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Global sustainability offers the only viable path to human safety, equity, health, and progress. Humanity is waking up late to the challenges and opportunities of active planetary stewardship. But we are waking up. Long-term, scientifically based decision-making is always at a disadvantage in the contest with the needs of the present. Politicians and scientists must work together to bridge the divide between expert evidence, short-term politics, and the survival of all life on this planet in the Anthropocene epoch. The long-term potential of humanity depends upon our ability today to value our common future. Ultimately, this means valuing the resilience of societies and the resilience of Earth’s biosphere Our Planet, Our Future. Nobel Prize Laureates and Other Experts Issue Urgent Call for Action. April 29, 2021
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DELLA FONDAZIONE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE Lo sviluppo sostenibile in Italia e nel mondo
8 novembre 2024. Si apre la 29 COP climatica a Baku. Nere prospettive. Nel 2025 il limite degli 1,5 °C di Parigi verrà superato La violenza dell’impatto climatico è in crescita oltre ogni previsione. Le vittime di Valencia sono paragonabili a quelle delle guerre in corso. Valencia, immagine del progresso e delle speranze dell'umanità con la sua architettura futuribile di Santiago Calatrava, è ora ridotta alla squallida rappresentazione dell'impotenza del genere umano a salvare se stesso (in figura un particolare). Preoccupa però il diffondersi di una forma di rassegnazione che, pur se alimentata dal ricco sistema mondiale dell’oil and gas e fatta propria in occidente da taluni schieramenti politici, rischia da sola di vanificare lo sforzo immane profuso in trent’anni nel negoziato internazionale multilaterale sul clima. L’Emissions Gap Report 2024 dell’ UNEP conferma la perdurante crescita delle emissioni GHG, arrivate a 57 GtCO2eq nel 2023, e con essa delle concentrazioni in atmosfera e, per diretta conseguenza, della temperatura media superficiale terrestre e marina, con punte oltremisura proprio nelle zone temperate di cui fanno parte l’Europa e il bacino mediterraneo. L’obiettivo degli 1,5 °C di Parigi a fine secolo viene quasi universalmente giudicato fuori portata, anche negli interventi ufficiali. Il mediterraneo salirà sopra gli 1,5 gradi nel 2025. In questo quadro si prepara a Baku una COP 29 in tono minore. Il check degli impegni assunti dai vari paesi, gli NDC, avverrà infatti solo il prossimo anno alla COP 30 in Brasile. Ai governi è stato richiesto di rivedere al rialzo entro il 2025 i propri livelli di ambizione che ad oggi farebbero fallire l’obiettivo di Parigi, e a presentarne di nuovi per il 2035, anno in cui le emissioni globali, che ancora oggi continuano a crescere, dovrebbero essere ben del 60% più basse rispetto a quelle del 2019. L’Europa ha comunicato un promettente abbattimento delle emissioni dell’8,3% nel 2023 confermando il suo impegno immutato sulla transizione ecologica. Le elezioni americane, però, riportano uno dei peggiori negazionisti alla guida di un grande paese e suscitano gravi preoccupazioni. Al proposito Reuters segnala che i leader mondiali delle principali economie come l'Unione Europea, gli Stati Uniti e il Brasile hanno in programma di disertare la COP 29. La Cina resta paradossalmente con l’Europa alla frontiera del clima, ma ha chiesto ai paesi di discutere off the records a Baku sulle tasse di confine sul carbonio che sarebbero dannose per i paesi in via di sviluppo. Alcuni documenti dalla Cina sollevano il timore che le crescenti tensioni commerciali tra le principali economie potrebbero bloccare i colloqui di Baku. Al di fuori delle negoziazioni formali, le COP sono spazi in cui governi, settore privato e società civile possono impegnarsi in una collaborazione autentica per promuovere l'azione per il clima. Molte sono state le acquisizioni dei vertici recenti, come gli impegni per incrementare le energie rinnovabili, ridurre gradualmente i combustibili fossili, promuovere l'azione per il clima nelle città, rendere green il settore finanziario, fermare la deforestazione e altro ancora. La maggior parte dei paesi non dispone però di strutture di monitoraggio dell’azione dei governi e degli altri soggetti. La COP 29 è un'opportunità per dimostrare un reale progresso sui numerosi impegni presi finora. Per le iniziative esistenti, ciò significa comunicare pubblicamente i progressi attraverso il Global Climate Action Portal dell'UNFCCC o pubblicando relazioni adeguate. Ciò aiuterebbe a far progredire la comprensione del ruolo che gli sforzi cooperativi possono svolgere nel supportare azioni ambiziose. In concreto, quali sono gli obiettivi attribuiti alla COP 29? Dare un nuovo obiettivo al finanziamento per il clima. La COP 29 sarà una sorta di COP finanziaria, incentrata sull'adozione di un nuovo improbabile obiettivo di finanziamento per il clima, il NCQG che sostituirà il precedente obiettivo annuale di 100 miliardi di dollari stabilito nel 2009 a Copenhagen e tuttora inevaso. Dovrebbe essere rivalutato l'importo e il tipo di finanziamento che i paesi in via di sviluppo ricevono per sostenere la loro azione per il clima. Il quadro internazionale e la nuova alleanza dei BRICS complicano le cose. In effetti, molti paesi in via di sviluppo non possono mantenere o rafforzare i loro impegni climatici senza sostegni. Ma i paesi occidentali, da sempre restii a far fronte alle responsabilità che sono essenzialmente le loro, non mancheranno di sfruttare il pretesto della crisi geopolitica per non fare fronte agli impegni vecchi e a quelli nuovi. I dialoghi tecnici degli ultimi tre anni, volti a dare forma al NCQG, lasciano sul tavolo questioni fondamentali sulle dimensioni e la struttura dell'obiettivo. Una decisione chiave è a quale cifra punterà il NCQG, quantificato da volta a volta da miliardi a trilioni su base annua. Per ora sembra probabile che NCQG consisterà in più obiettivi che riflettono diversi tipi di flussi finanziari pubblici e privati. Resta da definire, e non è poco, quali paesi forniranno finanziamenti, se saranno favoriti determinati strumenti finanziari come sovvenzioni o prestiti agevolati e quale rendicontazione sarà richiesta per promuovere la trasparenza. Aumentare l’ambizione degli impegni nazionali per il clima. I paesi dovranno annunciare i loro nuovi impegni nazionali sul clima (NDC) solo nel 2025. Diversi grandi emettitori, Brasile, Regno Unito ed Emirati Arabi Uniti annuncerebbero i loro nuovi NDC alla COP di quest'anno. I nuovi NDC dovrebbero includere nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni GHG per il 2035, aumentare quelli del 2030 e mettere i paesi su percorsi credibili per raggiungere le emissioni zero nette intorno alla metà del secolo. Per stimolare cambiamenti di così vasta portata, gli NDC dovrebbero stabilire obiettivi specifici per settore, energia, trasporti, agricoltura, in coerenza con il Global Stocktake della COP 28. A Baku si potrà al più tentare di coinvolgere il settore privato per aiutare a indirizzare più finanziamenti verso l'azione per il clima. Maggiori finanziamenti per perdite e danni. La crisi climatica è ingigantita al punto che alcuni impatti vanno già oltre ciò a cui le persone possono adattarsi, come la perdita di vite umane e mezzi di sostentamento a causa di inondazioni estreme e incendi boschivi o la scomparsa di siti patrimoniali costieri a causa dell'innalzamento del livello del mare. Nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite, il termine usato è loss and damage. Il primo giorno della COP 28 è stato avviato il Fondo per rispondere alle perdite e ai danni (FRLD). Da allora, la Banca Mondiale ha assunto il ruolo di fiduciario, le Filippine sono state scelte come paese ospitante per il consiglio del Fondo e Diong è stato nominato primo direttore esecutivo. Il passo successivo è riempire le casse del fondo. Alla COP 28 sono stati promessi circa 700 M$; è un inizio, ma nulla in confronto ai 580 G$ di danni legati al clima che i paesi in via di sviluppo potrebbero dover affrontare entro il 2030. Un piano di mobilitazione delle risorse dovrebbe essere attivo entro il 2025. Alla COP 29, i paesi sviluppati dovrebbero annunciare nuovi impegni, eventualmente inseriti nel NCQG, in modo che il sostegno possa iniziare a fluire verso i paesi bisognosi, ma le ombre scure delle divisioni geopolitiche si allungano sul negoziato proprio nell’anno delle terribili inondazioni nel Rio Grande do Sul, in Emilia e a Valencia. Adeguare il finanziamento per l'adattamento nell’ottica della definizione di un obiettivo globale. Alla COP 29 i paesi dovrebbero anche lavorare per colmare il divario finanziario per l'adattamento, che attualmente si aggira intorno ai 194 - 366 G$ all'anno in crescita. Nel 2021 i paesi hanno concordato di raddoppiare il finanziamento per l'adattamento entro il 2025 come parte del Glasgow Climate Pact. La Convenzione climatica sta preparando un rapporto per la COP 29 per documentare i progressi verso questo obiettivo, come sollecitato dal Global Stocktake dell'anno scorso. A Baku, con il NCQG, i finanziamenti per l'adattamento dovrebbero essere messi alla pari con quelli per la mitigazione e gli interessi sui prestiti dovrebbero essere ridimensionati. Del pari si dovrebbe tentare di dare forza all'obiettivo globale sull'adattamento (GGA), che si vuole che assuma un rilievo politico pari agli 1,5 °C di Parigi. Alla COP 28, i paesi avevano stabilito gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 e avviato un programma di lavoro biennale per determinare come saranno misurati gli sforzi di adattamento. Alla COP 29, i negoziatori tenteranno di raggiungere un accordo su un set gestibile di indicatori per monitorare i progressi e i flussi finanziari sia a livello nazionale che locale. Sfruttare i mercati del carbonio per guidare l'azione per il clima. L'articolo 6 dell'accordo di Parigi consente ai paesi di scambiare crediti di carbonio per raggiungere i propri obiettivi climatici nazionali. I paesi ricchi di foreste pluviali tropicali potrebbero vendere crediti per generare fondi per la protezione delle foreste che i paesi che acquistano i crediti potrebbero dedurre nei propri NDC. Le regole sul funzionamento di questi mercati dovranno essere definite prima che gli scambi possano iniziare in un assetto capace di garantire che i mercati del carbonio, disciplinati da standard internazionali, siano ecologicamente validi e non rischino di compromettere i tagli alle emissioni globali. Si tratta di cosa assai diversa dai mercati volontari dell’offsetting che hanno dato in questi anni più scandali che risultati Fallito alla COP 28 l’accordo sulle regole dell'articolo 6, le parti hanno fatto alcuni progressi nel trovare un terreno comune. L'organismo di vigilanza per il nuovo meccanismo di accreditamento dell'accordo di Parigi è il PACM, che gestirebbe l'accredito del carbonio tra i paesi e che ha recentemente concordato due standard sui requisiti metodologici e sulle attività che comportano rimozioni ecosistemiche. Ha anche stabilito che tutti i progetti devono rispettare le tutele ambientali e dei diritti umani. A Baku si dovrà stabilire se il PACM andrà avanti; come affrontare l'autorizzazione dei crediti di carbonio; se un paese può revocare l'autorizzazione dei crediti; se i crediti dovranno passare attraverso un processo di revisione tecnica prima di poter essere utilizzati e se i paesi in via di sviluppo con risorse limitate possono o meno utilizzare il registro del commercio internazionale per le transazioni sui crediti. Rafforzare la trasparenza intorno alle azioni nazionali per il clima. La trasparenza è un principio cardine dell'accordo di Parigi, tanto che i paesi sono tenuti a presentare i loro primi rapporti biennali sulla trasparenza (BTR) entro la fine di quest’anno. In questi rapporti i paesi chiariranno le modalità dei loro sforzi per ridurre le emissioni di gas serra; i loro progetti e piani di adattamento e quanto sostegno finanziario hanno fornito, mobilitato, ricevuto o di cui hanno bisogno. Dettaglieranno anche i progressi che i paesi stanno facendo verso i loro obiettivi NDC del 2025 e del 2030. La preparazione di rapporti biennali sulla trasparenza è un processo esteso e complesso e i paesi in via di sviluppo con meno esperienza richiederanno supporto per il capacity building. Riconoscendo queste sfide, la presidenza azera ha lanciato la Baku Global Climate Transparency Platform per supportare le metodologie della rendicontazione e della trasparenza e ha ospitato diversi workshop regionali per supportare gli sforzi di rendicontazione.
