creare ricchezza, in molti
casi alleviando la fatica e il rischio.
Le
opinioni sul rapporto tra occupazione, automazione ed innovazione sono varie
e il riscontro dei dati statistici è incerto. Alcuni studi prevedono che
oltre la metà dei lavori attuali cambierà significativamente o scomparirà
completamente. Questo è in parte un risultato del cambiamento della natura
delle nuove tecnologie dell'informatica, della meccanica e della biochimica,
dove c'è una vasta gamma di compiti minacciati o sostituibili, di più
rispetto alle precedenti ondate dell’innovazione tecnologica.
> Leggi il Rapporto 2018 per intero
TORNA SU
2017: I parametri della
Green
Economy
in Cina, negli Stati Uniti e in Europa
Lo stato della
Green economy
a livello internazionale
di
Toni Federico
La
green economy è ormai la prospettiva consolidata di tutti i percorsi
della transizione verso la sostenibilità e, in particolare, dell’attuazione
dell’Accordo di Parigi. Poggia su quattro sostanziali cardini:
decarbonizazione dell’energia mediante le energie rinnovabili, risparmio di
materia mediante l’economia circolare, recupero e sviluppo del capitale
naturale (fin qui si estende il dominio della green growth dell’OECD)
e sviluppo del capitale sociale ed umano in forma equa ed inclusiva. Al di
là delle forme espressive gergali, talvolta criptiche, e delle specificità
culturali, nazionali e religiose che si rinvengono nelle ormai numerosissime
letture della transizione, queste proprietà della green economy sono
di patrimonio comune, supportate dalla spinta della governance
mondiale dell’ambiente e dello sviluppo: l’ONU e la WORLD BANK con Rio+20 e
l’Agenda 2030, l’UNEP, levatrice concettuale della green economy,
con una serie di programmi per la difesa del capitale naturale (TEEB, WAVES,
IWR etc), l’OECD con la promozione mondiale della green growth, l’IEA
con gli scenari energetici, ambientali e tecnologici, l’EEA con la
documentazione puntigliosa del comportamento energetico ed ambientale dei
Paesi membri dell’EU e dei relativi progressi. Ci sia consentito di
accomunare a tutti costoro il ruolo determinante svolto dalla Chiesa
cattolica con l’enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco, probabilmente il
primo testo guida per la salvaguardia del pianeta di ispirazione diversa
dall’ambientalismo, di grandissima risonanza, che affida all’uomo il dovere
morale della conservazione della natura.
Nel quadro dei governi nazionali stanno accadendo trasformazioni importanti
nel verso della green economy, nascono nuove leadership, Cina
ed India, si rilanciano le vecchie come quella europea ma, si badi, il
fondamento di tutte le azioni è solidamente ancorato alla convenienza della
trasformazione green, ormai non solo a lungo termine. L’economia
mondiale sta subendo una torsione che ottimisticamente la porterà sulla
strada della decarbonizzazione, delle fonti rinnovabili e dell’economia
circolare. Fa eccezione la nuova politica degli Stati Uniti, in
controtendenza universale. È destinata a durare quattro anni, un soffio
rispetto alle dinamiche in gioco. La grande sfida che la green
economy
deve vincere resta la conservazione del capitale naturale, il cui degrado
continua senza sosta in un pianeta sovraffollato ed affamato di tutto. È l’antropocene
di Paul J. Crutzen, un ingegnere civile premio Nobel per la chimica
nel 2005, la nuova era geologica dagli esiti incerti per la specie umana.
Avanza la green
economy.
I
dati si accumulano ai dati, gli studi vengono pubblicati a getto
continuo. Testimoniano dell’avanzamento universale della green economy,
i cui tempi sono dettati ormai più dalle scadenze della crisi climatica ed
ambientale che dalla dinamica propria dei sistemi economici e sociali.
L’urgenza è tale che istanze come quelle della decarbonizzazione
dell’energia e della circolarità della materia potrebbero trovare la loro
strada anche al di qua della transizione verso lo sviluppo sostenibile che
potrebbe andare a segno in alcune delle sue parti, materia, energia, clima,
capitale naturale, lasciando irrisolte questioni gravi come quelle
dell’equità sociale, dell’inclusività dell’economia, del lavoro, della
povertà ed altre ancora, come suggerisce la concettualizzazione grafica
dell’UNEP, TEEB, 2012. La figura è del 2014 e non registra ancora l'avvenuto
superamento della Cina rispetto all'Europa.
La
lettura dei segni di questa accelerazione green è ubiqua. Nelle parole dei
leader al recente, pur contraddittorio, G7 di Taormina la green economy
è indicata come unica strada per lo sviluppo e il perseguimento dell’Accordo
di Parigi.
La Banca Europea degli investimenti comunica che le emissioni di Green
Bonds, obbligazioni i cui proventi vengono allocati esclusivamente in
investimenti in progetti di green economy, saranno portate a 3 Mld€ a
fine 2019 in un quadro di pronunciata dinamica di mercato quale quello
illustrato nel grafico della J.P. Morgan (emissioni GB in mUS$).
Permane nel mondo uno stato grave di diseguaglianza nell’accesso alle
risorse fondamentali per la vita, in particolare nell’accesso all’energia.
Tale stato si legge in chiaro nei dati comparativi dei consumi pro capite di
energia tra i vari paesi. La transizione energetica in corso, veicolata
dalla green economy e dalla necessità di decarbonizzare le fonti, non
può pertanto tralasciare il compito ancora più arduo di ristabilire un
minimo di equità nella distribuzione di questa fondamentale risorsa. Dal
punto di vista climatico e del contenimento dell’uso delle risorse,
protagoniste della transizione green sono le fonti rinnovabili. Le
tecnologie “leggere” proprie delle rinnovabili e la accessibilità
distribuita alle fonti primarie, possono facilitare il compito della
redistribuzione equa dei consumi, se il quadro mondiale viene reso
compatibile con il trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie
proprie. La capacità mondiale di generazione elettrica rinnovabile, a fronte
di una sostanziale stabilità dell’idroelettrico, è raddoppiata nei primi 15
anni del secolo, con la crescita più alta nel 2015. Ad oggi la potenza
aggiuntiva rinnovabile per anno supera tutte le altre. Tutto avviene in un
quadro nel quale gli investimenti nelle fonti rinnovabili sono in crescita.
Su un totale di 1.800 G$ investito in tutto il settore dell’energia nel
2015, per rinnovabili, efficienza e reti gli investimenti si sono
accresciuti dal 39 al 45% tra 2014 e 2015, in aumento ulteriore nel 2016.
Su
un argomento particolarmente delicato come la questione dei posti di lavoro
generati dalla green economy rispetto a quelli perduti nella brown
economy, fa il punto al 2016 l’Agenzia internazionale per le rinnovabili
che, con riferimento al solo settore dell’energia, celebra il record storico
dei 10 milioni di green job. Le perdite non sono affatto
trascurabili. Solo per il carbone la Cina perde 1,3 milioni di brown job
(MBJ), l’India 0,2 MBJ negli ultimi due anni, gli Stati Uniti 0,12 MBJ, ma
in 30 anni, in Europa la Germania in trent’anni ha perso il 90% dei brown
job. Nel settore petrolio e gas le perdite sono di 0,44 MBJ negli ultimi
due anni. Considerando che le rinnovabili sono ancora una frazione rispetto
alla potenza elettrica globale, il fattore moltiplicativo dell’occupazione
nella green economy è evidente.
Il Rapporto
conclude con l'esame delle tre "potenze ambientali" mondiali.
Europa. Nel nuovo secolo l’Europa ha dovuto fronteggiare tre
profondi cambiamenti: la riduzione delle barriere al commercio
internazionale, al movimento dei capitali finanziari e alla circolazione
dell’informazione; l’inizio della transizione verso una green economy,
necessitata dalla grave crisi climatica e dalla povertà delle fonti
energetiche e, infine, la crisi economica e lo spostamento netto e crescente
del potere economico e dell’industria manifatturiera verso oriente.
Per
fronteggiare la crisi, nel 2010 l’Europa ha varato la strategia di crescita
per il decennio, EU 2020, per diventare un'economia intelligente,
sostenibile e inclusiva, assegnandosi target precisi:
-
Aumentare il tasso di
occupazione al 75%;
-
Rafforzare l'efficienza
energetica del 20%;
-
Aumentare la quota di
energia rinnovabile al 20%;
-
Ridurre le emissioni di
gas a effetto serra del 20% rispetto al 1990;
-
Investire il 3% del PIL in
ricerca e sviluppo;
-
Ridurre il numero di
abbandoni scolastici a meno del 10% e garantire che almeno il 40% dei
trentenni abbiano un'istruzione superiore;
-
Garantire che meno di 20
milioni di persone siano a rischio di povertà o di esclusione sociale.
L’ultimo assessment
reso noto da Eurostat sugli obiettivi EU2020 è riportato nella figura.
Superata la metà del percorso, con l’eccezione delle emissioni serra, tutti
gli obiettivi di EU 2020 sono in ritardo e gli investimenti in R&S e gli
indici di povertà ed inclusione non mostrano alcun trend favorevole.