5 novembre 2024. Lo stato internazionale della green economy agli Stati generali di Ecomondo a Rimini
In Italia la green economy ha raggiunto risultati importanti in settori come l’economia circolare e il biologico e, addirittura, il Paese nel 2023 ha diminuito le emissioni di CO2 di oltre il 6%, tanto che se mantenesse questo trend potrebbe raggiungere il calo del 55% nel 2030. Ma accanto a questi primati in alcuni settori permangono criticità: non si arresta il consumo di suolo che interessa il 7,14% del territorio nazionale e si estende anche in aree di fragilità idraulica e sono aumentate nel 2023 le immatricolazioni delle auto, ma sono ancora poche le elettriche. Questa la fotografia dell’Italia delle green economy contenuta nella Relazione sullo Stato della Green Economy presentata in apertura degli Stati Generali della Green Economy 2024, la due giorni green a Rimini nell’ambito di Ecomondo, promossa dal Consiglio Nazionale della Green Economy. Nel mondo la transizione verso un’economia più sostenibile che bilancia lo sviluppo economico con il mantenimento di ecosistemi globali sani richiede investimenti significativi, con stime variabili da 109 a 275 trilioni di dollari entro il 2050 solo per affrontare il cambiamento climatico. Questo flusso di investimenti va verso prodotti e servizi che aiutano a ridurre le emissioni e affrontare altri problemi ambientali globali, dalle energie rinnovabili all’acqua pulita, i trasporti green e la gestione dei rifiuti, da cui trae beneficio un’ampia gamma di aziende e catene del valore che compongono la green economy globale. Le stime vengono dallo studio londinese di un team che sorveglia da tempo i conti della green economy, un mercato che fornisce soluzioni climatiche e ambientali e si è ampliata considerevolmente nell'ultimo decennio. Nel 2023 ha marcato una forte ripresa dopo il calo del 2022, e con la sua capitalizzazione di mercato ha raggiunto i 7,2 trilioni di dollari nel primo trimestre 2024. Tuttavia, permangono ostacoli, come i problemi di sovraccapacità e le relative barriere commerciali alla produzione di apparecchiature per energie rinnovabili e di veicoli elettrici (EV). A seguito del ridimensionamento di alcune grandi aziende green statunitensi all'inizio di quest'anno, la quota del mercato green è scesa leggermente dall’8,9 di fine 2023 all’8,6% nel primo trimestre 2024. Ma resta in espansione. La sua crescita a lungo termine supera con un CAGR a medio termine del 13,8% il più ampio mercato azionario quotato. Se considerata un settore a sé stante, la green economy avrebbe data la migliore performance negli ultimi 10 anni, superata solo dalla performance stellare del settore tecnologico (EOAS in Fig. I_1). L’efficienza energetica è stato di gran lunga il settore green con le migliori prestazioni, nonché il maggiore (46% della green economy e 30% dei proventi dei green bond. Le energie rinnovabili, hanno avuto nel 2023 una performance inferiore. L’economia verde è diversificata e abbraccia settori e catene del valore globali. Quasi tutto le industrie generano ricavi da settori green. La tecnologia è di gran lunga il settore più grande della capitalizzazione di mercato (2,3 trilioni di dollari) e quello automobilistico ha il più alto tasso di penetrazione green (42%). Mentre più di 50 mercati sviluppati ed emergenti contribuiscono alla green economy, gli Stati Uniti nel 2024 saranno il mercato più grande per effetto delle dimensioni del mercato azionario statunitense e della presenza sul territorio di grandi aziende come Tesla, seguiti da Taiwan spinta dall’industria dei semiconduttori (75% del mercato su scala globale) e dalla Cina. Nell’asset class del reddito fisso, il mercato dei green bond ha sostenuto il carico di 540 miliardi di dollari emessi nel 2023 nonostante gli alti tassi di interesse. Sebbene i green bond siano annuali, le emissioni nel 2023 erano ancora inferiori al picco del 2021 e si erano riprese dalla livello più debole del 2022. I green bond di nuova emissione rappresentano ora circa il 6% del totale offerte di obbligazioni ogni anno. Tuttavia, i green bond in circolazione rappresentano solo il 2% del totale mercato obbligazionario (2,5 trilioni di dollari nel primo trimestre del 2024), laddove paradossalmente le emissioni di obbligazioni ad alta intensità di carbonio sono circa 2,5 volte superiori rispetto alle emissioni annuali di obbligazioni. C'è del potenziale per un’ulteriore crescita dei mercati dei green bond se la transizione a basse emissioni di carbonio accelererà. La crescita senza precedenti delle tecnologie digitali, in particolare dell’intelligenza artificiale (AI) e dei data center, potrebbero diventare un nuovo motore per l'ulteriore crescita e sviluppo della green economy. I giganti della tecnologia sono preoccupati per i loro sempre più pesanti consumi di energia e dela loro impronta ambientale e stanno diventando i maggiori acquirenti di energia rinnovabile. Microsoft ha recentemente stabilito il record per il più grande contratto di acquisto di energia elettrica pulita di una singola azienda, 10 miliardi di dollari per 10,5 GW di energia solare ed eolica. Inoltre è necessario un ulteriore miglioramento dell’efficienza energetica, che è un’altra area di interesse green in crescita potenzialmente rapida, in settori quali chip e server, sistemi di raffreddamento, data center iperscala e gestione della domanda energetica. > Leggi l'intero Rapporto 12 aprile 2024. "Case green": un'occasione da non perdere Nell'ambito del pacchetto Fit for 55, il 15 dicembre 2021 la Commissione ha adottato una proposta legislativa di revisione della direttiva EPBD (performance energetica degli edifici), molto in ritardo rispetto alle altre direttive del pacchetto su rinnovabili ed EE, cosa che ha avuto un impatto decisivo sull’accordo finale. L’accordo del Trilogo, che, come vedremo, ha radicalmente ridimensionato la proposta iniziale, è stato sottoscritto il 7 dicembre 2023 e il 12 marzo il PE ha adottato la sua posizione definitiva, con 370 voti favorevoli, 199 contrari e 46 astenuti. Ora manca ancora la posizione definitiva del Consiglio che dovrebbe essere votata il 12 aprile. In genere solo una formalità, il voto di accordo finale sul risultato del Trilogo, è diventato nel corso del 2023 un’occasione di ulteriore modifica e negoziato, grazie al (pessimo) precedente introdotto dalla Germania sulla normativa automotive e continuato in varie occasioni anche dall’Italia (ultimo esempio, imballaggi e Due diligence). Questo rende molto instabile l’accordo tra i co-legislatori, in precedenza considerato definitivo, ed apre a mercanteggiamenti dell’ultimo momento: quindi non sono da escludere sorprese; anche perché l’Italia ha già annunciato che voterà contro il 12 aprile e non siamo sicuri che la piccola maggioranza oggi esistente reggerà. Nel corso del 2023, la EPBD, normativa in principio piuttosto tecnica e mai al centro di polemiche in passato, è diventata insieme alle regole su automotive il simbolo del radicale cambio di atteggiamento del PPE e di parte dell’opinione pubblica rispetto al Green Deal. Importanti lobby come la Confedilizia europea e le loro associate in particolare in Germania e Italia, hanno iniziato una durissima campagna usando anche informazioni false e manipolazioni (da nuove tasse e numero abnorme di edifici sui quali intervenire a pericoli di perdere la casa) che hanno spaventato l’opinione pubblica e reso la discussione sui benefici molto difficile. La proposta della commissione, il punto di partenza. Secondo la proposta della Commissione, tutti i nuovi edifici dell'UE sarebbero dovuti essere a emissioni zero a partire dal 2030, mentre tutti i nuovi edifici pubblici a emissioni zero a partire dal 2027. La Commissione aveva proposto di introdurre standard minimi di efficienza a livello europeo, innescando un aumento del tasso di ristrutturazione degli edifici con le peggiori prestazioni. Gli edifici non residenziali con un certificato di prestazione energetica (EPC) di classe G (la più bassa) avrebbero dovuto essere ristrutturati e migliorati per raggiungere almeno la classe EPC F entro il 2027 e la classe E entro il 2030. Gli edifici residenziali con le peggiori prestazioni dovevano raggiungere almeno la classe F entro il 2030 e la classe E entro il 2033. Per garantire standard nazionali comparabili, tutti gli EPC avrebbero dovuto essere basati su una scala armonizzata di prestazioni energetiche entro il 2025 e soggetti a un futuro ridimensionamento in vista del raggiungimento di un parco edifici a emissioni zero entro il 2050. L'EPC di classe G doveva coprire almeno il 15% degli edifici in ogni Stato membro, mentre la validità degli EPC delle classi inferiori (D-G) era ridotta da 10 a 5 anni. Per aiutare i proprietari degli edifici a pianificare le ristrutturazioni, entro il 2024 dovevano essere introdotti dei passaporti di ristrutturazione volontari ed entro il 2026 uno Smart Readiness Indicator. La posizione del Parlamento e del Consiglio. Al Parlamento europeo il dossier è stato assegnato alla commissione Energia Industria, che ha nominato Ciarán Cuffe (Greens/EFA, Irlanda) come relatore. La relazione finale che definisce la posizione negoziale è stata votata in sessione plenaria il 14 marzo 2023. In generale più ambiziosa sulle scadenze, il PE ha introdotto importanti esenzioni per edifici storici, di edilizia sociale e agricoli. Altro punto molto importante, le misure finanziarie dovrebbero dare la priorità alle ristrutturazioni profonde, soprattutto degli edifici con le peggiori prestazioni, e alle sovvenzioni e ai sussidi mirati messi a disposizione delle famiglie vulnerabili. Gli Stati membri avrebbero dovuto garantire che l'uso di combustibili fossili negli impianti di riscaldamento degli edifici di nuova costruzione o in quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti dell'edificio o dell'impianto di riscaldamento non fosse autorizzato a partire dalla data di recepimento della presente direttiva. Avrebbero dovuto essere totalmente eliminati entro il 2035, a meno che la Commissione europea non ne avesse autorizzato l'uso fino al 2040. La posizione comune del Consiglio è stata adottata in ottobre 2022 (anche l’Italia l’ha adottata) e manteneva in gran parte la struttura della proposta della Commissione e in particolare classi energetiche e uscita dai sussidi dei combustibili fossili, pur dando più tempo e flessibilità. In seguito, la posizione è cambiata e la linea rossa è diventata evitare obblighi sui singoli edifici residenziali e dunque un approccio che offrisse un margine di manovra sufficiente per applicare dei requisiti di ristrutturazione al patrimonio edilizio in generale. L’accordo del trilogo. L'accordo tra Parlamento e Consiglio è stato raggiunto, dopo dure discussioni e molta propaganda, il 7 dicembre 2023. L'accordo stabilisce che tutti i nuovi edifici dovranno essere a emissioni zero a partire dal 2030; i nuovi edifici occupati o di proprietà del settore pubblico dovranno essere a emissioni zero a partire dal 2028. Non esiste più l'obbligo di aumentare la prestazione energetica degli edifici attraverso livelli minimi che devono essere raggiunti dai singoli edifici, quindi niente EPC europei e riferimenti a classi energetiche. Gli Stati membri dovranno invece garantire una riduzione dell'energia primaria media utilizzata negli edifici residenziali di almeno il 16% entro il 2030 e di un intervallo compreso tra il 20 e il 22% entro il 2035. Per quanto riguarda i requisiti minimi di prestazione energetica, l'accordo prevede che gli Stati membri ristrutturino il 16% degli edifici non residenziali con le peggiori prestazioni entro il 2030 e il 26% con le peggiori prestazioni entro il 2033. Rimane inoltre l’obiettivo di abbandonare completamente l'uso di caldaie a combustibili fossili entro il 2040 e di smettere di sovvenzionare caldaie autonome a combustibili fossili a partire dal 2025, ma sussidi potranno continuare per caldaie ibride: questo introduce un importante scappatoia per continuare a sovvenzionare l’uso del gas. L'accordo estende l'elenco delle esenzioni aggiungendo gli edifici di proprietà delle forze armate o del governo centrale e destinati alla difesa. Nonostante il notevole indebolimento della norma e la competizione per le risorse che rende i sussidi nel settore delle costruzioni particolarmente controversi e complessi sono notevoli i vantaggi di una adeguata applicazione della direttiva. Il problema più serio sarà la volontà politica di disporre gli strumenti e i piani per applicarla al meglio. Abbattimento delle emissioni e lotta alla povertà energetica: La Fillea-Cgil calcola che l’obiettivo dell’abbattimento del 55% delle emissioni del settore civile si potrà ottenere partendo dalla rigenerazione degli edifici di qualità energetica inferiore, impegnando il 15% delle abitazioni in classe F e G entro il 2030 e il 26% entro il 2033, mediante l’uso di materiali isolanti, di fonti di autoproduzione energetica, essenzialmente il fotovoltaico e di pompe di calore in luogo delle caldaie a combustibili fossili. Si tratta di mezzo milione di edifici pubblici e cinque milioni di abitazioni private che per lo più saranno le costruzioni di qualità inferiore delle periferie e delle semiperiferie. Riduzione delle bollette: Il passaggio da classe F a D consente un risparmio medio annuo di 1200 € cui vanno necessariamente aggiunti i bonus e le agevolazioni fiscali per i soggetti che non potrebbero affrontare la spesa con le risorse proprie. Se si considera che in Italia la casa è il bene patrimoniale più importante e che i prezzi delle case sono alti, il vantaggio di mercato che si ottiene con la rigenerazione energetica è con ogni probabilità superiore alla spesa che alla fine di tutto resterebbe sulle spalle dei proprietari. L’intervento di incentivazione pubblica dovrà però tener conto delle disparità di reddito ed essere capace di dare copertura piena ai soggetti con redditi inadeguati. La Direttiva non impone alcun obbligo per i singoli immobili e quindi per i proprietari degli stessi. L’obbligatorietà sussiste invece per il Paese e quindi al Governo spetta di definire la strategia, gli investimenti e le politiche da attuare per raggiungere gli obiettivi in un paese dove la qualità del patrimonio edilizio è di per sé diversa e complessa e che lo stesso vale per i redditi delle famiglie. In questo senso vanno sollecitamente rivisti strumenti di pianificazione, come il PNIEC, ancora in fase di stesura definitiva e monitorare l’effettiva applicazione delle norme. Rilancio comparto dell’edilizia: Se si considera a medio-lungo termine anche il comparto delle costruzioni nuove, la Direttiva appare una straordinaria occasione per ridefinire la politica industriale del settore, per rilanciare l’apparato produttivo, incrementare i posti di lavoro ed aumentare il gettito fiscale e lo stesso Pil. Oggi, infatti, il settore civile vale il 20% del Pil e oltre 2 milioni di posti di lavoro. Secondo l’ANCE un miliardo di euro di investimenti in edilizia genera un effetto diretto ed indiretto valutabile in termini di oltre 15.000 nuovi posti di lavoro. La Direttiva EPBD può dare al paese un’occasione di rilancio della professionalità della forza lavoro, per qualificare le imprese e per riportare, almeno in parte, le catene del valore entro i confini del nostro sistema economico. Questa volta abbiamo il tempo per evitare le bolle speculative, le malversazioni e i rincari ingiustificati delle materie prime e dei servizi. Una pianificazione ordinata e tempestiva delle misure di rigenerazione dovrà perfezionare il sistema delle autorizzazioni e rendere trasparenti e facilmente accessibili anche le procedure per l’accesso al credito, per la verifica della qualità dei manufatti e per il monitoraggio dei vantaggi energetici ed economici e delle compensazioni. Decisivo inserire il comparto civile in ristrutturazione nei programmi della transizione digitale. Contributo alla transizione e riduzione dell’inquinamento: La Direttiva può inoltre essere messa al passo con le procedure costitutive delle Comunità energetiche rinnovabili e può quindi essere un’occasione unica di partecipazione democratica allo sviluppo sostenibile, alla lotta contro i cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente e della salute, se si considera che l’attuale assetto energetico del settore civile, dominato dalla combustione dei fossili, contribuisce in maniera sostanziale, al pari dei trasporti privati, anche all’inquinamento dell’aria. I gravi effetti di questo tipo di inquinamento sulla salute della popolazione, specialmente in aree svantaggiate come la pianura padana, non hanno ancora ricevuto un’attenzione adeguata da parte delle amministrazioni pubbliche e sono oggetto di procedure di infrazione che possono portare a multe salate. Nelle principali aree urbane il riscaldamento residenziale da solo, infatti, è responsabile del 64% della quantità di PM 2,5, del 53% di PM 10 e del 60% di monossido di carbonio. La Direttiva è pertanto un’imperdibile occasione di responsabilizzazione delle forze politiche e della società civile, la cui partecipazione proattiva non è solo necessaria ma è la chiave del possibile successo della transizione ecologica, qui e negli altri settori, con tutte le sue difficoltà.
15 febbraio 2024. Survey delle politiche e delle misure adottate in Italia per l'energia e il clima nel 2023
Il Paese, nel primo anno della nuova amministrazione centrale, presenta comportamenti incerti e contraddittori nello sviluppo della legislazione e della pianificazione rispetto agli obiettivi consolidati nel negoziato internazionale sul clima dopo l’Accordo di Parigi. Altri paesi camminano a velocità maggiore e noi paghiamo il costo dell’inazione, che il ministro Costa valuta in 17 miliardi di euro per il solo 2023. Sottolineiamo tuttavia che l’Italia ha votato tutti i documenti rilevanti del negoziato, in particolare il Dubai consensus di fine anno 2023 e che continua a schierarsi sulle posizioni più avanzate nella lotta al cambiamento climatico in tutte le sedi internazionali. Analoga osservazione vale rispetto agli indirizzi della politica europea della decarbonizzazione (net-zero) per il 2050 e al pacchetto delle proposte Fit for 55 e REPowerEU. Infatti né nei provvedimenti del governo dell’ultimo anno, né nella manovra di bilancio 2024, si trova il segno di una strategia per il loro conseguimento. Sugli incentivi alla riqualificazione energetica, gli evidenti passi indietro legati alle critiche sul 110%, non sono compensati da alcuna misura positiva. La più volte proclamata eliminazione progressiva o conversione dei sussidi ambientalmente dannosi non fa passi in avanti. L’opportunità di recuperare preziose risorse per sostenere la decarbonizzazione e la riconversione dei settori industriali superati confligge con gli infiniti timori di togliere benefici a talune categorie, alcune delle quali stanno prendendo atteggiamenti contrari alle politiche ambientali. Valga come esempio di scelta in contrasto con gli obiettivi della decarbonizzazione il finanziamento dell’autotrasporto su cui la manovra 2024 mette 1,549 miliardi di euro a sostegno del settore senza alcun accenno alla necessaria riforma del settore trasportistico. Si nota piuttosto l’insistenza sulle cd. grandi opere in aperto contrasto col principio del DNSH, Do No Significant Harm. La Legge di bilancio taglia i fondi al Ministero dell’Ambiente, non promuove la green economy, non contempla risorse per il clima né per l’adattamento né per il dissesto idrogeologico. Definiremo dormiente anche la questione della giusta transizione. La CGIL segnala oltre 120.000 posti di lavoro a rischio per la transizione e molti altri, in proporzione, negli indotti ma, afferma, i posti di lavoro nuovi sono molti di più. Le recenti polemiche sulla componentistica automotive italiana mettono in luce, più che il rischio occupazionale, la mancanza totale di un piano industriale e il disinteresse o l’incapacità di offrire ai lavoratori percorsi di transizione capaci di rispondere ad una domanda crescente di professionalità, sempre più inevasa. Lo segnala senza mezzi termini il Rapporto della Confindustria del 2003 sul lavoro. Il sostegno alla transizione ecologica richiede di aumentare i fondi a disposizione dell’università e dei centri di ricerca pubblica e promuovere programmi di ricerca nel campo dello sviluppo delle tecnologie rinnovabili, dell’economia circolare, dell’efficienza energetica, del rischio idrogeologico, della mobilità sostenibile. Si fa notare che senza questi investimenti non si potrà determinare l’auspicata convergenza del capitale privato sui temi dell’innovazione ecologica e digitale, né si potrà far crescere la competitività e la produttività della gran parte delle piccole e medie imprese, maggioritarie nell’economia italiana.
7 novembre 2023. L'economia di domani dagli Stati generali della green economy 2023 Introduzione e presentazione di Edo Ronchi al Rapporto 2023 Una green economy decarbonizzata, circolare e rigenerativa. Un certo “eco-scetticismo”, abbastanza diffuso in Italia, è alimentato da una visione distorta dei costi della transizione ecologica e riduttiva dei suoi benefici. Siamo ormai entrati in una crisi globale, climatica ed ecologica senza precedenti, che impatterà profondamente, non in un lontano futuro ma entro un decennio, sulla nostra economia. La transizione ecologica è ineludibile. Senza la transizione ecologica la nostra economia sarebbe gravemente colpita dalla precipitazione disastrosa della crisi climatica ed ecologica. Le fattispecie nazionali sono diverse ma i costi sono economicamente e socialmente sostenibili per i Paesi prime mover? I benefici, economici e sociali sono superiori, o almeno comparabili, ai costi? Costi e benefici di un’economia decarbonizzata. La decarbonizzazione accelerata della nostra economia è molto impegnativa, ma economicamente fattibile, con benefici superiori ai costi. Sulle cause della crisi climatica non ci sono più dubbi razionali. L’evidenza dei gravi impatti in Italia è ormai tale da suscitare motivata insofferenza nei confronti delle posizioni negazioniste. L’idea che dobbiamo aspettare che siano la Cina o l’India a guidare la decarbonizzazione è paralizzante e poco razionale. Saranno i più avanzati a trascinare gli altri o dobbiamo aspettarci il contrario? Secondo un recente studio di Confindustria e Rse, la piena attuazione degli obiettivi europei di decarbonizzazione al 2030 richiederebbe investimenti in media 14,7 miliardi l’anno. Il 58% riguarderebbe il settore elettrico: 59 miliardi per i nuovi impianti (33 per il fotovoltaico e 26 per l’eolico), più altri 27 per le reti di distribuzione e per pompaggi e accumuli, idrogeno verde e infrastrutture di ricarica. Nel settore residenziale l’aumento degli investimenti sarebbe di 38 miliardi e nel terziario di 28. Nel settore dei trasporti invece vi sarebbe una riduzione degli investimenti di circa 13 miliardi: la decarbonizzazione comporterebbe sì un forte aumento della penetrazione delle auto elettriche (7,2 milioni), con una riduzione consistente però di 3,7 milioni del parco auto (da 38,7 milioni di auto circolanti nel 2019 a 35 milioni nel 2030). Questi maggiori investimenti al 2030 genererebbero il risparmio di energia di origine fossile importata, in totale dal 2020, di 132 Mtep, con una spesa ridotta di 30 G€, nonché un taglio delle emissioni cumulate di CO2 di ben 380 Mt, per un costo risparmiato stimato in 36 G€: il risparmio totale di queste due voci sarebbe di circa 66 G€ nel decennio, risparmio che proseguirebbe anche negli anni successivi. Questi investimenti hanno anche un effetto moltiplicatore sulle attività economiche e sulle entrate del bilancio dello Stato: fra Irpef, imposte dirette e indirette, contributi sociali e altre entrate correnti, al netto delle perdite di accise e Iva sui carburanti fossili, si arriverebbe nel decennio a maggiori entrate per lo Stato di ben 530 G€ cumulate al 2030. Il pacchetto di decarbonizzazione sarebbe in grado di generare anche nuova occupazione: in totale l’aumento delle Unità lavorative annue (Ula) sarebbe nel decennio di ben 11,5 milioni, un potenziale annuo di oltre 1,1 milioni di Ula in più. La bozza del nuovo PNIEC. Nella bozza del giugno 2023 del nuovo Piano per l’energia e il clima la stima degli investimenti aggiuntivi nel periodo 2023-2030, è di 217 G€, 70 in più di quello citato da Confindustria-Rse. Nella bozza del nuovo Pniec sono significativamente minori sia i target che gli investimenti del settore elettrico: per gli impianti di generazione di elettricità da fonte rinnovabile (29,6 rispetto ai 59 G€ della Confindustria-Rse) e per il sistema delle reti e di accumulo (16 contro 26,8). I maggiori oneri per gli investimenti nel nuovo Pniec sono concentrati nel settore trasporti (solo veicoli) e nel settore residenziale. Manca però la stima del risparmio dei costi delle emissioni e dei combustibili fossili cumulati al 2030 e anche delle maggiori entrate nelle casse dello Stato generate dall’aumento degli investimenti. La debolezza dello scenario del nuovo Pniec è evidenziata anche dalla comparazione con quello che considera un target avanzato di produzione di elettricità da fonti rinnovabili previsto dallo studio Enel Foundation, Elettricità Futura e Althesys. Lo studio analizza due scenari: quello base con un incremento a 102 GW di nuove rinnovabili al 2030 e uno più avanzato, con 123 GW. Poiché siamo a 61 GW nel 2023, si tratterebbe di un aumento medio annuo di circa 5,8 GW nello scenario base e circa 9 GW nell’avanzato. Gli investimenti, cumulati dal 2022 al 2030, sono pari a 247 G€ con lo scenario base e 296 G€ con quello più avanzato. Gli impatti economici sulle filiere produttive sono positivi per tutti e due gli scenari (288 332 G€), con aumento di occupati (370.000 e 430.000). Molto positivo sarebbe anche l'incremento delle entrate fiscali (13,4 e 15,4 miliardi). Lo studio valuta anche gli impatti che vi sarebbero in uno scenario no action, senza nuove iniziative: nel periodo 2022-2030 avremmo solo 94,2 G€, 120.000 posti di lavoro e le entrate fiscali pari a 4,3 G€. Costi e benefici di un’economia più circolare. Nello scenario business as usual, elaborato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, aumenta la quantità di rifiuti riciclati da 126 nel 2021 a 141 Mt nel 2030, con un incremento di circa il 12%, raggiungendo il 77% nel 2030 (dal 70% nel 2020); la produzione di rifiuti però cresce del 4% e la quantità da smaltire cala di poco: da 53 nel 2020 a 42 Mt nel 2030. Il consumo interno di materiale sale da 459 del 2020 a 611 Mt nel 2030 (+7,5%). Nello scenario più circolare si mira a una riduzione del 3,5% annuo per il consumo complessivo di materiali a partire dal 2022, a una crescita del tasso di riciclo di 1,5% annuo dal 2021 e a una riduzione nella produzione dei rifiuti dell’1% dal 2021. Nello scenario più circolare, il consumo complessivo dei materiali nel 2030 diminuirebbe del 14,5% rispetto al 2020, calerebbe la quantità di rifiuti prodotti (-17 Mt al 2030), aumenterebbe la quantità di rifiuti sottoposti ad attività di riciclaggio (+18% al 2030), portando il tasso di riciclo nel 2030 all’89,8%. Dalla comparazione emerge che nel 2030 rispetto al 2020 lo scenario più circolare farebbe diminuire sensibilmente