L’Europa, con la rinnovata
strategia EU 2030, approvata dal Consiglio nell’ottobre del 2014, ha
ritoccato gli obiettivi di efficienza e delle fonti rinnovabili al 30% in
media europea, non vincolanti per i singoli paesi, e ha confermato
l’abbattimento delle emissioni climalteranti al -40%, in obbligo per tutti,
ma l’Accordo di Parigi della fine del 2015 ha messo in evidenza che anche
questi obiettivi sono inadeguati. La Commissione ha proposto a fine 2016 di
portare il target dell’efficienza al 30%.
Cina.
La transizione della Cina alla
green economy ha implicazioni immense per lo sviluppo sostenibile sia
a livello nazionale che mondiale. Eppure le politiche, i concetti e gli
attori della green economy cinese rimangono ancora poco compresi
nell'emergere del discorso internazionale e l’attenzione dei più è
principalmente dedicata alle emissioni serra della Cina e allo sviluppo
delle fonti rinnovabili.
Oggi i leader cinesi
riconoscono che il modello di crescita tradizionale cinese non è
sostenibile né desiderabile per motivi ambientali economici, finanziari,
sociali e locali ed è incompatibile con gli obiettivi climatici globali.
L'inquinamento atmosferico pesa gravemente sulla salute dei cittadini e
sulla sanità pubblica: l'inquinamento da PM2,5 si stima abbia causato
1,6 milioni di morti premature all'anno, 4.000 morti al giorno, con un
peso economico superiore al 10% del PIL. L’OECD stima 640 morti all’anno
per milione di abitanti per il particolato e l’ozono.
Intorno al 2012-13, la
nuova generazione di leader politici cinesi ha compreso la necessità di
cambiamenti strutturali fondamentali e di una riforma politica in favore
di “una nuova normalità”, definizione attribuita al Presidente Xi
Jinping, per rendere lo sviluppo più sostenibile e socialmente equo ed
accettabile. Tra la fine del 2013 e il 2015, i contorni di questo
progetto sono stati articolati con forza e chiarezza crescenti ai
massimi livelli del governo. Riduzione delle disuguaglianze, servizi,
innovazione industriale e sostenibilità ambientale sono i cardini della
nuova normalità. Terziario e innovazione cambieranno la struttura
dell'industria cinese e degli investimenti. Nel 2013 sono stati
introdotti diversi piani e politiche tra cui il Piano nazionale sul
cambiamento climatico, il Piano d'azione strategico per lo sviluppo
dell'energia e il Piano per la prevenzione e il controllo
dell'inquinamento atmosferico.
La natura, la scala e il
ritmo delle trasformazioni in corso possono cominciare ad essere
registrati dalle più recenti analisi dei dati relativi al consumo e
all'approvvigionamento energetico e delle dinamiche sottostanti. La
partita della green economy si gioca in Cina essenzialmente su
clima, energia e ammodernamento del sistema della produzione e consumo.
La crescita del PIL in Cina è scesa da una media del 10,5% nel periodo
2000-2010, al 7-8% nel periodo 2012-2014 e al di sotto del 6,9% nei
primi tre trimestri del 2015, seguita da un ulteriore rallentamento.
L’effetto è dovuto ad una economia che si sta allontanando dal vecchio
modello verso un maggiore consumo interno e verso i servizi. Il target
del 13° Piano quinquennale è stato fissato al 6,5% all'anno e gli
esperti prevedono che possa diminuire ancora dopo il 2020.
Il
consumo totale di energia primaria della Cina (PEC) è cresciuto a un
tasso di oltre l'8% all'anno tra il 2000-2013. Nella transizione in
corso la crescita del PEC ha rallentato nel 2014, crescendo solo del
2,2% rispetto al 2013 e ancora a meno dell'1% nei primi tre trimestri
del 2015. Tra il 2010 e il 2015 la capacità di generazione di energia
elettrica non fossile è passata da 256,7 a 500 GW, contro i 220 degli
U.S., con un incremento del 95%. Solo nel 2014, la Cina ha aggiunto
circa 22 GW di capacità idroelettrica, più di 5 GW di nucleare, 21 GW di
eolico e 11 GW di energia solare, per lo più fotovoltaica. Entro la fine
del 2014 la quota non fossile della Cina del PEC totale è stata del
11,2%. La produzione di energia elettrica fotovoltaica è aumentata
dell’80% nel primo trimestre del 2017, salendo di 21,4 TWh in un anno
nel quale la Cina ha aggiunto 7,21 GW di energia solare portando la sua
capacità totale a quasi 85 GW. La Cina ha consumato circa 2,3 TWh di
energia solare nel primo trimestre, +1,9 TWh in un anno. Nel 2015
la Cina ha investito 111 Mld US$ nelle energie rinnovabili ed è al primo
posto rispetto agli Stati Uniti con 44, il Giappone con 36 e la Gran
Bretagna con 22.
Con 3.64 milioni di
posti di lavoro nell’energia rinnovabile nel 2016, la Cina è il
primo paese del mondo. Il mercato del lavoro è cresciuto del 3,4%
nel 2016, principalmente nel fotovoltaico (PV). L’occupazione è
invece diminuita nelle bioenergie, nel riscaldamento solare, nel
raffreddamento e nel mini idroelettrico. 1,96 milioni sono i posti
di lavoro nel PV: 1,3 in produzione; 635.000 in costruzione e
installazione e 26.000 in impiantistica. L'occupazione nell’eolico è
salita leggermente fino a 509.000 unità nel 2016, pur se le nuove
installazioni sono diminuite. All'inizio del 2017, la NEA ha
annunciato piani di investimento per 360 Mld US$ nelle rinnovabili
entro il 2020, di cui 144 Mld per il solare, 100 Mld per l’eolico e
70 Mld per l'energia idroelettrica. La previsione NEA è per più di
13 milioni di posti di lavoro creati dal 2016 al 2020, 2,6 milioni
ogni anno, al netto degli investimenti cinesi all'estero che nel
2016 sono aumentati del 60%, fino a 32 Mld US$.
Per i fossili il
consumo di gas è cresciuto a un tasso del 14% annuo dal 2010 al
2014. Il consumo di carbone nell'industria, la metà del consumo
totale di carbone in Cina, sembra invece diminuire per effetto della
caduta dell'acciaio e del cemento e comunque per effetto
dell’innovazione che si sta tentando anche in questi settori brown.
Nel 2013, in base al piano di prevenzione e controllo
dell'inquinamento atmosferico, il governo ha imposto limiti al
carbone in nove province e città che insieme rappresentano il 30%
del consumo di carbone in Cina. Gli effetti combinati di tutte le
misure di cui sopra, nel contesto di una crescita della PEC
notevolmente più lenta, hanno fatto sì che già nel 2014 non si
registrava alcuna crescita del consumo di elettricità da carbone e
che il consumo di carbone è diminuito del 3,7% nel 2015 dopo una
discesa del 2,9% nel 2014 ed una crescita superiore all'8% all'anno
nei 13 anni precedenti. Il cambiamento rapido si riflette anche nei
dati relativi alla produzione di carbone e all'importazione nel
2014, con una produzione che scende del 2,5% e le importazioni del
10,9%. Nei primi tre trimestri del 2015, la produzione cala del
4,3%, le importazioni del 30% e il consumo si stima essere diminuito
del 5%.
Prevedere come la
vicenda economica ed industriale cinese si sarebbe tradotta nel
volume delle emissioni di gas serra è sempre stato difficile. Nel
2000 l’IEA (WEO) dava le emissioni cinesi nel 2020 al 18% e due anni
dopo affermava che sarebbero rimaste ben al di sotto di quelle
americane. Solo nel 2007 l’IEA ammetteva il sorpasso, ormai
avvenuto. Nel 2015 la Cina è al 29% delle emissioni globali, con la
CO2 ad oltre 10 Gt/anno. Anche l’affermazione che l’intensità
carbonica pro capite cinese sarebbe rimasta al di sotto dei valori
occidentali si è dimostrata fallace (vedi figura). Un punto fermo è
stato fatto dal Governo cinese presentando il 30 giugno 2015 il suo
INDC alla Convenzione climatica in vista della COP 21, dopo aver
concordato con gli Stati Uniti di Obama un patto di reciproco
impegno per la lotta ai cambiamenti climatici. Il documento
stabilisce che il picco delle emissioni di CO2 ci sarà prima del
2030, anno nel quale l’intensità carbonica del Pil sarà del 60-65%
al di sotto del 2005. La quota delle energie fossili in energia
primaria salirà al 20% nel 2030. Lo stock forestale a quella data
sarà aumentato di 4,5 Mld di m3 rispetto al 2005.
Stati Uniti.