la dipendenza dell’Italia dall’approvvigionamento dall’estero con una riduzione di 40 Mt e un risparmio di 82,5 G€, a fronte di un incremento delle importazioni di 80,4 Mt, per maggiori costi di circa 166 G€. Diminuirebbe anche la produzione totale dei rifiuti di 17 Mt, mentre nello scenario Bau cresceranno di quasi 8 Mt. L’aumento dei tassi di riciclo, anche con un calo della produzione di rifiuti, consentirebbe non solo una tenuta, ma un incremento importante delle quantità riciclate (+20 Mt), con un aumento dell’occupazione nel settore di oltre 46.000 unità. Crescerebbero anche di dimensioni le attività legate alla prevenzione (riutilizzo, riparazione e sharing) che porterebbero a una riduzione della produzione dei rifiuti del 10%, con un incremento dell’occupazione atteso di oltre 50.000 unità. Complessivamente lo scenario più circolare comporterebbe nei settori del riciclaggio, riutilizzo, riparazione e noleggio un’offerta aggiuntiva di quasi 97.000 nuovi posti di lavoro. Costi e benefici di un’economia rigenerativa. Vi sono anche ragioni economiche per sostenere la transizione a un’economia rigenerativa, o nature positive, con un impatto a saldo zero, in equilibrio con le capacità rigenerative del capitale naturale. Nel IV Rapporto sullo stato del capitale naturale del 2021 sono riportati i risultati di uno studio che ha analizzato 12 servizi ecosistemici e i costi economici del loro deterioramento avvenuto fra il 2012 e il 2018: 72 milioni di metri cubi in meno di risorsa idrica ricaricata in acquiferi, per una perdita economica di 14 M€; 166.000 tonnellate in meno di biomassa agricola, che hanno determinato una perdita economica di circa 36 M€; l’incremento dell’erosione del suolo (da 11,63 a 11,69 t/ha) ha causato una perdita di circa 17 M€; le trasformazioni della copertura del suolo hanno ridotto la capacità di regolazione dei regimi idrologici, con perdite stimate fino a 3,8 G€; la scomparsa di vegetazione naturale ha provocato un calo di circa 2,5 Mt di carbonio immagazzinato, per una riduzione di benefici economici compresa tra 491 e i 614 M€. L’impact assessment che accompagna la Nature restoration law europea contiene dettagliate stime sui costi e sui benefici per il ripristino di diverse tipologie di ecosistemi, per i diversi Paesi europei, compresa l’Italia. Il rapporto tra i benefici e i costi è decisamente positivo, con valori particolarmente elevati per gli ambienti acquatici. L’Italia, rispetto alla media europea, dovrebbe sostenere minori costi per il ripristino degli ecosistemi sia in relazione al Pil, sia per abitante, avendone una quota relativamente più bassa in condizioni non buone. L’Italia avrebbe benefici per circa 2,4 G€ dal ripristino degli ecosistemi, sostenendo costi di intervento di risanamento e di tutela di 261 M€. Le tematiche strategiche della green economy in Italia Emissioni e crisi climatica. Secondo le stime preliminari di Ispra, nel 2022 le emissioni di gas serra in Italia sono rimaste sostanzialmente pari ai livelli 2021 (+0,1). In ottica di decarbonizzazione il trend si conferma del tutto insufficiente. L’andamento stabile delle emissioni nel 2022 è riconducibile, da un lato, alla crescita registrata nei trasporti e nella produzione di energia, rispettivamente +5,5% e +9,6% sul 2021, e dall’altro alla forte contrazione delle emissioni connesse al riscaldamento (-11,3%) e all’industria (-5,9%). Nel 2022 tutti i grandi Paesi europei sarebbero tornati praticamente al livello delle emissioni pre-pandemiche. L’Italia ha avuto un rimbalzo particolarmente importante nel 2021 (+10%, il doppio della media europea), mentre nel 2022 la crescita è stata praticamente nulla, a differenza degli altri grandi Paesi europei in cui le emissioni sono aumentate da meno del 3% a quasi il 7% della Spagna. Dal 1990 al 2022 le emissioni GHG in Italia si sono ridotte di quasi il 20%, al di sotto della media europea del 25%, meno di Francia (-22%) e Germania (-36%), anche se meglio di Polonia (-12%) e Spagna (+6%). In termini di intensità e di valori pro capite l’Italia mantiene performance migliori rispetto alla media europea, anche se questo vantaggio si sta progressivamente riducendo: nel 2022 per l’UE 27 l’intensità carbonica media è stata di 264 gCO2eq/€ di Pil, mentre l’Italia si è attestata su circa 240. L’Italia, inoltre, ha generato 7,1 tCO2eq per abitante nel 2022, migliore della media europea di 8,1. Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Ispra, il 2022 è stato l’anno anno più caldo della serie che parte dal 1961. L’Italia si trova al centro del bacino del Mediterraneo, classificato come hotspot del cambiamento climatico, ossia un’area dove l’aumento delle temperature avviene più velocemente rispetto alla media mondiale e gli effetti del riscaldamento globale si manifestano con maggiore intensità. Il 2022 è stato l’anno più secco degli ultimi sessant’anni, con un lungo periodo di siccità, insieme a un aumento di precipitazioni brevi e molto intense che hanno creato danni e alluvioni. Le fonti rinnovabili. Nel 2022 il contemporaneo calo delle rinnovabili e dei consumi di energia ha mantenuto stabile al 19% la quota delle rinnovabili in Italia, confermando un trend inadeguato a raggiungere il nuovo obiettivo europeo al 2030 del 42,5% sancito dall’aggiornamento della Direttiva sulle rinnovabili. L’uso termico si è attestato a 10,5 Mtep, in calo rispetto al 2021, ma stabile intorno ai livelli dell’ultimo decennio. Per quanto riguarda i trasporti le rinnovabili hanno raggiunto quasi 1,6 Mtep nel 2022, in leggero aumento rispetto al 2021. Il biodiesel da solo costituisce ancora il 90% di tutti i biocarburanti, ma si conferma ancora nel 2022 il trend di crescita del biometano, 0,19 Mtep pari a circa 210 milioni di metri cubi (+26% rispetto al 2021). Nel 2022 le rinnovabili hanno coperto solo il 35% della produzione elettrica nazionale, uno dei valori più bassi degli ultimi dieci anni. La causa principale è da ricondurre al crollo della generazione idroelettrica per la siccità. L’unica fonte rinnovabile in crescita è stata il fotovoltaico (+12% rispetto al 2021), mentre eolico, geotermoelettrico e bioenergie hanno tutte registrato una lieve contrazione (circa -2%). Nel complesso la generazione da rinnovabili nel 2022 si è fermata a 101 TWh, il 13% in meno del 2021. Nel 2022 sono stati installati 3 GW di nuovi impianti da fonte rinnovabile, il triplo rispetto alla media degli ultimi anni, soprattutto grazie a fotovoltaico (+2,4 GW) ed eolico (+0,5 GW), mentre la Francia ha installato 5 GW, la Polonia 6 GW, la Spagna 9 GW e la Germania 11 GW. Nel primo semestre del 2023 la generazione da rinnovabili è cresciuta del 4% e ha coperto il 35% del fabbisogno nazionale di elettricità. L’idroelettrico registra una discreta ripresa (+18%), in aumento anche il fotovoltaico (+4%), mentre è in calo l’eolico (-3%). Nel 2022 i consumi finali di energia si sono ridotti del 3,5% rispetto all’anno precedente, arrivando a 109 Mtep. Il settore che ha tagliato di più nel 2022 è quello degli edifici (residenziali, commercio e servizi): ha consumato 45,4 Mtep, l’8% in meno rispetto al 2021, sia per effetto degli sforzi di risparmio energetico sia dell’inverno particolarmente mite. L’industria nel 2022 ha consumato 23,8 Mtep, con un calo del 7%; l’agricoltura 2,9 Mtep, un valore stabile rispetto all’anno precedente; i trasporti invece 36,7 Mtep, +5% rispetto al 2021. Dal 1990 gli edifici hanno aumentato i consumi del 32%, i trasporti del +12%, l’agricoltura ha circa gli stessi livelli di consumo di energia di trent’anni fa, mentre l’industria li ha ridotti di ben il 30%. L’impennata dei prezzi e la necessità di ridurre le importazioni di gas dalla Russia, in seguito all’invasione dell’Ucraina, ha prodotto cambiamenti significativi nel mix delle fonti nel 2022 con un aumento significativo (+30%) del consumo interno di carbone, da 5,5 a 7,4 Mtep, un taglio del gas (-10%) da 62,4 a 56,1 Mtep e una riduzione dei prodotti petroliferi (-5%), da 53,5 a 50,3 Mtep. Anche le fonti rinnovabili hanno registrato un calo senza precedenti (-7%), da 30 a 27,5 Mtep del 2022, principalmente per il crollo dell’idroelettrico. Economia circolare. Nel 2022 l’Italia ha prodotto 3,3 €/kg di risorse consumate, molto meglio della media in Europa (2,1). La percentuale di riciclo di tutti i rifiuti nel 2020 in Italia è stata del 72%, a fronte di una media europea del 58%. Secondo i più recenti dati Ispra, che fanno riferimento al 2021, il tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani è sceso di 0,3%, attestandosi al 48,1%, mentre il riciclo dei rifiuti speciali è pari a circa il 72,1%. Buono in Italia è anche il tasso di utilizzo di materia proveniente dal riciclo, del 18,4% nel 2021, a fronte dell’11,7% nell’UE. Per quanto riguarda questo specifico indicatore, l’Italia si conferma in quarta posizione nel confronto con i 27 Paesi UE, dietro soltanto a Paesi Bassi (33,8%), Belgio (20,5%) e Francia (19,8). La crescita del dato italiano ha raggiunto il picco nel 2020 (20,6%), per poi iniziare una progressiva discesa nei due anni successivi. Nel complesso (2012-2021), l’Italia ha registrato un aumento del 4,5%, mentre la Francia è cresciuta di 2,9 e la Germania di 1,5. Spagna e Polonia hanno invece visto una complessiva riduzione, rispettivamente di 1,8 e 1,5%. Capitale naturale e biodiversità. I dati del Biodiversity Information System for Europe (Bise) del 2023 ci dicono che l’Italia tutela nel complesso il 21,4% del proprio territorio e il 6,9% del proprio mare, entrambi valori inferiori alla media dell’UE. Per quanto riguarda le aree protette a terra siamo al 19° posto nell’UE 27, mentre per quelle marine solo quattro Paesi membri tutelano una superficie minore della nostra. Di contro, l’Italia ha i più rilevanti valori di biodiversità: siamo secondi, dietro alla Spagna per numero di specie d’interesse comunitario e primi per numero di habitat. I risultati del monitoraggio sullo stato di conservazione di specie e habitat tutelati dalla Direttiva Habitat hanno evidenziato una conservazione sfavorevole per il 54% della flora terrestre e delle acque interne, il 53% della fauna terrestre e delle acque interne e l’89% degli habitat terrestri e delle acque interne. Le minacce di maggior rilievo per la conservazione della biodiversità sono le forme di agricoltura intensiva e la crescita di insediamenti e infrastrutture. Un fattore di pressione insidioso è rappresentato dagli incendi. Nel periodo 2006-2022 l’Italia è il Paese europeo col più elevato numero di incendi (una media di 275,9 all’anno) e secondo solo alla Spagna per aree bruciate ogni anno (più di 50.000 ettari). La risorsa idrica e la crisi del territorio. L’Italia, per conformazione del territorio e collocazione geografica, è un Paese naturalmente esposto a ricorrenti crisi idriche determinate sia da precipitazioni troppo intense che da una loro assenza prolungata. Ci troviamo in una nuova fase, di anormalità climatica permanente. Le misure adottate in passato per contenere le alluvioni e i rischi a esse associati, e per mitigare gli impatti della siccità, non sembrano più in grado di conservare una pari efficacia nel nuovo quadro climatico, caratterizzato da fenomeni sempre più intensi e sempre più frequenti e prolungati. Abbiamo urgente necessità di aggiornare e integrare il quadro conoscitivo complessivo, attualmente alquanto carente, con riferimento alla disponibilità delle risorse idriche e agli utilizzi effettivi, alla frequenza attesa e all’intensità dei fenomeni meteorologici e delle connesse risposte del sistema idrografico. L’elevato fabbisogno finanziario per la difesa del suolo si scontra non tanto con la disponibilità quanto con la ridotta capacità di spesa degli enti locali in particolare. Deve essere portata a unitarietà la programmazione degli interventi e, soprattutto, dei flussi di finanziamento. Occorre rafforzare l’impegno per un’agricoltura sostenibile che promuova il risparmio e l’uso razionale e ottimizzato della risorsa idrica. Per ridurre il rischio che precipitazioni intense generino alluvioni, vanno valorizzate soluzioni basate sulla natura, favorendo l’espansione dei fiumi nei loro alvei, nelle loro zone golenali, nelle aree umide e di laminazione naturale delle piene. L’agricoltura. Nel 2020 risultavano attive in Italia 1.133.023 aziende agricole, con una riduzione del 30,1% rispetto al 2010. Negli ultimi dieci anni è diminuita anche la superficie agricola utilizzata (Sau) del 2,6%, ben maggiore della riduzione media europea che è stata dello 0,97%. La dimensione media delle aziende agricole italiane (11,1 ettari) rimane piccola, inferiore alla media europea (17,3 ha) e molto inferiore a quella di Germania (55,8 ha) e Francia (69,6 ha). Il volume della produzione del settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca nel 2022 è diminuito dell’1,5%. Nel settore è calato anche il valore aggiunto dell’1,8%, a fronte di un aumento del valore aggiunto complessivo dell’economia nazionale del 3,9%. La quota dell’agroalimentare sul totale dell’economia nazionale si è quindi ridotta, dal 4% del 2021 al 3,8% del 2022. Le principali cause della sofferenza della produzione agricola in Italia nel 2022 sono legate da una parte all’instabilità dei mercati internazionali delle materie prime agricole e dei prodotti energetici, accentuata dal conflitto russo-ucraino che ha determinato un forte aumento dei prezzi, e dall’altra dall’andamento climatico, caratterizzato da scarse precipitazioni e da temperature molto elevate nei mesi estivi, che ha influito sulla quantità dei raccolti e sulla qualità delle produzioni. Alla fine del 2022 la superficie biologica in Italia è di 2.349.880 ha, il 18,7% della Sau totale, con un aumento del 7,5% rispetto al 2021. Negli ultimi tre anni l’incremento medio è stato del 5,6%. Mantenendo questi ritmi sarà possibile centrare il target europeo del 25% entro il 2030. Nel 2022 il valore del mercato interno dei prodotti biologici ha raggiunto 3,66 G€, con un aumento dello 0,5% rispetto al 2021, che invece aveva fatto segnare una riduzione. Il mercato del biologico cresce meno dell’agroalimentare nel suo complesso (+6,4%) e l’incidenza delle vendite sulla spesa per l’agroalimentare italiano si attesta al 3,6%, con una lieve flessione (-0,3%) rispetto al 2021. I trasporti. Nel 2022 sono state immatricolate 1.316.000 autovetture, il 10% in meno del 2021. Sono aumentate le immatricolazioni solo delle auto Gpl (+10%) e ibride (+6%), sono crollate quelle a metano (-66%), diminuite quelle diesel (-20%) e a benzina (-16%), ma anche quelle elettriche (-15%). Le emissioni specifiche medie delle nuove immatricolazioni nel 2022 sono scese a 118,8 gCO2/km, cioè -0,8% rispetto al 2021. Nel 2022 il tasso di motorizzazione italiano è cresciuto a 683 auto ogni 1.000 abitanti, superando la soglia dei 40 milioni, con 390.000 veicoli in più rispetto al 2021: benzina e diesel rappresentano ancora circa l’86% del totale, un solo punto percentuale in meno del 2021. Il numero di auto immatricolate da gennaio a giugno del 2023 è stato pari a 843.000 circa, contro le 687.000 del primo semestre 2022, con un incremento percentuale del +22,8%. Le auto full-electric immatricolate al 30 giugno 2023 sono state 32.000 in tutto, 7.900 in più rispetto allo stesso periodo del 2022: valori ancora molto bassi, anche in relazione a quello che accade negli altri Paesi europei dove la quota di mercato delle BEV è in costante aumento. La bassa penetrazione dell’auto elettrica nel mercato in Italia è collegabile al ridotto accesso agli incentivi: l’importo massimo finanziabile per un’auto full-electric nel 2023, con prezzo di listino non superiore a 35.000 euro, è di 5.000 € rottamando il proprio veicolo e di 7.500 € per persone con Isee inferiore a 30.000 €, contributi inferiori rispetto al 2021 quando era 8.000 € per tutti coloro che rottamavano un’auto, senza limiti Isee. Interessante da segnalare il progetto del Leasing sociale, lanciato in Francia, che punta tra il 2024 e il 2030 a consentire a 900.000 famiglie meno abbienti di guidare una BEV pagando un canone compreso tra 70 e 200 euro al mese, a seconda della classe del veicolo. Il quadro europeo e internazionale Nel 2022 la siccità prolungata nell'Africa orientale, le precipitazioni da record in Pakistan e le eccezionali ondate di caldo in Nordamerica, Cina e Europa hanno colpito decine di milioni di persone, provocato l'insicurezza alimentare, aumentato la migrazione di massa e causato miliardi di dollari di danni. La concentrazione la CO2 misurata a Mauna Loa nelle Hawaii continua a salire: siamo a 424 ppm e la temperatura media superficiale terrestre, indice del global warming, ha raggiunto nel 2022, il sesto anno più caldo della serie, 1,06°C in più rispetto alla media preindustriale 1880-1900. L’Organizzazione meteorologica mondiale e Copernicus registrano per l’Europa il riscaldamento più veloce di altre regioni e circa il doppio rispetto alla media globale. Gli eventi meteoclimatici ad alto impatto nel 2022 hanno provocato in Europa oltre 16.000 vittime, per la gran parte dovute a ondate di calore: è stata l’estate più calda mai registrata. Le emissioni dei primi cinque emettitori mondiali nel 2022 sono state 23,3 Gt di CO2, pari al 65% del totale. La Cina le ha aumentate dell'1,2% nel 2020 e del 6% nel 2021, mentre le ha diminuite dell'1,5% nel 2022. Nel 2022 le emissioni degli Stati Uniti sono cresciute del 3,2%, quelle dell’Europa del +0,5% e quelle dell'India ancora rapidamente, del +7%. La Russia, il quinto maggiore emettitore, le ha aumentate ogni anno dal 2019 al 2021, ma diminuite dell'1,8% nel 2022. Nel 2020, con la pandemia, il consumo globale di energia è calato del 4,7% ma quello di energia rinnovabile, compresa la tradizionale biomassa, ha continuato a crescere del 2,6% su base annua, portandosi al 19,1% del totale. L'uso di elettricità rinnovabile nel consumo globale è salito dal 26,3% nel 2019 al 28,2% nel 2020. Le fonti rinnovabili sono il 24% dell'energia utilizzata per il riscaldamento, con un aumento dell’1% nel 2020, mentre il settore dei trasporti continua ad avere una bassa penetrazione, solo il 4% del consumo finale di energia nel 2020. Secondo l’IEA, circa 2.800 GUS$ dovrebbero essere investiti a livello globale nell’energia nel 2023, di cui oltre 1.700 destinati a tecnologie pulite. L'Inflaction Reduction Act (IRA), convertito in legge negli Stati Uniti il 16 agosto 2022, mobilita 500 GUS$ per la riduzione delle emissioni di carbonio, la promozione dell'energia pulita, la riduzione dei costi sanitari, con investimenti e agevolazioni fiscali a favore delle imprese americane. Molti incentivi fiscali dell'IRA contengono anche obblighi di produzione o di appalti interni al Paese. Sono espliciti gli intenti del Piano americano di arginare la concorrenza cinese nei settori della transizione energetica ed ecologica e di rilanciare l’industria e l’economia americana, con effetti importanti anche sulla competitività con quelle europee negli stessi settori. Dalla pubblicazione a fine 2019 del Green Deal europeo per affrontare il cambiamento climatico, la più grande sfida dei nostri tempi, e trasformarlo in un’opportunità per costruire un nuovo modello economico, l’UE ha compiuto uno sforzo senza precedenti per conquistare una posizione mondiale avanzata nella transizione climatica ed ecologica. Con il piano NextGenerationEU, presentato il 27 maggio 2020, ha messo in campo 750 G€, parte in prestiti e parte in donazioni, per sostenere la ripresa europea dalla pandemia, finanziando programmi di riforme e di investimenti, con due indirizzi chiari e prioritari: la transizione climatica ed ecologica e la transizione digitale. Con il pacchetto Fit for 55, presentato a metà del 2021, la Commissione ha indicato la roadmap per la decarbonizzazione dell’economia europea. Il pacchetto contiene 13 proposte legislative sull’energia e sul clima, che hanno lo scopo di mettere l’UE in condizione di centrare l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 come previsto dal Regolamento (Ue) 2021/1119 del Parlamento europeo.