All’inizio di giugno
di quest’anno a valle del G7 di Taormina, il neo presidente Trump
annuncia l’intenzione di ritirare il suo paese dall’Accordo di
Parigi. Forte la risposta dei corpi sociali intermedi in tutti gli
Stati Uniti, a partire dalle amministrazioni locali, dalla ricerca
scientifica, dalle associazioni, a finire ai suoi consiglieri e alla
sua stessa famiglia. Quasi il 40% delle emissioni di CO2
degli Stati Uniti sono nelle mani degli Stati che si sono impegnati
a rispettare la loro quota di obiettivo dell'Accordo di Parigi o che
hanno stabilito loro propri ambiziosi obiettivi di riduzione delle
emissioni a lungo termine. Questi stati rappresentano il 30% delle
emissioni del settore elettrico statunitense, il 47% delle emissioni
del settore dei trasporti e il 38% delle emissioni da edifici e
fabbriche. Se hanno la volontà politica, gli stati dispongono di
tutti gli strumenti necessario per ridurre le emissioni tanto da
raggiungere nel 2025 il target del 26-28% al di sotto dei livelli
del 2005 cui gli Stati Uniti si sono impegnati con il loro NDC
nell'ambito dell'Accordo di Parigi. Nel giugno 2017 la Conferenza
dei Sindaci degli Stati Uniti, che rappresenta 1408 sindaci sia
repubblicani che democratici di città superiori ai 30.000 abitanti
in tutta la nazione, ha adottato una serie di risoluzioni che sono
molto più avanzate della politica federale sul clima, tra cui un
impegno a sostenere l’obiettivo del 100% di energie rinnovabili
entro il 2035. Da un calcolo del Sierra Club il target equivarrebbe
ad un abbattimento di 619 Mt/anno di CO2, pari alle emissioni di 180
centrali a carbone.
Un discorso analitico
sulla green economy negli Stati Uniti non può ignorare la
svolta che la Presidenza Trump sta imponendo alla politica pubblica
in difesa dell’ambiente. I primi dati parlano di un’estrazione di
carbone aumentata del 19% nei primi cinque mesi del 2017 (US DOE).
La green economy in Nord America è effettivamente ad un
crocevia critico tra l’entrare decisamente nella fase di transizione
“go green” con l'innovazione, le rinnovabili e l’economia
circolare oppure ripiegare su modelli di crescita obsoleti nei quali
i settori “core green” restano marginali.
L’analisi dei dati
nazionali più recenti degli Stati Uniti mette in luce il ritardo
in gran parte dei target green ma anche una tendenza
positiva capace di attraversare la cris. Le emissioni di gas
serra raggiungono il picco nel 2007 anno dal quale inizia una
discesa media annua dell’1,3% con un massimo di -6,2% nel 2009 e
-2,3% nel 2015. Le emissioni di GHG pro capite restano tra le
più alte al mondo, inferiori solo a quelle dei paesi del golfo,
ma scendono a 21,55 t/persona*anno nel 2014 rispetto al 1990
(-16%), rispetto alle 11,11 t dell’Europa. L’intensità carbonica
del PIL, nello stesso periodo, si riduce da 0,71 a 0,43 g/$, con
una discesa del 40%, laddove, contemporaneamente, l’Europa ha
avuto una discesa del 42% arrivando a 0,25 g/$.
Si
registra
una forte
espansione delle energie rinnovabili. Nel 2015 gli Stati
Uniti hanno installato 8,6 GW di eolico e 7,4 GW di solare,
superando le nuove installazioni a gas naturale con potenza
pari a 6 GW. Le fonti rinnovabili raggiungono il 13,7% della
potenza totale rispetto al 13,4% del 2014, nonostante una
caduta del 3,2% della produzione idroelettrica. Con 3,6 GW
gli Stati Uniti sono al primo posto nel mondo nel
geotermico. I dati EIA del primo trimestre 2017 certificano
una copertura delle rinnovabili al 19,35% in termini di
potenza elettrica erogata con 8,67 idro, 7,10 eolico, 1,64
biomasse, 1,47 solare e 0,47% geotermico. A marzo ed aprile
2017 solare ed eolico hanno superato per la prima volta
nella serie storica il 10% della domanda elettrica. Le
energie rinnovabili contribuiscono per il 13% circa al
fabbisogno termico civile e, in gran parte, industriale. Le
biomasse contribuiscono al 17% dell’energia termica
industriale. Nel complesso la crescita del rinnovabile
termico è limitata nel 2015 allo 0,6% per effetto della
domanda industriale diminuita e dei bassi costi del
petrolio. Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga il maggior
produttore di biocombustibili a livello mondiale con oltre
62 miliardi di litri nel 2015, +2% rispetto al 2014, il
doppio del Brasile, quattro volte l’Europa e quasi la metà
della produzione mondiale. I green job nelle energie
rinnovabili nel 2015 sono 769.000, meno del Brasile, contro
i 3.523.000 della Cina e gli 8.052.000 globali.
Procedendo nell’esame delle variabili della green
economy, definite dall’OECD e dalle altre
istituzioni internazionali rilevanti, osserviamo che
l'esposizione della popolazione all'inquinamento
atmosferico da particelle fini è in diminuzione
costante da diversi decenni. Tale miglioramento si
conferma anche nei periodi di crescita economica più
forte, sebbene la concentrazione resti ancora al di
sopra dei livelli dell'obiettivo dell'OMS a lungo
termine, pari a 10 μg/m³. L'inquinamento a Los
Angeles, ad esempio, è probabilmente associato
all’industria e all'ambiente urbano, ma anche al
territorio circostante, come la Central Valley i cui
elevati livelli di inquinamento sono di origine
prevalentemente agricola. Altrettanto pronunciata è
la concentrazione di altri inquinanti dell’aria che
si presentano in disaccoppiamento assoluto rispetto
al PIL.
La
produzione di rifiuti urbani, seppur diminuita
su base pro capite, rimane superiore a quella
dell'OECD, anche se risulta un po’ migliore in
termini di intensità rispetto al PIL. I tassi di
riciclo sono simili, ma al di sotto dei migliori
Paesi OECD, anche se non molto diversi dalla
media. Per i rifiuti non riciclati, la quota
trattata attraverso l'incenerimento è ben al di
sotto della media. poiché la bassa densità
complessiva della popolazione spesso rende la
discarica l'opzione preferita.
Il
gettito delle tasse legate all'ambiente è molto
inferiore rispetto agli altri Paesi, in gran
parte a causa della tassazione minore dei
consumi energetici. Il prelievo fiscale medio
sui carburanti è compreso tra il 10 e il 20% del
livello equivalente in Europa. Il gasolio è
tassato di più della benzina negli Stati Uniti,
una scelta più in linea con le esternalità
negative generate rispetto alla maggior parte
degli altri paesi OECD.
Gli Stati Uniti sono il paese simbolo delle
diseguaglianze e dell’esclusione. Disparità di
benessere e di diritti permangono in ogni angolo
del paese e, dai dati, nemmeno l’amministrazione
Obama sembra essere stata in grado di correggere
questo triste primato. Il reddito mediano
disponibile per le famiglie è peggiorato negli
ultimi dieci anni. Il benessere della famiglia
media nordamericana è alto a fronte delle medie
OECD, in particolare per quanto riguarda i
redditi, il patrimonio e la salute, con la
parziale eccezione dei giudizi che ognuno dà
della propria vita e del proprio lavoro. Ma,
dietro le medie, si affacciano gravi
diseguaglianze sugli stessi parametri e, da dati
recenti, perfino nel benessere dei bambini e
nelle loro condizioni di salute.
>
Leggi
l'intero Rapporto 2017
TORNA SU
2016:
UNEP: il
Green Economy Progress measurement framework
è in corso da parte dell'UNEP
un nuovo progetto di sviluppo di un quadro analitico per l'assessment
della green economy. Sono già stati prodotti, ma per ora non
pubblicati, due quaderni di lavoro nel 2015 e nel 2016 che sviluppano
progressivamente il metodo e lo applicano, nel 2016, ad un campione di
ottanta paesi tra cui l'Italia (UNEP PAGE, The
Green Economy Progress measurement framework).
Il lavoro in progress contiene ancora alcune imperfezioni, ma il
metodo proposto è originale e, soprattutto, applica i nuovi concetti
adottati dal negoziato internazionale sull'ambiente, e dall'accordo di
Parigi, che pongono al centro le specificità nazionali secondo una procedura
bottom-up piuttosto che con la più tradizionale visione degli
indicatori eguali per tutti (one size fits all). In questo modo si
pone il problema della difficoltà del confronto tra paesi con storie e
livelli di sviluppo differenti, ma la proposta UNEP è resa ancora più
interessante da un metodo analitico che viene proposto per il confronto tra
due paesi.
Il
metodo prende le mosse dal concetto Green economy inclusiva su cui l'UNEP
lavora da anni e che si trova documentata nei siti web dell'UNEP e, nelle
nostre pagine, nelle colonne della documentazione a sinistra. L'ambizione è
quella di sviluppare un indice unico, applicabile universalmente,
confrontabile ed affidabile, e di applicarlo a tutti i Paesi ONU. Viene
adottata una serie di algoritmi che tengono conto della evoluzione dinamica
di una serie di indicatori dotati di target e soglie, cioè di limiti massimi
e minimi, che consentono la normalizzazione dell'indice unico ed al contempo
il confronto tra Paesi. all'indice unico viene dato il nome di
Green Economy Performance, GEP i cui obiettivi generali sono
riassunti nella figura.
Il progetto
pone un forte accento sul ruolo degli investimenti e delle politiche
abilitanti per raggiungere gli obiettivi della transizione green e
low-carbon. Il sistema economico viene valutato dal punto di vista della
produzione, l'offerta aggregata, e del consumo, la domanda aggregata. Dal
lato dell'offerta aggregata, si tiene conto della ricchezza estesa
(finanziaria, manufatti, capitale naturale, umano e sociale) per la
produzione di beni e servizi green. I concetti di ricchezza estesa,
riferibili tra gli altri al Rapporto Stiglitz, sono documentati negli
Inclusive Wealth Report, referenziati qui a sinistra nella colonna
delle basi tecnico-scientifiche. Dal lato della domanda aggregata viene
incoraggiata l'adozione di politiche che facilitano l’uso di questi beni e
servizi attraverso il consumo sostenibile, gli investimenti, la spesa
pubblica e il commercio.
Di grande interesse
è
la scelta dell’UNEP di introdurre a fondo nel progetto di assessment
dell'economia green la dimensione della sostenibilità, che non è
ovviamente assicurata da una transizione che interessi la sola dimensione
economica. L'UNEP osserva che la transizione aggregata deve
rispettare le planetary boundaries (Rockstrom et al.; 2009) per
assicurarne la sostenibilità ambientale. In questo quadro la green
economy non vede i confini planetari come limiti, ma come guide per il
nuovo tipo di sviluppo, opportunità di innovazione che contribuiscono ad una
crescita “sostenuta, inclusiva e sostenibile”, e quindi di occupazione
piena e produttiva e di un lavoro di qualità per tutti.
La GEP, viene pertanto valutata dall’UNEP combinando in maniera originale
una struttura estesa ed aggregata di indicatori economico-sociali
domanda-offerta con il concetto di confini planetari. La transizione
green è multidimensionale (è cioè il risultato integrato sulle
dimensioni economiche, sociali e ambientali) e deve essere valutata in una
prospettiva di lungo periodo. La
green economy
comporta il disaccoppiamento della crescita economica dall'uso delle risorse
e dall'impatto ambientale. In secondo luogo, i progressi della green
economy sono tali se e solo se i miglioramenti del benessere umano sono
sostenibili, cioè se il percorso dello sviluppo futuro rimane entro i
confini planetari.
L'indice della GEP ha lo scopo di misurare i progressi della transizione e
si basa su tre idee:
1. Identificare i parametri chiave dell’IGE, ciascun0 dei quali può
essere rappresentato da una o più variabili;
2. Considerare lo stato di avanzamento, cioè i cambiamenti, piuttosto
che i livelli;
3. Misurare i progressi relativi ad un doppio standard: obiettivi e
soglie. Gli obiettivi traguardano i cambiamenti desiderati, mentre le
soglie definiscono i livelli critici minimi delle variabili.
L'indice GEP valuta la evoluzione delle componenti green in un
processo economico, piuttosto che la crescita sostenibile o lo sviluppo
umano. Questa scelta comporta alcune scelte radicali, in particolare mettere
da parte il PIL come variabile di riferimento, sostituendolo con indicatori
come il green trade o l’eco-innovazione. Due ragioni spiegano perché
questo approccio si basa su misure quantitative dirette piuttosto che su
valori di mercato. In primo luogo, utilizzare i prezzi di mercato per
valutare gli elementi da prendere in considerazione non è adeguato perché i
prezzi di mercato riflettono le dinamiche della domanda e dell'offerta, che
sono chiaramente dominate dai paesi sviluppati e da quelli emergenti di
grandi dimensioni. In secondo luogo, la maggior parte delle variabili
relative alla green economy si riferiscono a beni e servizi per i
quali non ci sono mercati consolidati.
Su queste basi il quadro di valutazione è stato costruito mediante un indice
di progresso in economia e un dashboard di indicatori di
sostenibilità ambientale. Per decidere quali indicatori includere
nell'indice GEP, il primo criterio di selezione è quello di individuare gli
indicatori che sono in grado di catturare i risultati delle politiche in
molteplici dimensioni, ed anche la segnalazione delle azioni attraverso le
quali i responsabili politici possono rendere più green e più
inclusive le loro economie. Il secondo criterio di selezione è la copertura
dei dati. Per essere utili gli indicatori devono essere adeguati in termini
di Paesi e di periodo (almeno 80 paesi con le osservazioni per almeno due
anni). I due anni considerati nel prototipo dell'indice GEP sono 2000 e
2015.
Seguendo questo approccio il primo prototipo
dell'indice GEP comprende 11 indicatori che misurano i risultati delle
politiche e degli investimenti sulla nuova offerta aggregata (AS) e la
domanda aggregata (AD). Un valore positivo dell'indice GEP indica progresso,
mentre è vero il contrario per un valore negativo. Un algoritmo di
combinazione consente di calcolare l’indice generale a partire dai dati
singoli restringendolo nel campo di variabilità convenzionale ±100% (± 1).
Il dashboard è stato viceversa progettato per controllare se la
transizione è sostenibile. In altre parole, i progressi nel miglioramento
del benessere corrente non devono andare a scapito del benessere futuro. Il
progresso può essere raggiunto, ma non al di là dei confini planetari. Il
campione degli indicatori del dashboard è limitato per ora (2016) ad
89 paesi. Per decidere se un paese si sta sviluppando in modo sostenibile,
si stabiliscono le soglie per ogni indicatore, determinate sulla base delle
conoscenze scientifiche condivise a livello internazionale. La soglia per le
emissioni GHG dalle proiezioni IPCC è di 450 ppm CO2eq
al fine di limitare il riscaldamento globale medio a 2 °C a fine secolo. L’UNEP
assume questo valore tendenziale come limite individuale per le emissioni
GHG pro capite.
Il quadro dei confini planetari individua nove aree di importanza cruciale
per mantenere la sostenibilità della vita sul pianeta.
Per sette di queste, è stato possibile
quantificare una soglia, individuando variabili di controllo e impostare dei
valori limite specifici. I confini planetari per l'azoto, l’acqua dolce e
l’uso del suolo sono stati fissati ad una "distanza di sicurezza" dalla
soglia stimata alla luce del principio di precauzione, utilizzando le
migliori stime disponibili. La soglia dell’impronta ecologica si basa sulla
capacità biologica della Terra, misurata come quantità di terra
biologicamente produttiva e acqua disponibile per persona. Il criterio di
sostenibilità per l'IWI - Inclusive Wealth Index - è che non mostri
una variazione negativa (le risorse umane e naturali, non devono degradare)
e per l’Adjusted Net Saving il criterio è la non negatività
dell’indice, cioè che gli investimenti (savings), che sono i flussi
di risorse entranti ed uscenti dagli stock dei capitali finanziario,
naturale ed umano non siano negativi.
Data la disponibilità di dati, l’UNEP ha potuto
costruire il valore dell'indice GEP per 89 paesi nel 2010 rispetto al 2000.
I risultati indicano che, in media, ci sono stati moderati progressi nella
green economy a partire dagli anni 2000: il valore dell'indice medio
GEP degli 89 paesi è 0,0478. Un totale di 54 su 89 paesi (61%) ha un indice
di GEP positivo. I risultati peggiori sono quelli dei paesi con indice di
sviluppo umano (UNDP HDI) medio alto.
Il Comitato Scientifico della Fondazione ha sviluppato uno studio per la
lettura delle peculiarità sistemistiche ed analitiche del framework
dell'UNEP introducendo alcuni elementi di chiarimento su taluni dei passaggi
più complessi del progetto (>
leggi il rapporto sulle basi analitiche dell'indice UNEP-GEP).
2016:
Il
Green
Economy Reporting
della Fondazione per lo sviluppo sostenibile
La green economy è un concetto
pervasivo che fa riferimento all'intero assetto dell'economia. Abbiamo
ripetutamente mostrato che la green economy è l'economia dello
sviluppo sostenibile, dal quale deriva tutti i principi e le finalità. Tutti
gli obiettivi e i target definiti nelle sedi internazionali di
negoziazione dello sviluppo sostenibile, in particolare quelli relativi alla
lotta alla fame e alla povertà, all'equità ed al clima, sono immediatamente
acquisiti dal programma della green economy. Recentemente la 70°
Assemblea Generale dell'ONU ha ridefinito gli obiettivi dello sviluppo
sostenibile che sono i 17 SDG, con i 169 target associati. Presto
l'Agenzia statistica specializzata, costituita dall'ONU per elaborare gli
indicatori degli SDG in collaborazione con tutte le istituzioni statistiche
nazionali, produrrà la lista degli indicatori di base per gli SDG, che
diventeranno i portatori generali dei dati di base per l'assessment
dello sviluppo sostenibile su tutte le scale.