7 Novembre 2003. In una visione sistemica le transizioni sono due: quella ecologica è trasformativa e necessaria, quella climatica è una preoccupante distopia (di Toni Federico) La visione sistemica della transizione è stata sviluppata per una iniziativa di formazione per addetti della PA con l'obiettivo di ristabilire alcuni paradigmi scientifici e mettere a fuoco le transizioni, quelle indotte nello stato dell'ecosistema globale dai fattori di pressione antropogenica generati dall'uso insostenibile dei combustibili fossili e quelle prefigurate come politiche di risposta con l'ambizione di modificare lo stato del sistema per riportarlo, a livello globale er locale, su un percorso di sostenibilità ambientale e sociale entro i limiti planetari di Raworth-Rockström. La visione sistemica è la capacità teorica e pratica di osservare, pensare, modellare, simulare, analizzare, progettare e sintetizzare componenti, funzioni, connessioni, strutture, interrelazioni e dinamiche attraverso discipline, funzioni, organizzazioni, persone, tendenze e culture in modi che portano a interventi approfonditi sui problemi per ottenere soluzioni in linea con lo sviluppo sostenibile. La visione sistemica, della quale troviamo una anticipazione di grande spessore in Aristotele, è l'idea che tutti i fenomeni e le azioni dei sistemi sono composti da sottosistemi interrelati. Un tutto non è solo la somma delle parti, ma il sistema stesso può essere spiegato solo come una totalità. La visione sistemica è, quindi, l’opposto del riduzionismo cartesiano, il metodo scientifico sinora prevalente, che vede il totale come la somma delle sue parti individuali. Nella teoria tradizionale dell'organizzazione, così come in molte scienze, i sottosistemi sono stati studiati separatamente, con l'obiettivo di mettere insieme le parti in un tutto in un secondo momento. La visione sistemica sottolinea che ciò non è possibile e che il punto di partenza deve essere il sistema nella sua complessità. Un sistema è definibile in vari modi dal punto di vista formale, ma abbiamo un nucleo semantico unico e condiviso. Nella storia della scienza si sono succedute definizioni diverse, anche contrapposte, ma ogni sistema è un insieme di elementi che co-operano per raggiungere un obiettivo, non un insieme di elementi assemblati casualmente ma piuttosto di elementi funzionalmente associati ad una finalità: le parti interagiscono per raggiungere un obiettivo. Un sistema comprende input, processi e output. Quindi un sé ed un altro da se, spesso definito come ambiente. Delineare un sistema comporta il disegno del suo confine: il sistema è all'interno del confine; l'ambiente è fuori. In alcuni casi è abbastanza semplice definire cosa fa parte del sistema e cosa no; in altri casi, la persona che studia il sistema può definire arbitrariamente i confini. Noi lavoriamo con le rappresentazioni concettuali (modelli) e computazionali dei sistemi di cui ci serviamo per tentare di comprendere la realtà e talvolta per cercare di prevederne l’evoluzione futura, ma non sempre i concetti e le leggi fisiche spiegano la complessità dei fenomeni. Una intera classe di approcci sistemici allo studio dell’ambiente è stata aperta nel 1993 dall’OECD con il modello PSR, Pressure, State, Response. In questo caso si tratta di un modello concettuale il cui scopo è di spiegare, almeno in parte, le fenomenologie ecologiche complesse. Non è un modello matematico basato su variabili ed equazioni, come prescrive la Teoria generale dei sistemi; non è dinamico, non include cioà il tempo, né è adattativo. Le variabili di stato vengono sostituite dagli indicatori che non hanno con esse un rapporto formale. L’approccio ad indicatori ha avuto un successo universale e definitivo ed è andato a coprire interamente lo spazio del System thinking dedicato alla comunicazione. Sarà la base per tutte le politiche dello sviluppo sostenibile orientate agli obiettivi: sugli indicatori vengono costruiti i Millennium Development Goals, gli MDG del 2000, gli SDG dell’Agenda 2030 e lo stesso Accordo di Parigi. L’approccio sistemico formale resterà comunque protagonista della ricerca scientifica per la modellazione ecosistemica, come accade pere le attività coordinate dall’IPCC per il caso del clima. Di transizione allo sviluppo sostenibile si parla già nell’Our Common Future della Brundtland (15 volte come transizione verso un SD e 10 volte come transizione energetica). Nell’Agenda 21 la parola appare rispettivamente 5 e 3 volte appena. Nell’Agenda 2030 solo una volta. Non è quindi un termine della cultura e della tradizione dello sviluppo sostenibile. Ci permettiamo di suggerire che lo sarebbe diventato con il Green Deal della Ursula Von der Leyen (52 citazioni, due per pagina), quando si fa chiarezza in Europa sul fatto che lo sviluppo sostenibile resterebbe un’utopia senza cambiamenti sostanziali dell’economia e della società. La metafora che rappresenta lo spirito di Rio, va detto, è quella della crescita. Nel ‘92 il muro di Berlino è stato abbattuto da tre anni e, ben al di là delle lezioni dei Meadows (Limits to growth del ‘72) e della Brundtland, fu facile accreditare l’utopia kennediana che ”A rising tide lifts all boats” grandi e piccole. Abbiamo invece visto crescere le diseguaglianze all’ombra della globalizzazione, imprevedibile a Rio, assai più che il welfare, e la natura degradare inesorabilmente. I PIL sono cresciuti ovunque, tranne che nei paesi ex URSS, ma questa contraddizione ha semplicemente spezzato il nesso tra crescita e sostenibilità, dato troppo per scontato. Da tempo si sta lavorando per “andare oltre il PIL” (E. Giovannini, J. Stiglitz, 2018) e in primavera il Parlamento Europeo ha patrocinato un convegno su questo fondamentale passaggio. Il cambiamento climatico è ormai un incubo perché trascina l'ecosistema globale verso un tipo di transizione irreversibile che può cambiare le condizioni di sopravvivenza della specie umana. Il clima è un sistema, tra i più complessi in natura, che governa le dinamiche della troposfera e il ciclo vitale dell’acqua, La troposfera è uno strato gassoso di una decine di km che avvolge la terra e consente le forme vitali che conosciamo, uomo compreso. Nella pratica si preferisce definire il clima come lo stato medio del meteo su lunghi periodi, area per area. Perché temere il cambiamento climatico? Del clima conosciamo i piccoli cambiamenti, aleatori e perfino erratici, ma la vita sul pianeta si è sviluppata ed adattata a regimi modesti di variazione delle dinamiche climatiche, atmosferiche e oceaniche. La stessa civiltà umana, le città, le campagne, l’agricoltura e le abitudini degli esseri viventi hanno avuto luogo entro quei margini di variabilità. Che succederebbe di fronte a rapide e violente alterazioni delle variabili di stato del clima, prima fra tutte le temperatura media superficiale della terra e dei mari, Tmst, determinata del bilancio tra energia solare ricevuta ed energia termica riemessa dalla terra? Le due energie sono identiche in condizioni climatiche mediamente stabili. Senza l’effetto serra dei gas atmosferici Tmst sarebbe di –18 °C, al di fuori dell’intervallo termico in cui l’acqua è liquida e la vita sarebbe impossibile nella forma attuale. A luglio 2023 siamo arrivati a + 17,2 °C, il record, con una anomalia rispetto al periodo preidustriale di 1,54 °C. C’è ben poco di lineare in un sistema complesso come il clima, nel quale taluni effetti possono essere senza proporzione rispetto alle cause, per effetto della straordinaria sensibilità alle condizioni iniziali dei sistemi caotici (si ricordi il mito della farfalla di Lorentz). In certa misura può essere lineare il global warming, la Tmst, rispetto alla concentrazione dei gas serra. Rispetto agli andamenti paleoclimatici, la novità distopica è che le attività umane potrebbero avere il potenziale di spingere componenti del sistema Terra oltre gli stati critici, verso modalità operative qualitativamente diverse, cioè innescare transizioni climatiche irreversibili che implicano impatti su larga scala sui sistemi umani ed ecologici. A tali fenomeni è stato dato il nome di tipping points (tipping = ribaltamento), seguendo la nozione popolare secondo cui, in un particolare momento nel tempo, un piccolo cambiamento può avere grandi conseguenze a lungo termine. Nelle discussioni sul cambiamento globale, il termine tipping è stato utilizzato per descrivere una varietà di fenomeni nonlineari, tra cui la comparsa di un feedback positivo, transizioni di fase reversibili, elementi di svolta nel sistema climatico terrestre, transizioni di fase con effetti di isteresi e biforcazioni in cui la transizione è graduale ma il percorso futuro è imprevedibile. La definizione formale del tipping point per sottosistemi almeno a scala subcontinentale è il punto dello spazio delle fasi in cui, in determinate circostanze, avviene una transizione irreversibile in uno stato qualitativamente diverso. Per anni è andata avanti la disputa sull’origine del cambiamento climatico, se fosse la natura con la sua variabilità, il sole o i vulcani o non piuttosto l’uomo con le sue pratiche industriali, come già era stato messo in chiaro per la distruzione dello stato protettivo dell’ozono (il famoso ῝buco“). Contrariamente alle affermazioni dei negazionisti, la certezza definitiva dell’origine antropogenica del cambiamento climatico in atto è recente. Il board dell’IPPC lo ha stabilito soltanto nel IV AR del 2007. In base ai dati le cause naturali a comportamento aleatorio non possono spiegare il cambiamento in atto. Quando si firmò la Convenzione contro i cambiamenti climatici a Rio nel 1992 e quando fu firmato lo storico Protocollo di Kyoto nel 1997, non ci si basava su questa certezza ma sul Principio di precauzione che in sostanza recita che: ῝Anche senza certezze scientifiche non si può rinunciare ad agire contro i fattori sistemici (ambientali) avversi“. La transizione energetica è il nocciolo della transizione ecologica trasformativa, non la esaurisce ma, se non va a segno, la transizione ecologica fallirà. Non abbiamo target diretti per l’energia ma indiretti: la Tmst non deve superare, a meno di brevi e non auspicabili overshoot, gli 1,5 °C o, in extrema ratio, i 2 °C. Ciò comporta la decarbonizzazione compensata in tutto il mondo e in tutti i settori dell’economia entro il 2050 o poco oltre e quindi, possiamo dire, che da quella data i combustibili fossili dovranno rimanere sottoterra, fatta la dovuta eccezione per le materie plastiche, la farmaceutica etc. gestite in economia circolare. Si tratta di percentuali infime rispetto all’attuale insostenibile uso di carbone, petrolio e gas naturale nei settori energetico, trasportistico e civile. Le narrative, le opinioni e le politiche della decarbonizzazione sono oggigiorno numerose e diverse, secondo le condizioni specifiche dei vari paesi. Dovunque, però, la transizione energetica e la decarbonizzazione sembrano incardinate nelle politiche dei Governi. Attrae la prospettiva dell’autonomia energetica, da parte di paesi privi di risorse fossili, come quelli europei. Gli stessi paesi produttori, almeno quelli più vicini all’occidente, promuovono programmi di sviluppo delle fonti di energia rinnovabile e di decarbonizzazione. Si accresce il timore della scarsità delle materie prime e delle condizioni di vita dei lavoratori delle miniere. Si teme la formazione di monopoli nazionali, come sta accadendo da tempo per il petrolio ed il gas naturale. Spaventa la facilità con cui i mercati fanno i prezzi delle risorse, continuando a gonfiare profitti e privilegi. La sorte del clima dipende dall’energia e la condiziona. Non siamo ormai più sul percorso della decarbonizzazione al 2050. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C è necessario ridurre le emissioni di CO2 di 36 Gt entro il 2050 mediante una trasformazione su vasta scala del modo in cui le società consumano e producono energia. Gli impegni attuali, gli NDC, le strategie di sviluppo (LT-LEDS) e gli obiettivi net-zero segnano un deficit di 16 Gt nel 2050. Per rimanere sul percorso di 1,5 °C è necessario lo sviluppo annuale di circa 1.000 GW di energia rinnovabile a scala planetaria. Nel 2022, a livello globale, sono stati aggiunti circa 300 GW, pari all’83% della nuova capacità rispetto al 17% di fossili e nucleare. Sia il volume che la quota delle energie rinnovabili devono crescere sostanzialmente, il che è sia tecnicamente fattibile che economicamente sostenibile. Paradossalmente, nel 2022, si è registrato anche il più alto livello di sussidi ai combustibili fossili, poiché molti governi hanno cercato di attutire il colpo dei prezzi elevati dell’energia per consumatori e imprese. Nel 2022 gli investimenti globali in tutte le tecnologie di transizione energetica hanno raggiunto il livello record di 1,3 trilioni di dollari, ma gli investimenti di capitale nei combustibili fossili sono stati quasi il doppio di quelli investiti nelle energie rinnovabili. È necessaria un’accelerazione significativa in tutti i settori e le tecnologie energetiche, dall’elettrificazione più profonda degli usi finali dei trasporti e del calore, all’uso diretto delle fonti rinnovabili, del efficienza energetica e di tutti i potenziamenti infrastrutturali indispensabili. Di seguito i principali indicatori della transizione (IRENA). Si possono consultare due presentazioni, quella dell'autore e quella di Andrea Barbabella, coordinatore scientifico di I4C, che espone il quadro del clima globale e quello del cambiamento climatico a livello italiano e l'orientamento del sistema industriale italiano.