Gli SDG e l'Agenda 2030 per lo
sviluppo (>
vai alla pagina dedicata) costituiscono un deciso salto in
avanti della governance dello sviluppo sostenibile a livello
mondiale, così come fu programmato a Rio+20 nel 2012. L'Agenda 2030
assicura a tutti i governi del mondo gli strumenti di controllo della
qualità dello sviluppo e quindi anche della green economy. Sappiamo
dunque di poter disporre di tutti gli strumenti necessari per un
assessment della green economy di tipo top-down, capace di
valutare in che misura una regione, un paese o una comunità hanno delle
performance corrispondenti alle definizioni di green economy. In effetti,
gran parte degli sforzi finora fatti nel mondo - UNEP, OECD, EU etc. - sono
indirizzati ad un approccio valutativo di tipo top-down.
è però altrettanto indispensabile un approccio opposto, bottom-up.
Posto infatti che sia valutabile la transizione green ad un qualsiasi
livello aggregato, essa corrisponderà ad un comportamento medio degli
operatori economici, imprese, servizi etc. entro un determinato perimetro.
Ma qual è il comportamento del singolo operatore, in che modo è possibile
valutare a che punto della transizione green si colloca un'impresa o
un'associazione o un altro soggetto? Questo tipo di visione è
particolarmente importante per la Fondazione che, con gli Stati Generali
della green economy, fa riferimento diretto alle imprese e alle loro
associazioni, come documentato nei Rapporti annuali sulla green economy
(>
vai alla pagina che documenta i Rapporti). La Fondazione
distingue tra gli operatori del settore EGS, per definizione green
sulla base del prodotto, e i brown - petrolio, carbone, nucleare,
armi etc. - che sono insostenibili sulla stessa base. Ma il percorso della
green economy non è tracciato né dagli uni né dagli altri. Il settore
EGS è in espansione, ma è limitato e tale resterà. Inoltre non è sempre vero
che un'azienda che fa prodotti green rispetti tutti gli altri
standard dell'economia green. Il settore brown è in
contrazione, ma non scomparirà. Pertanto la transizione green è
affidata alla maggioranza degli operatori che sono in cammino, go(ing)
green che stanno progressivamente modificando i loro assetti societari e
produttivi, acquisendo man mano i criteri guida della green economy.
Valutare il settore
go-green è dunque vitale per ogni assessment della green
economy. la valutazione parte qui dalla singola azienda o dal singolo
operatore tenendo nel dovuto conto tutta la rete della catena del valore e
dei rapporti sociali.
La valutazione della performance
di una singola azienda è il terreno sul quale si sono sviluppati molti
strumenti. Le certificazioni ambientali - EMAS, ISO -, i rapporti di
sostenibilità e i Corporate Social Report - il Global Compact
dell'ONU, la GRI, Global Reporting Initiative, etc.
Le certificazioni ambientali
mirano a migliorare sistematicamente le prestazioni ambientali di un'azienda
dotandola di un Sistema di Gestione Ambientale, SGA, che assicura il
miglioramento continuo della prestazione e l'adozione delle Best
Available Technologies, BAT, per l'innovazione ambientale
dei processi e dei prodotti. Possono essere attribuite da soggetti terzi (EMAS)
o autocertificate (ISO) con il ricorso a figure professionali specializzate.
Altri strumenti, come l'Autorizzazione Integrata Ambientale, AIA, sono
gestiti a livello di governo per assicurare che un determinato impianto
rispetti le norme obbligatorie per l'inquinamento e l'impatto ambientale,
anche qui con l'adozione delle BAT per rientrare nei limiti di legge. Il
limite di questi strumenti non è tanto l'adesione volontaria delle imprese,
o il fatto che si richieda soltanto il rispetto degli standard minimi di
legge e il rispetto dei regolamenti ambientali, quanto il fatto che essi
mirano solo agli aspetti ambientali della performance, per i quali
non vengono oltretutto dati obiettivi o target di sostenibilità, e
non ad una visione integrata del ruolo sociale dell'impresa certificata.
Il concetto della Corporate Social
Responsibility, CSR, fu introdotto nel 1984 da Robert Edward Freeman nel
suo saggio "Strategic Management: a Stakeholder Approach".
è un concetto ampio, ormai
storico, dai contenuti semantici solo parzialmente determinati, che si è
andato affermando per l'effetto combinato dell'accresciuta sensibilità
sociale degli imprenditori e dell'azione di alcune benemerite associazioni -
il
WBCSD, il
BSR, lo
IBLF e molti altri. La CSR mette al
suo centro effettivamente lo sviluppo sostenibile, inteso come una visione
del mondo a cui gli imprenditori accedono liberamente sulla base di una
visione dello sviluppo e degli interessi aziendali più a lungo termine, ma
anche di un'etica diversa e migliore del "business for business is
business" di Milton Friedman e della Scuola di Chicago. La
responsabilità resta ovviamente un motu proprio degli
imprenditori e delle aziende, che mal si presta a regolamentazioni normative
rigorose imposte dall'esterno. Ciò spiega perché gli strumenti di
assessment tipici della CSR siano i Rapporti di sostenibilità, volontari
e soprattutto autoprodotti, nella forma e nella sostanza. Le linee guida
dell'ONU, del GRI ed altre ancora, sono state spesso adottate, ma solo su
base volontaria e perché sono state tenute a maglie opportunamente larghe
dagli stressi promotori. Le obiezioni sono conseguentemente anche troppo
facili. Al di là della soggettività che non è necessariamente un approccio
negativo, resta il fatto che non sempre questi tipi di assessment
della sostenibilità di impresa vanno al di là dell'autopromozione green
e che talvolta si prestano a travisamenti intenzionali. Poche poi sono le
aziende che, pur assertivamente responsabili socialmente, hanno per questo
modificato pratiche produttive, commerciali, assetti gestionali e
business plan.
Recentemente è stato introdotto il concetto di
Triple Bottom line, TBL, (Elkington, 1994), talvolta richiamato come 3P,
People - Planet - Profit. La bottom line delle imprese è
generalmente una sola, la linea che si traccia a fine anno al fondo dei
conti per determinare profitti e perdite dell'azienda. La TBL evoca una
tripla contabilità, economica, sociale ed ambientale in vista di una
certificazione quantitativa della sostenibilità nelle sue tre dimensioni.
Non mancano però le difficoltà per definire le tipologie e le metodologie
dei conti non economici.
è molto
importante, a tal proposito, l'iniziativa della Comunità Europea con
la direttiva EU 95/2014, che dovrà essere recepita nelle legislazioni
nazionali entro la fine del 2016 per entrare in vigore dal 2017. La
direttiva segna il passaggio da un approccio alla accountability di
tipo volontaristico ad uno obbligatorio, imponendo a circa seimila aziende
europee con oltre 500 dipendenti di comunicare informazioni di carattere
socio-ambientale oltre a quelle economiche e includendo nella relazione
sulla gestione una dichiarazione di carattere non finanziario (Ronchi, 2015
-
> vedi).
Per quanto concerne gli aspetti ambientali la
dichiarazione dovrebbe contenere informazioni dettagliate riguardanti:
-
l'impatto, attuale e
prevedibile, delle attività dell'impresa sull'ambiente, sulla salute
e la sicurezza;
-
l'utilizzo delle risorse
energetiche rinnovabili e/o non rinnovabili;
-
le emissioni di gas a
effetto serra;
-
l'impiego di risorse idriche
e l'inquinamento dell'aria.
Per quanto concerne gli aspetti sociali e la gestione
del personale, le informazioni richieste possono riguardare:
-
le azioni intraprese per
garantire l'uguaglianza di genere;
-
l'attuazione delle
convenzioni fondamentali dell'Organizzazione Internazionale del
Lavoro e il rispetto dei diritti sindacali;
-
le condizioni lavorative;
-
-
il rispetto del diritto dei
lavoratori di essere informati e consultati;
-
la salute e la sicurezza sul
lavoro e il dialogo con le comunità locali e/o le azioni intraprese
per garantire la tutela e lo sviluppo di tali comunità.
Per quanto concerne i diritti umani e la lotta contro
la corruzione attiva e passiva, può includere informazioni sulla prevenzione
delle violazioni dei diritti umani e/o sugli strumenti esistenti per
combattere la corruzione attiva e passiva.
Dal quadro esposto, emerge che ci sono le premesse per
uno sviluppo dei metodi di assessment della green economy dal
basso, cioè a partire dalla singola unità produttiva. Su questa strada si
colloca il Green Economy Report® (GER) della Fondazione per lo
sviluppo sostemnibile. Tale prodotto è compatibile con i principali standard
internazionali di reporting di sostenibilità e ne amplia il perimetro
di indagine estendendolo a valutazioni che includono le ricadute generate
dai prodotti – beni o servizi – dell’organizzazione sulla società,
l’economia e l’ambiente e le implicazioni economiche e sociali-occupazionali.
Per la elaborazione di un GER viene svolto uno
specifico assessment basato su uno scorecard di
indicatori di tipo:
-
Ambientale (su emissioni inquinanti e
climalteranti, consumi energetici, consumi di materia prima etc,
secondo gli standard dell'impronta ecologica);
Alcuni di questi indicatori sono già
implementati nei GER, altri sono in via di sperimentazione. Le fasi
di un processo integrato di assessment GER sono riportate in
figura.