1 settembre 2023: Energia e clima: considerazioni di medio termine nel time frame dell’Agenda 2030. Tre passi verso la transizione. (di Toni Federico) Restano sette anni al traguardo 2030 dell’Agenda 2030. Le prospettive di successo della lotta al cambiamento climatico sono strettamente legate alla trasformazione delle modalità di produzione e consumo dell’energia. Transizione ecologica e transizione energetica sono interdipendenti al punto che l’attenzione generale è oggi sull’energia che va verso una transizione basata sul concetto di lasciare i fossili sotto terra, come ha ricordato il Segretario generale dell’ONU Guterres. L’Accordo di Parigi del 2015 è parte integrante dell’Agenda 2030, licenziata in Assemblea Generale qualche settimana prima. Assumeremo che i target di Parigi siano quelli dello SDG 13, riconoscendo in questo modo all’anno 2023 non solo il ruolo di midterm dell’implementazione dell’Agenda 2030, ma anche quello del global stocktake, del bilancio generale dell’Accordo di Parigi, che, come fu allora stabilito è il primo dei compiti della COP 28 di Dubai di quest’anno. Se di bilanci si tratta, e poiché dobbiamo rendicontare sullo stato di attuazione dell’Agenda 2030, cominciamo dal target dei target, che è l’importo delle emissioni serra nel periodo 2015 – 2022. A livello mondiale le emissioni serra salgono da 53,66 a 55,9 Gt al ritmo dello 0,6%/anno. Questa crescita porta l’anomalia termica rispetto ai livelli preindustriali a punte di oltre 1 °C. Il dato italiano si colloca in discesa nelle emissioni serra, tra 2015 e 2022, da 455,4 a 422,6 Mt al 2022 ad un ritmo annuo di circa 1% che ci porterebbe alla decarbonizzazione in circa 2 secoli. Siamo sotto del 20% rispetto al 1990, ma i progressi rallentano invece di aumentare. L’Italia è nella zona calda del pianeta, la temperatura media al suolo si avvicina al doppio della media mondiale. Il 2022 è stato l’anno più caldo mai registrato dal 1800 ad oggi, con una variazione termica complessiva di +0.87°C rispetto alla media trentennale 1991-2020, circostanza che espone il paese ad eventi estremi, ondate di calore, incendi e inondazioni, in anticipo rispetto al resto del mondo. Il bilancio del tema energia dello SDG 7 presenta luci ed ombre. Lo schema di analisi a livello globale è quello di Fig. 1 che riporteremo al periodo 2015 - 2022. Per il nostro paese non possiamo parlare in senso stretto di accesso negato all’energia, come accade a livello mondiale per le comunità che ne sono deprivate per una percentuale che nel 2021 a livello mondiale superava di poco il 10%. Dobbiamo invece parlare di povertà energetica (PE), nel senso indicato nella SEN 2017, con riferimento a chi l’energia per riscaldarsi e mangiare non se la può permettere che, anche in Italia, è un fattore di povertà assolutamente grave. In Italia l’incidenza della PE. ha toccato l’8,5%, con un massimo del 16,7% in Calabria, in crescita di mezzo punto percentuale al 2022 in seguito all’aumento dei prezzi finali di elettricità e gas. Nel 2015 si misurava il 7,6%. Siamo dunque in regressione del 12% l’anno. I provvedimenti di contrasto, i bonus elettrico e gas, sono inutilmente aumentati di oltre 25 volte in poco meno di 3 anni (da 200 milioni a 5 miliardi) estendendosi a quasi un quinto delle famiglie italiane. Il target sull’energia rinnovabile ci vede invece in vantaggio rispetto alla media mondiale, ma non di molto. SDG 7 non esplicita obiettivi quantitativi ma parla genericamente di crescita. Nel 2022 i consumi finali rinnovabili (FER) assommano con il metodo Eurostat a 23 Mtep, il 19,2% dei 120 Mtep totali. Benché l’obiettivo per il 2020 (17%), sia stato di fatto raggiunto già dal 2014, il modesto trend di crescita degli ultimi anni porta comunque a ritenere molto sfidante il target 2030. Con il 17,5% del 2015 la crescita annuale è infatti di appena il 1,4% che al 2030 ci porterebbe al 20,9%, meno della metà del target europeo del Fit for 55 del 42,5%. I consumi elettrici rinnovabili sono di 316,9 TWh (37%) nel 2022 contro il 33,5% del 2015, con una crescita midterm di 3,5 punti percentuali che ci porterebbe nel 2030 a poco più del 40%, ben al di sotto del raddoppio richiesto dall’Europa. Il target dell’intensità energetica al 2030 dell’Agenda 2030 a livello mondiale è il raddoppio del tasso di miglioramento rispetto al 2015. La trascrizione a livello locale non è semplice, specie in Italia dove i consumi energetici primari sono sostanzialmente stabili e tutto si gioca sul PIL. Assumiamo i dati SDG 7 Eurostat e misuriamo il PIL in PPS. Al 2015 l’intensità primaria italiana è 4,096 MJ/€PPS, pari a 4,39 MJ/US$PPS, il 21,6% meglio del dato medio mondiale di Fig. 1. Assegniamo al trend italiano 2015 la media corrente tra 2015 e 2021 pari a -0,087 MJ/€PPT*anno. Al 2030 tale dinamica deve essere raddoppiata rispetto al 2015. Immaginando una progressione lineare fino al raddoppio del trend 2015, il target per l’Italia al 2030 è di 3,36 MJ/€PPS pari a 80 grammi equivalenti di petrolio per €PPS, laddove nel 2021 l’intensità energetica italiana è di 3,57 MJ/€PPS. L’algoritmo dell’Agenda 2030 si dimostra congruente con il target europeo, proprio perché nel 2015 il trend italiano dell’intensità energetica era buono. Supposto per EU 27 un incremento al 2030 del GDP fino a 22.230 GUS$ e l’Italia in media europea, l’impegno ultimativo dell’Europa che con il REPowerEU prescrive 980 Mtep di consumi di energia primaria al 2030, ci assegna a quella data un obiettivo di intensità energetica pari a 3,3 MJ/€. Tutto questo è quanto proviene dalla dimensione prescrittiva dell’Agenda 2030 e dell’Accordo di Parigi che integra lo SDG 13. I target dello SDG 13 sono di natura orientativa e rinviano alla Convenzione climatica dell’ONU. Sappiamo quindi che dobbiamo contenere l’anomalia termica tra gli 1,5 e i 2 °C e che si tratta di uno sforzo che ha prospettive di successo solo con uno sforzo mondiale unitario. Gli interessi, le esitazioni e gli scetticismi ci tengono lontani dal percorso del target, ma abbiamo alcune certezze. Intanto un impianto scientifico poderoso, inclusivo ed affidabile, a cura del IPCC, sostiene lo sforzo con attività di diffusione della migliore ricerca a livello mondiale. A fronte di talune posizioni nel nostro paese, che più che negazioniste sono scettiche ed inerti, riaffermiamo in tutte le sedi e con forza che i risultati scientifici sono il nostro punto di riferimento. Non è ideologia. Siamo i primi a sapere che la scienza fabbrica dubbi ed ipotesi molto più che certezze, ma proprio per questo i punti fermi del IPCC sono per noi riferimenti certi. Dobbiamo decarbonizzare l’economia entro metà secolo ed è per questo che stiamo intraprendendo le transizioni giuste, ecologica, energetica e digitale con tutti i correlati. Andiamo verso un’altra economia, non necessariamente rivoluzionata, che non userà più i combustibili fossili, che proteggerà e ricostruirà gli ecosistemi e la biodiversità, che utilizzerà i materiali e i manufatti in maniera circolare e che considererà le diseguaglianze e le discriminazioni sociali un fattore di arretratezza e di rallentamento dello sviluppo, piuttosto che una comoda prassi per accumulare ricchezza nelle mani di pochi. La battaglia climatica è la prima grande sfida che dirà se il sentiero della sostenibilità potrà essere intrapreso con successo. Senza stabilizzare il clima l’umanità non ha futuro, quindi le transizioni sono battaglie per la sopravvivenza, in cui l’intelligenza umana è perfettamente in grado di coniugare il cambiamento con il progresso che ha reso dominante la specie umana, aiutata da una conoscenza scientifica e da una strumentazione tecnologica che non hanno precedenti nella storia. Non sappiamo in che misura la transizione ecologica avrà successo, ma i target posti a Parigi sul global warming dicono che il clima comunque cambierà e con esso anche la società e i comportamenti individuali dovranno adattarsi a nuove fenomenologie, ancor più gravi di quelle già gravi che ci hanno colpito nel 2023. L’adattamento è il primo target dello SDG 13, ma senza mitigazione non è una soluzione, come recita l’Accordo di Parigi. È costoso e irto di difficoltà, per il suo carattere di dipendenza dal territorio e dalla cultura e dalle capacità delle popolazioni. A livello globale si sta cercando di dare all’adattamento un target globale unico, come l’anomali termica per la mitigazione a non più di 1,5°C. Potrebbe alla fine essere finanziario piuttosto che tecnico. Ma chi, come noi in Italia, sta già pagando per il cambiamento, non può certo aspettare quel target. Ci siamo dotati di un Piano per l’adattamento, il PNACC, timido, privo di risorse e di governance, pieno di cose da fare e vuoto di modalità per farle. Di esso abbiamo già detto e raccomandato come renderlo operativo. L’inazione ci sta costando cifre più alte della prevenzione e soprattutto grave è l’assenza di un messaggio chiaro e responsabile rivolto ai cittadini da parte del governo e delle amministrazioni locali, al di sopra della politica, che permetta loro di partecipare e mettere la loro conoscenza del territorio al servizio della comunità senza aspettare i volontari per spalare via il fango. Le misure di contrasto ai cambiamenti climatici (tg. 13.2) vengono inserite nelle politiche, nelle strategie e nei piani nazionali, ancora in maniera troppo esitante e contraddittoria. A metà del cammino possiamo rivendicare la modifica che inserisce in Costituzione i diritti delle giovani generazioni e quindi lo sviluppo sostenibile; la trasformazione del CIPE in CIPESS e l’istituzione del Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica (CITE) che coordina le politiche di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, entrambi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Mettendo a confronto l’Italia con gli altri paesi europei, manca un ruolo attivo degli organismi scientifici che in maniera indipendente possano orientare le politiche dell’amministrazione. Anche con riferimento al target 13.3 possiamo testimoniare, in qualità di attori primari, della larga penetrazione dei concetti della sostenibilità nella società civile e nel mondo della scuola ed anche del progressivo e consapevole schieramento del mondo industriale in favore delle tematiche ambientali ed ESG e delle green e circular economies. L’Italia non sta rispettando gli impegni per il Green Climate Fund, prescritti dal tg. 13a. Il Governo Draghi ha portato il contributo finanziario per il clima a 1,4 GUS$ all'anno per cinque anni a partire dal 2022. L'importo è notevolmente inferiore a quello che dovrebbe essere il giusto contributo del paese al fondo GCF di almeno 4 GUS$. Non possiamo invece rendicontare i tg. 7a,b e 13b per i quali non v’è documentazione ufficiale. Rispetto agli aiuti ai paesi in via di sviluppo il “Piano Mattei” dell’attuale governo punterebbe a trasformare l’Italia nella porta d’accesso europea del gas e dell’energia prodotta nella sponda Sud del Mediterraneo. L’idea di un tal Piano è stata lanciata in una chiave di reciproca convenienza e di aiuto allo sviluppo dei paesi poveri, ma non è ancora chiaro in cosa consisterà, dato anche il quadro politico incerto di molti dei Paesi nordafricani che ne dovrebbero essere i protagonisti. Tre passi per una transizione giusta Comunità degli sforzi. Il punto chiave non è tecnico né politico, ma piuttosto culturale. La transizione ha bisogno di visione, partecipazione e comunità di intenti, tutti fattori controversi nel corpo sociale italiano. È tradizione antica che l’Italia si presenti in tutte le scadenze ed i negoziati internazionali, Assemblee generali ONU, COP, G7, G20 etc. sempre in linea con le posizioni più avanzate e coraggiose, con l’Europa e con i paesi del Nord del mondo. Anche se la presenza italiana si è raramente segnalata per originalità e leadership, è certo che il mondo intero e tutti i paesi in via di sviluppo ci vedono come un paese responsabile e d’avanguardia. Nella stessa Agenda 2030 i target 13. 