2014:
Il
GGEI, Global
Green Economy Index,
della
Dual
Citizen
(> vedi la
quarta edizione del 2014)
Il Global Green Economy Index è uno
dei primi progetti organici di un soggetto della società civile, la Dual
Citizen, di quantificare la transizione verso la green economy,
accompagnandola con stime relative ad un gran numero di Paesi.
La definizione dell’indice GGEI comporta
una serie di decisioni, spesso per bilanciare la profondità e l'ampiezza di
temi trattati rispetto ai dati a disposizione. Infatti il concetto di
green economy, quando fu pubblicato il primo Rapporto, era ancora allo
stato nascente, ed è divenuto via via più definito man mano che le
concezioni teoriche e pratiche sono state messe alla prova e sviluppate.
Quattro sono le dimensioni principali
attorno alle quali vengono valutati le componenti soggettive (perceptions)
dell’indice: la leadership, le politiche, gli investimenti e il
turismo. Nella prima edizione del GGEI del 2010 le percezioni venivano
valutate con la sola inchiesta sulle reputazioni nazionali green in
queste quattro aree. Nel seguito le stesse prestazioni valutate nel
sondaggio sono state validate come prestazioni (performance) utilizzando serie di dati da fonti terze e se
del caso, misure qualitative in campo. Inoltre si è provveduto ad espandere
le sottocategorie di ciascuna delle quattro dimensioni invece di una sola
misura per ogni dimensione.
Nei primi mesi del 2014 sono stati
introdotti due importanti cambiamenti. Il primo è stato quello di ampliare i
settori di competenza al di là del turismo ad altri settori, come
l'efficienza degli edifici, i trasporti e l’energia. Il secondo ha permesso
di integrare le prestazioni ambientali in modo tale che entrambi i pilastri
economici ed ambientale della green economy possono ora essere
esplorati attraverso i risultati soggettivi ed oggettivi.
Il GGEI sfrutta i dati che meglio
soddisfano due criteri centrali: la qualità e la copertura. In realtà che i
set di dati sono spesso meno completi di quanto possa sembrare a
prima vista, e coprono raramente una gamma sufficientemente ampia di Paesi
in modo uniforme. Parte di questo è dovuto al modo in cui sono organizzate i
Paesi (UE, OECD, G20 …) per cui queste istituzioni raccolgono dati e
parametri associati in modo diverso. Ad esempio, possono esistere s dati
affidabili per i paesi OCSE, ma non per i paesi del G20. Inoltre, non tutti
i paesi riportano i dati in modo tempestivo, il che significa che, anche se
non vi è la copertura completa dei dati per un gruppo di paesi, le serie
storiche possono essere in contrasto con alcuni paesi che hanno i dati più
recenti di altri.
Ciò posto, l’approccio alla selezione dei
dati ha assunto un procedimento top down con il quale prima sono
state definite le dimensioni più importanti e le sotto-categorie associate.
Quindi, sulla base di questo quadro, sono stati identificati i dataset
di terze parti che forniscono la misura migliore per la copertura del paese
richiesto o, se del caso, è stato generato un sistema di calcolo di un
punteggio qualitativo. L’approccio top-down si fa preferire perché i
dati esistenti non sono necessariamente i valori più importanti da misurare
per un particolare processo. Inoltre garantisce che l’indice è definito in
relazione ai temi che contano di più, non semplicemente a quelli che sono
più facili da misurare. Questo approccio, nelle aree in cui i dati sono
incompleti, fornisce incentivi alle agenzie di statistica, i ministeri
nazionali e istituzioni internazionali per orientare i loro sistemi di
priorità.
Ci sono però, evidentemente, componenti
vitali per comprendere una green economy che semplicemente oggi non
possono essere misurate in maniera razionale. Un esempio sono i green
jobs, la cui definizione è varia e quindi i dati sono incoerenti tra i
diversi profili dei paesi. Un altro esempio è la produzione - un settore
vitale per l’efficienza -, dove a causa della complessità delle filiere e
delle diverse catene del valore, non esiste ancora un metodo valido per
stimare la misura in cui la produzione nazionale è green.
È inevitabile pertanto che alcuni dati
verranno a mancare. L’approccio GGEI alla imputazione dei dati mancanti è
stato quello di approssimare le stime per i paesi con i dati mancanti sulla
base di una media di punteggi dei cinque paesi più vicini nei termini dei
fattori considerati. Come ogni approccio stimato questo metodo è imperfetto,
ma, secondo le migliori pratiche per la creazione di indici e l’aggregazione
dei dati, questo è un approccio più responsabile che lasciare il valore
vuoto o dare arbitrariamente un punteggio medio per i paesi con i dati
mancanti.
In taluni casi, per i dati ambientali, i
dati possono essere mancanti a causa dalle caratteristiche naturali di ogni
paese. Ad esempio, è impossibile generare un valore per le foreste se un
paese non le ha o per la pesca se un paese è senza sbocco sul mare. In
questi casi ai paesi in questione è stato dato il punteggio più alto della
categoria. Ancora una volta, questo approccio è imperfetto in quanto
accredita ad un paese le massime prestazioni in una categoria ambientale che
semplicemente non esiste, potenzialmente condizionando i risultati
complessivi a suo favore. Ma le alternative al nostro approccio sono meno
attraente, ed espongono i risultati GGEI a maggiori rischi di squilibrio.
Per i paesi in questione sarebbe possibile ponderare altre sotto-categorie
nel risultato complessivo, e creare una situazione in cui le ponderazioni
interne differiscono paese per paese. Lasciare questi valori in bianco
sarebbe in effetti punitivo per questi paesi poiché le caratteristiche
naturali del territorio non dipendono da loro.
La normalizzazione avviene in funzione dei
PIL (PPP) per le componenti che dipendono dalle dimensioni dell'economia del
Paese. Sulla base di un approccio top-down per la selezione dei dati,
generalmente alle quattro dimensioni e alle loro sotto-categorie viene
applicato lo stesso peso. Fanno eccezione la leadership e i
cambiamenti climatici, dove abbiamo diminuito la ponderazione per le
sottocategorie del capo dello Stato e della copertura mediatica, per
innalzare il peso delle prestazioni sul cambiamento climatico.
Ovviamente, il GGEI usa una vasta gamma di
set di dati, ed è importante assumere un metodo coerente per loro
aggregazione. Viene usato quello di calcolare la media e deviazione standard
per ciascun indicatore o set di dati, per calcolare uno z-score con i
percentile associati. Poi, questi valori percentili possono essere aggregati
in modo uniforme, generando un punteggio nell’intervallo 0-100.
Toni Federico, 2013
(>
leggi il documento nella versione integrale)
Nel discutere e pianificare una crescita più green, una domanda
fondamentale è come misurare, confrontare e tenere traccia di come possono
essere contabilizzate e valutate le aziende green, i green job,
i settori o i territori, e i risultati di crescita delle politiche green.
Negli ultimi anni, molti sforzi sono stati fatti per stabilire una solida
base statistica per tale contabilità. Sia teoricamente che praticamente
risulta estremamente difficile, se non addirittura impossibile misurare,
definire e delineare quali attività, aziende e settori e lavori sono
green, mentre altri non lo sono. La difficoltà è in parte dovuta al
fatto che, ragionevolmente, tutta la produzione e il consumo di beni e
servizi hanno impatti ambientali, e in parte che tutti i posti di lavoro e
le aziende sono solo una parte della produzione di lunghe catene di
fornitura che coinvolgono molte aziende e settori, green e brown.
La questione centrale della green economy non è la dimensione
relativa dei settori green, ma gli impatti ambientali complessivi di
tutta l'economia. Anche la definizione di ciò che può essere considerato
francamente brown ci sono opinioni diverse. Secondo una definizione
US EPI l’economia brown
è
caratterizzata dal ricorso delle aziende alla pratica di spingere una quota
dei costi di parti della loro produzione a carico di terzi o dello stato
senza il loro consenso, creando esternalità negative e danni,
che li impoveriscono e tolgono loro potere politico, e di introdurre
distorsioni del mercato sovraccaricandolo di beni ad alta intensità di
inquinamento.
Le autorità ambientali e politiche chiedono informazioni per eseguire
confronti internazionali, per monitorare i progressi ambientali in
particolari settori e l’economia nel suo complesso e per dimostrare gli
effetti delle politiche implementate. I paesi con alto tasso di
disoccupazione come il nostro, e come molti altri, non solo in Europa,
cercano nuove modalità di produzione e consumo sostenibili e capaci di
stimolare l'occupazione e la crescita economica. La necessità di monitorare
sia gli sviluppi globali che gli impatti ambientali e le prestazioni dei
singoli settori economici può verosimilmente essere soddisfatta mediante un
ulteriore e specifico approfondimento dei dati statistici esistenti,
collegando i dati economici provenienti dai conti nazionali con i dati delle
emissioni e le altre statistiche ambientali per tutti i settori economici.
C’è però un’intrinseca debolezza concettuale nel separare le attività
economiche in green e brown: la ragione è che tutte le
attività comportano qualche livello di pressione ambientale, e sono quindi
più o meno green. Settori di solito classificati come green,
ad esempio le energie rinnovabili, non mancano di arrecare danni agli
ecosistemi, anche se, evidentemente, in una misura per unità di produzione
inferiore all’energia da combustibili fossili.
La produzione di energia rinnovabile come quella idroelettrica, eolica e dei
biocarburanti implica costi ambientali, degrado della natura, estetico,
paesaggistico, rumore, danni per la diversità biologica e l'uso di input di
energia nelle fasi di produzione e di installazione. Le centrali a gas, al
contrario, non sono etichettate come green a causa delle emissioni di
carbonio, anche se non arrecano danni al territorio, alla biodiversità, e
generano emissioni più basse del 50% rispetto ad altri combustibili fossili.
Tutte le attività comportano una serie di conseguenze ambientali, alcune
negative e alcune positive. Se il primo obiettivo di un’attività è
ambientale o no, al di là delle intenzioni e delle dichiarazioni, è una
questione di considerazioni soggettive, e non è un assoluto. Se non è dunque
possibile individuare categorie reciprocamente esclusive, green e
brown, conviene piuttosto seguire uno schema nel quale vi è una
distribuzione continua, non binaria, del danno ambientale per unità di
prodotto, di servizio, per lavoratore occupato o per settore. Questa è la
strada che porta, con maggiori o minori difficoltà operative, al concetto di
impronta ecologica
o
carbonica
o di
consumo di materia.
Il metodo dell’impronta è largamente applicabile alle varie scale
territoriali, alle reti ed alle articolazioni socio-economiche anche più
complesse ed è concettualmente coniugato a quello che si chiamava un tempo
lo
spazio ambientale
e che oggi è individuato nei limiti
planetari.
Un metodo coerente per utilizzare le statistiche potrebbe essere calcolare i
danni ambientali per unità di prodotto nei diversi settori e seguirne
l'evoluzione nel tempo mediante un’integrazione (sommatoria). Ciò viene
fatto con metodi tradizionali e dati statistici, ad esempio per calcolare le
emissioni serra globalmente emesse da un paese negli anni, tenendo conto del
fattore di persistenza in atmosfera della CO2.
Emissioni e altri danni possono essere sommati insieme utilizzando gli
equivalenti monetari
(UNEP) o le stime dei costi ricavate da una letteratura alquanto vasta, per
formare valutazioni puntuali o intervalli di incertezza per stimare la
pressione ambientale.
Una chiara tendenza che la green economy mette in luce è che i posti
di lavoro sono sempre a più
alta intensità di conoscenza.
Questa tendenza non è un portato delle tecnologie green o dei servizi
ecologici, che anzi danno largo spazio a professionalità tanto a bassa
quanto ad alta intensità di conoscenza. In generale, una competenza
professionalmente elevata contribuisce a un'economia aziendale più
efficiente nella gestione degli input e dei materiali ed anche nei
fattori di vantaggio per l'ambiente. Livelli di competenza più elevati
possono aumentare il livello di conoscenza generale, e quindi anche
dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Le nuove politiche ambientali
influenzano la competitività di un’azienda o di un settore favorendo quindi
la domanda di manodopera di alta formazione.
L'occupazione,
per un paese come l’Italia, è il principale driver benessere
dell’economia, e quindi della green economy, tanto che si prevede
che sostituirà come indicatore guida macroeconomico beyond GDP, il
PIL, anche perché, nelle economie occidentali c’è tra loro una correlazione
vicina al 100%. Il rilancio occupazionale è atteso soprattutto dai
green job,
definiti dall’International Labour Organization (ILO): "Green
job sono i posti di lavoro mantenuti o creati nel processo di transizione
verso una green economy, generati tanto da industrie a basse emissioni di
carbonio che da settori la cui funzione primaria è la produzione per la
green economy".
Gli stock di capitale umano e sociale si riferiscono a misure
generali, comprese ad esempio la riduzione della povertà, l'equità,
l'inclusione sociale e la ricchezza inclusiva (Stiglitz),
che è la misura del valore di tutti gli stock di capitale (umano,
prodotto e naturale). Il processo di greening dell'economia può avere
diversi impatti positivi diretti e indiretti sul progresso umano il
benessere e l'equità sociale. Tutti gli studi mettono però in guardia dal "rebound
effect” collegato allo sviluppo ed alla crescita. Le prove e gli studi
suggeriscono che un reddito disponibile più elevato per le persone e le
famiglie, o un accesso facilitato all’acqua e all’energia, si traducono
spesso in una maggiore intensità del consumo di risorse naturali, così
potenzialmente deprezzando il guadagno in produttività delle risorse
acquisito con la green economy. Uno dei principali compiti dell'assessment
è tenere sotto controllo e per correggere gli effetti di rimbalzo.
L'approccio OECD
L'importanza di rendere green il complesso aggregato dell’economia,
in tutti i settori, è sottolineato nella
strategia di green growth
dell’OCSE. Qui si mette in guardia contro una misurazione delle attività
verdi, come somma del numero di posti di lavoro verdi e delle imprese verdi.
La green growth ha diverse dimensioni e, per sua stessa natura, non è
un processo facilmente catturato da un unico indicatore.
Un naturale punto di partenza per la definizione degli indicatori di
green growth è la sfera della produzione in cui materia ed energia si
trasformano in beni e servizi per mezzo di una serie di mediatori che sono i
fattori di produzione, il lavoro, le macchine, che costituiscono il
capitale tecnologico, e i prodotti intermedi che vengono utilizzati nella
produzione. I prodotti intermedi sono costituiti ancora da materia ed
energia ma anche dai servizi ecosistemici e da risorse naturali che possono
essere non rinnovabili, come i minerali o rinnovabili, come gli stock
ittici, o ancora sotto forma di servizi di smaltimento dove l'ambiente
naturale offre servizi come un assorbitore di inquinanti e residui emessi
durante la produzione. Il primo gruppo di indicatori è quindi la
produttività delle risorse, che rappresenta il volume di produzione per
unità di risorse o servizi naturali.
La dimensione della produzione non è sufficiente per controllare la
transizione verso una green growth. Per una crescita sostenibile, lo
stock patrimoniale deve essere conservato intatto. Infatti stock
declinanti non consentono di sostenere la crescita. Gli asset di
base vanno intesi in un modo completo, che comprende prodotti e attività non
prodotte, i beni ambientali e le risorse naturali.
L’OCSE nota che concetti più ampi della green growth, come lo
sviluppo sostenibile, includono anche il capitale umano e il capitale
sociale che, per le finalità strategiche della green growth, non
vengono presi in considerazione.
Lo schema di principio
della green growth e dei fattori di produzione e i gruppi tematici
degli indicatori secondo l’OCSE
Per facilitare la comunicazione l’OCSE, sta lavorando su un piccolo insieme
di
indicatori principali (headline)
che vengono scelti per la loro capacità di catturare i progressi della
green growth collegando aree ambientali pertinenti con le prestazioni
del quadro economico attuale o futuro e il benessere.
Il set proposto fornisce, in forma preliminare, una copertura
tematica equilibrata a livello globale che va integrata con le istanze
specifiche dell’area territoriale a cui verrà applicato
Gli indicatori headline dell’OCSE per l’assessment
della green growth
L'approccio UNEP
La green economy è il miglioramento del benessere e
dell'equità sociale, e la riduzione in misura significativa dei rischi
ambientali e della scarsità ecologica. Essa è inoltre lo strumento per
conseguire lo sviluppo sostenibile, piuttosto che una finalità in sé. Questa
la definizione data dall’UNEP in occasione del lancio della campagna
mondiale per la green economy alla fine del 2008 cui fa seguito la
pubblicazione dei Rapporti guida sulla Green economy.
Lo studio dell’UNEP per l’assessment della green
economy può essere un contributo di valore anche per la realtà italiana.
Nella scelta degli indicatori è naturale che l’UNEP abbia privilegiato il
punto di vista ambientale ma anche, non in misura inferiore, il benessere e
l’equità sociale. I componenti principali del benessere sociale e
dell’equità negli interventi delle politiche di green economy
includono l'occupazione, la crescita dei beni e dei servizi ambientali (EGSS),
la ricchezza totale compreso capitale umano, capitale naturale e capitale
infrastrutturale (costruito), l'accesso a risorse fondamentali come
l'energia pulita, acqua e servizi igienici, e la salute.
L’UNEP costruisce la sua proposta sugli indicatori
esistenti e già accreditati che includono, ma non sono limitati solo agli
indicatori degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG), all'insieme
delle molte proposte di indicatori di sviluppo sostenibile, che saranno
unificati negli SDG entro il 2015, all'Human Development Index (HDI),
alla capacità biofisica, all’impronta ecologica, alle misure delle emissioni
di gas (GHG) a effetto serra, agli indicatori di inquinamento dell'aria e
delle acque, alle misure degli stock di capitale naturale, agli
indicatori delle risorse naturali, alla produttività energetica, etc.
Gli indicatori della green economy cadono in tre
categorie principali secondo l’UNEP: gli indicatori ambientali programmatici
che devono tracciare la strada della green economy con gli obiettivi
e i target chiaramente specificati; gli indicatori delle politiche che
vengono effettivamente implementate; e, infine, gli indicatori per l’assessment
ex-ante degli impatti e delle performance ex-post delle politiche
applicate.
La Tabella illustra a titolo di esempio una possibile
scelta per gli indicatori ambientali, senza però riportare i target.
Come si vede si tratta di indici che fanno largamente parte del patrimonio
statistico ambientale di paesi come il nostro.
Una
ipotesi di temi ambientali e dei relativi indicatori
(fonte; UNEP)
GGKP, OECD, UNEP, WORLD BANK
si muovono insieme verso una visione comune dell'assessment
della
green economy
Il
GGKP,
the
Green Growth Knowledge
Platform,
è una
rete globale di
organizzazioni ed
esperti
internazionali
che individua e
affronta
le principali
lacune di
conoscenza
nella teoria
e nella pratica
della crescita
verde.
Incoraggiando la
collaborazione
diffusa e
la ricerca di
livello mondiale,
la
GGKP
offre
professionisti e
politici
della
guida politica,
buone pratiche,
strumenti
e dati
necessari per
sostenere la
transizione
verso un'economia
verde.
La
GGKP
è stata fondata
nel gennaio 2012
dall'Istituto
Global Green
Growth,
dall'OECD,
dall'UNEP e dalla
Banca mondiale.
Del board dell'assessment della green economy fa parte il nostro Carlo
Carraro, rettore dell'Università Cà Foscari.
Il greening
della
crescita e
lo spostamento
verso un'economia
più verde
è un processo di transizione complesso e
multidimensionale.
Esso comporta:
-
dare un prezzo alle
esternalità e
valorizzare il patrimonio naturale per
i servizi di lungo periodo che esso fornisce;
-
l'ecoinnovazione
come strumento per rompere con la pratica della crescita
insostenibile;
-
la creazione
e la diffusione di nuove tecnologie, nuovi beni e servizi più
sostenibili;
-
cambi di
settore e
modifiche di processo che inevitabilmente implicano vincitori e
perdenti.
Gli approcci che trattano
l'assessment della green economy e dei green job
sono molti e differenziati. Il lavoro GGKP presenta un'ipotesi di prima
approssimazione sia ad un modello di macroeconomia ecologica che faccia
da background all'assessment, sia ad una scelta di linea
comune per la selezione degli indicatori.
In sintesi il modello
macroeconomico è così articolato:
Gli
stock di capitale naturale sono gli input.
Esso fornisce
risorse naturali e servizi ecosistemici.
I flussi di entrambi, quando superano le soglie di
rinnovabilità e resilienza, riducono
la base patrimoniale naturale. Per talune risorse minerarie c'è poco da
fare salvo mettere in campo il riciclo e l'efficienza. Talvolta la
tecnologia consente la sostituzione parziale di una risorsa.
L'esaurimento è in agguato e va monitorato. Il caso più eclatante è
quello della curva di Hubbert del petrolio. I combustibili fossili sono
tutti destinati ad esaurirsi. l'energia solare può, a conti fatti,
garantire una sostituzione completa e vantaggiosa.
La produzione di energia rinnovabile è dunque un cardine della green
economy ma richiede essa pure risorse naturali.
Nella fase della produzione ciò che conta è
l'efficienza. L'obiettivo è consumare meno input e
prodotti intermedi e azzerare scarti ed emissioni. Per progredire lungo
questa strada occorrono knowledge, know-how,
ricerca scientifica e, in generale,
investimenti in macchinari,
capitale umano e
sociale.
Gli output sono le componenti del
benessere
materiale e
non-materiale.
Tendenzialmente
una buona e sana occupazione, a differenza dell'economia classica che
considera il lavoro un fattore di produzione, in green economy è
un output: buoni prodotti e servizi e buoni e durevoli job,
capaci di guidare la transizione sono i green output. Un'eresia
in un mondo che fa competere le aziende ribassando gli stipendi, i
diritti e i posti di lavoro. Keynesianamente si produce lavoro per
tenere in piedi il processo di produzione e consumo. L'uovo di Colombo!
La green economy fa qui i conti con la
trappola della produttività (vedi i numerosi lavori di Tim
Jackson): a consumi non crescenti, maggior produttività vuol dire
meno posti di lavoro. In green economy, viceversa, i vantaggi di
una produttività in crescita per effetto delle macchine e
dell'organizzazione del lavoro, si monetizzano, senza abbassare il
reddito socialmente disponibile, né i consumi,
indirizzando la produttività eccedente ad attività green non
market, istruzione, assistenza, rivitalizzazione
dell'ambiente e della società. La lista è infinita. Bisogna però
lasciare alle spalle la cultura del consumismo. Nella storia non si è
mai visto finora deperire una società paradossalmente perché incapace di
fare buon uso di risorse rinnovabili eccedenti
come il lavoro e la cultura. Al giorno d'oggi questa eccedenza
viene gestita con un meccanismo perverso che produce miseria e disparità
sociali: un suicidio dietro il pifferaio di Hamelin del consumismo.
A partire da queste tre
coordinate lo schema macroeconomico condiviso può essere più a meno
quello della figura. Schemi come questo ce ne sono in abbondanza in
giro. Questo in particolare dovrebbe mettere meglio in evidenza la
natura circolare della produzione della ricchezza a partire dalle
risorse. Inoltre è statico, non chiarisce i meccanismi del
degrado né viceversa i guadagni degli stock di capitale , che
compongono la ricchezza e danno luogo al progresso, cioè ad uno sviluppo
in prospettiva sostenibile.
Il
quadro macroeconomico e la produzione della ricchezza nel modello GGKP
Il GGKP segnala prontamente la natura fin qui puramente economicistica
del suo schema, che del resto è uno schema di green growth, cioè
di crescita rispettosa del capitale naturale. Per acquisire le più ampie
visioni della green economy in versione UNEP al modello vanno
aggiunti una dimensione sociale, i cui
paradigmi non possono che essere equità,
inclusività ed
eliminazione della povertà e un rigoroso criterio di
assessment della governance di
sistema, di settore e locale, un tema cruciale che non fa parte delle
definizioni di green economy ma senza il quale la green economy
resta una chimera, come viene chiaramente dalla
lezione di Rio+20.
Senza questa integrazione il modellino GGKP mostrerebbe di tutta
evidenza quella presunzione di universalità denunciata vigorosamente a
Rio+20 e bollata con l'etichetta "one size fits
all". Viceversa è proprio nelle peculiarità sociali di ogni
comunità e nella governance che ne è uno degli aspetti più
importanti, che il percorso della green economy si arricchisce
della necessaria biodiversità ed assume un respiro, ora si, universale,
in quanto capace di avere come protagonisti tutti gli aggregati sociali,
verticali ed orizzontali in un processo di promettente e stimolante
coevoluzione.
Su queste basi il GGKP offre un possibile lista di indicatori per
ciascuno dei temi indicati dal suo modello. Sono elencati nel seguito a
titolo di esempio, perché l'accordo in effetti non c'è ed anche perché
non si vuole interferire col processo di elaborazione dell'Agenda dello
sviluppo 2015 e con la selezione degli SDG delle Nazioni Unite, un
processo che negli anni 2014-15 dovrà saper raccoglier le indicazioni
provenienti da ogni parte, ed in particolare le più autorevoli come
questa.
Parametri del capitale naturale
Parametri dell'efficienza del processo produttivo
Parametri di contesto socio economico
L'Agenda dell'assessment GGKP
identifica le lacune più importanti in termini di rilevazione dei
fenomeni sottostanti agli indicatori delle liste. Preoccupante è
la scarsa copertura di molti degli aspetti nei paesi in via di sviluppo
. Più in generale le lacune più significative e le aree di avanzamento
includono:
-
i dati fisici principali degli stock e flussi dei beni
naturali e della loro qualità;
-
i dati fisici sulla disponibilità naturale per assorbire i rifiuti e
le emissioni inquinanti senza degradarsi;
-
i dati fisici sui flussi materiali. Migliorare tali dati potrebbe
aiutare ad effettuare analisi dei flussi di materiali a un livello
di maggior dettaglio e consentire il calcolo dei flussi delle
materie di prime e dei loro zaini ecologici
(SERI, Wuppertal);
-
i valori monetari attribuibili ai beni
e ai servizi naturali;
-
i dati sui driver ambientali dell'innovazione
nelle imprese;
-
i dati sulla biodiversità, in
particolare della perdita delle specie e della diversità degli
ecosistemi;
-
misure oggettive e soggettive della qualità
della vita, soprattutto indotta da fattori ambientali,
salute, problemi, rischi e costi connessi;
-
misure di assessment degli strumenti di politica ambientale:
regolamentazioni e standard.
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