1 e 2 si tengono vicendevolmente, sostanzialmente prescrivendo che per integrare nelle politiche, nelle strategie e nei piani nazionali le misure di contrasto ai cambiamenti climatici occorre migliorare l'istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e istituzionale riguardo ai cambiamenti climatici. Ciò comporta una visione comune che non è un’ideologia né tantomeno una religione, ma un patrimonio anche minimo di convinzioni condivise e scientificamente fondate che dica, ad esempio, che il cambiamento climatico è in atto, che è antropogenico e che deve essere fermato. Al contrario media e leader politici sembrano in favore di contrapposizioni artificiose che fanno audience e portano voti, con poco rispetto per quello che per la scienza è ormai certo. Anche i giovani di Greta e di ultima generazione, che chiedono solo di essere ascoltati, vengono discriminati e derisi. La qualità dei meccanismi istituzionali di consultazione dei giovani, quali che siano le tematiche in gioco, è un indice della forza di ogni democrazia. L’Europa affronta nei suoi documenti più recenti la complessità del problema chiamando in causa le diseguaglianze che la causa profonda della minore fiducia nelle istituzioni nazionali e dell'EU, nonché nella democrazia liberale in generale. La messa in discussione dei diritti civili, il crescente malcontento e la mancanza di un'agenda positiva causano l’erosione della fiducia nelle istituzioni pubbliche, la polarizzazione e la fioritura di movimenti estremisti, autocratici o populisti. A livello globale, il livello di democrazia di cui gode il cittadino medio è sceso ai livelli di trent’anni addietro. La democrazia è sempre più messa alla prova come modello di governance più adatto ad affrontare le crescenti questioni socio-economiche ed ambientali. In Europa alcuni dei requisiti fondamentali per una democrazia funzionante sono compromessi, come mostrano le sfide allo stato di diritto e una crescente cittadinanza silenziosa che non va a votare, non partecipa e non si assume responsabilità. Anche la personalizzazione della politica è in aumento, con i leader politici considerati più importanti dei partiti. La polarizzazione del dibattito politico e il senso di isolamento sono amplificati dalla disinformazione, dai social media e dai pregiudizi algoritmici di sapore millenaristico. Inoltre, le comunità che si sentono abbandonate alimentano il disimpegno e il malcontento. Il fallimento nell'affrontare la salute delle democrazie europee potrebbe mettere a dura prova sia il lancio di politiche sostenibili che la stessa transizione. Il ruolo dell’ASviS nei prossimi sette decisivi anni ne risulta amplificato proprio perché, in controtendenza, nei primi otto ha allargato a dismisura il perimetro della discussione partecipata sulla sostenibilità e sul clima, tanto nella società civile quanto nelle istituzioni. Dotare l’Italia di una Legge per il clima. Il secondo passo è una seria mobilitazione per il phase out dei combustibili fossili dalla nostra economia. La decarbonizzazione, come ci viene ripetuto ad ogni piè sospinto, sarebbe inutile senza i giganti, Cina, India, USA. L’Italia emette il 2% e l’EU circa il 10%. Ma l’Italia è un paese guida, un G7 e un G20, e con l’Europa ha una sola carta in mano che è accelerare la decarbonizzazione e sviluppare un’economia rinnovabile, circolare ed inclusiva, in modo da conquistare un’autonomia energetica e tecnologica per ora lontana e trainare i mercati da protagonista, come Cina ed USA stanno cercando di fare per conto loro. La competitività europea può unicamente essere basata sull’innovazione poiché, in alternativa, diventeremmo irrilevanti all’ombra delle nostre piccole percentuali. Ad essa va aggiunto il rilancio delle politiche di aiuto allo sviluppo dei paesi arretrati. È quanto EU sta cercando di fare con il Green Deal e i suoi sviluppi, non senza successo. Anche le aree di opposizione al Green Deal confusamente percepiscono che la transizione è la via anche per rendere sostenibile il problema delle migrazioni, senza porsi alla coda di un fenomeno mondiale immaginando impossibili approcci repressivi o umilianti compra-vendite. Si agita lo spauracchio dei tempi stretti della transizione, ma in realtà si tratta di più di un quarto di secolo. Gli obiettivi al 2030 sono sfidanti, ma compatibili con il sistema industriale e, se accompagnati da politiche sociali avvedute, si possono raggiungere senza toccare né il lavoro né il welfare né le convenienze degli investitori. La nostra cura è aprire le strade, muovere i fattori abilitanti, acquisire il consenso. I Piani per la mitigazione e l’adattamento, PNIEC e PNACC, sono sul tavolo, ma devono essere trasferiti in una Legge per il clima votata in Parlamento. Solo così le occasioni diventano scadenze, a cominciare dai phase out dei sussidi ambientalmente e climaticamente dannosi. Con la dovuta gradualità si può cominciare a modificare il regime delle agevolazioni in modo da svelare gli alti costi dell’economia fossile e, dopo qualche attrito di primo distacco, aprire la strada alle convenienze universali dell’economia rinnovabile e circolare. L’impresa titanica è smobilitare il sistema gas, dominante in Italia. Non abbiamo petrolio né carbone né fracking e il gas lo paghiamo a cifre esose anche se viene da paesi amici. Sembrerebbe quindi facile capire che ogni tep consumato in rinnovabili è un tep in meno di gas naturale e che, in lunga prospettiva, del metano si può fare a meno. Allora perché l’idea velleitaria di fare dell’Italia lo snodo, il supermercato, ovvero l’hub del gas? È vero, l’Africa è vicina, ma può dare in solare e in idrogeno verde molto di più che in gas e guadagnare in sviluppo molto di più che dando contratti alle multinazionali del fossile, come insegna il caso della Nigeria. Perché allora non un hub dell’idrogeno green fatto con il solare dove è in eccesso permanente? Potremmo cominciare proprio dalla Sardegna facendone un caso esempio, invece di finanziare la costruzione dell’ennesimo tubo destinato a non trasportare niente. Intanto siamo fuori dal primo grande progetto della pipeline europea per l’idrogeno che è ispano-franco-tedesco, al di là delle polemiche sull’idrogeno nucleare francese. Perché poi alimentare una polemica quotidiana contro la mobilità elettrica, finora millesimale, quando Stellantis, quel che resta dell’automotive italiana, sta mettendo sul mercato due modelli economici per le famiglie e dichiara un possibile rinuncia ai motori a combustione interna nel 2030, cinque anni prima della scadenza europea? Perché dire che il tutto elettrico della fine di questo secolo metterà in crisi la rete elettrica di trasmissione e di distribuzione, pensando a quella di oggi? La rete elettrica smart dei prossimi anni, supportata dalle tecnologie digitali e dall’intelligenza artificiale, è lontana parente di quella di oggi, è un web basato sulle fonti rinnovabili, sull’autoconsumo, sullo stoccaggio dell’energia e sull’efficienza dei consumi sia in quantità che in modalità d’uso programmate. Una legge per il clima dotata di milestone, di risorse e di ruoli metterebbe fine in fretta a queste inutili polemiche. Portare al massimo la produzione elettrica rinnovabile. Il terzo passo è l’apertura ad uno sviluppo delle fonti rinnovabili di energia e all’economia circolare della materia all’altezza degli impegni presi. L’Italia si è portata all’avanguardia nel riciclo circolare dei rifiuti, 55 contro il 48% della media europea, anche grazie alle politiche illuminate di inizio secolo. Sono stati i primi passi dell’economia circolare. Nel 2021, in Italia è stato riciclato il 73% degli imballaggi raccolti. superando l’obiettivo EU del 65% entro il 2025. L’Europa ricicla meno e vorrebbe più riuso. Ovviamente riuso e riciclo non sono in competizione ma sono complementari, tanto che per la costruzione di impianti di riciclo e raccolta differenziata, il PNRR italiano stanzia circa 2,1 miliardi di euro. La Commissione spinge per il riuso all’insegna delle filiere corte di Farm to Fork, con l’obiettivo di ridurre i rifiuti da packaging del 15% entro il 2040 in ciascun paese. Secondo la Commissione smaltire beni potenzialmente riutilizzabili produrrebbe ogni anno 35 Mt di rifiuti e perdite per oltre 12 M€. D’altra parte, grazie alla trasformazione dei rifiuti, nel 2021 l’Italia ha recuperato 285 mt di acciaio, pari a 739 treni Frecciarossa, 16 mt di alluminio che equivalgono a 1,5 miliardi di lattine e 1,8 t di vetro, pari a 5 miliardi di bottiglie di vino. Resta da fare il conto dell’impronta carbonica dei due approcci. Purtroppo stiamo assistendo in Italia al declino delle fonti rinnovabili di energia elettrica come mostrato in Fig. 4. Partiti nel secondo decennio con sussidi incentivanti sovradimensionati che hanno portato capitali in Italia e profitti all’estero, abbiamo potuto raggiungere nel 2011 un installato annuo di circa 11 GW. Da allora stiamo mestamente declinando verso lo zero con un modesto segno di ripresa solo nel 2022, sette anni sprecati. Disincentivazione intempestiva, burocrazia, pregiudizi, fake news e disinformazione possono essere tutti fattori riconoscibili di questo disastro ma ci sono forze organizzate con le quali fare i conti. Ci sono alternative allo sviluppo delle fonti rinnovabili? I consumi elettrici aumenteranno comunque percentualmente con l’avanzare del contrasto ai cambiamenti climatici, perché i rendimenti elettrici sono inarrivabili e perché si può fare elettricità senza CO2. Un progetto per il futuro deve essere esplicitamente dichiarato. Se deve essere gas naturale sappiamo che gli obiettivi di Parigi e dell’Europa saranno perduti per l’Italia. Inoltre il gas costa ed è difficile trovarlo sul mercato a causa della competizione crescente dei paesi emergenti. Il sistema industriale italiano si dichiara pronto ad andare oltre il raddoppio delle FER elettriche entro il 2030, installando 8-10 GW di nuova potenza ogni anno e tutto lo stoccaggio necessario. Con l’aiuto del PNRR si sta dando mano al reshoring delle catene del valore, pannelli, batterie e idrogeno. La strada è aperta: il percorso dell’elettrificazione rinnovabile da qui al 2050 è possibile, sostenibile e sicuro. La progressione può essere gestita anche nella chiave sociale dell’autoconsumo, del welfare e dell’occupazione, con criteri di equità e giustizia, confortati da esperienze che ormai dimostrano che i posti di lavoro aumenterebbero di numero e di qualità e che le riconversioni si possono guidare rispettando i diritti dei lavoratori ed anche le convenienze del sistema industriale e commerciale. Le comunità energetiche rinnovabili, sviluppate in chiave solidaristica, sono una chance democratica e partecipata, anche per lottare contro la povertà energetica. Energia dalla materia si può ricavare, poco dalla fissione dei macroelementi, essenzialmente uranio e torio che nemmeno abbiamo in Italia, molto di più, in prospettiva, dalla fusione dell’idrogeno con la tecnologia europea Tokamak piuttosto che con i laser nordamericani. La fissione si è logorata in decenni costellati da gravi incidenti e da rischi ancora peggiori, senza un minimo progresso rispetto alle basi fisiche e alle tecnologie postbelliche. La fusione non ha i tempi della decarbonizzazione al 2050. Gli investitori sono del tutto restii su entrambi i fronti. Concludiamo sottolineando che i tre passi per la transizione, che sono la sintesi della proposta midterm per il clima e l’energia dell’Agenda 2030 per l’Italia, sono fortemente interdipendenti e si richiamano l’un l’altro. Consapevolezza, visione e senso comunitario si accompagnano strettamente al riconoscimento del dato scientifico della natura antropogenica del cambiamento climatico e della potenziale irreversibilità sistemica dei suoi impatti. La transizione energetica è condizione per entrambi i passi poiché ancor oggi dagli usi dell’energia deriva l’80% circa dei gas che alterano il clima e riscaldano la terra e perché nel percorso da qui al 2050 non ci sono alternative ecologicamente ed economicamente credibili alle fonti di energia rinnovabile. > leggi l'intero documento
Giugno 2023: La retorica dello sviluppo sostenibile: il greenwashing Contributi di Simona Fabiani (CGIL), Toni Federico (ed.; Fondazione per lo sviluppo sostenibile), Grazia Francescato (Verdi Europei), Domenico Gaudioso (GHGMI Italia), Mariagrazia Midulla (WWF), Flavio Natale (ASviS)
Il Segretario generale delle Nazioni Unite ha incaricato il gruppo di esperti ad alto livello sugli impegni net zero dei soggetti privati e delle amministrazioni di affrontare le promesse e gli impegni da parte di attori non statali, tra cui società, istituzioni finanziarie e amministrazioni locali e regionali. Nell'intraprendere il proprio lavoro, e per formulare le proprie conclusioni e raccomandazioni, il gruppo di esperti si è basato sulla credibilità dei soggetti e sui quadri di definizione degli standard per gli impegni net zero. Il gruppo di esperti riconosce che le capacità e le esigenze differiscono ampiamente all'interno e tra gli attori non statali. Sebbene l'attenzione delle raccomandazioni si sia concentrata sui criteri e gli standard che si applicano alle grandi società, agli istituti finanziari, alle città e alle regioni, il gruppo di esperti riconosce che anche gli attori non statali più piccoli svolgono un ruolo importante e avranno bisogno di sostegno e assistenza per accrescere le proprie capacità. In sette mesi, i membri del gruppo hanno tenuto oltre 40 consultazioni regionali e tematiche, coinvolgendo oltre 500 organizzazioni in tutto il mondo. Il gruppo ha inoltre ricevuto quasi 300 contributi scritti da organizzazioni, iniziative e individui interessati. I cinque principi suggeriti dagli esperti delle Nazioni Unite sono in sintesi:
Il percorso suggerito dagli esperti delle Nazioni Unite a tutti gli operatori non statali si può rendere sotto forma di un decalogo di raccomandazioni:
Giugno 2023: Il nuovo Piano nazionale energia e clima: dieci raccomandazioni per l'abbandono dei combustibili fossili La crisi energetica e quella climatica sono fortemente interdipendenti e richiedono decisioni complesse, da adottare in stretto raccordo tra di loro per conseguire gli obiettivi europei fissati per il 2030 e il 2050. Si tratta di decisioni che investono politiche economiche e fiscali, politiche industriali e della ricerca, politiche sociali, con evidenti riflessi sul funzionamento del sistema economico e della nostra società. Di fronte alla crisi climatica l’Italia presenta numerose fragilità e rischi. Infatti, il nostro Paese si riscalda più rapidamente della media dei Paesi europei e della media globale. Siamo già oltre i 2°C di anomalia termica rispetto al periodo preindustriale e il numero degli eventi climatici estremi ha avuto un picco nel 2022. D’altra parte, i consumi di energia e le emissioni di gas climalteranti per unità di Pil sono più limitate di quelle di altri Paesi europei, anche per il clima temperato del territorio italiano rispetto al Nord Europa, e la media efficienza della nostra industria manifatturiera. Tra il 2014 e il 2022 l’Italia ha ridotto di poco le proprie emissioni, da 435 a 414 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente (MtCO2eq). Si tratta di una riduzione di appena 21 milioni (-4,8%) in nove anni. Con questo ritmo rischiamo di arrivare alla neutralità climatica fra un secolo, non entro il 2050 come concordato nell’Unione europea. Inoltre, con questo ritmo l’obiettivo europeo per il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 appare del tutto irraggiungibile, anche tenendo conto dei sistemi di compensazione delle emissioni (Emission Trading System, ETS). Il nuovo Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) e una Legge sul clima per l’Italia dovrebbero indicare come procedere lungo la via della decarbonizzazione, allocando risorse e definendo regole. Il tutto, in coerenza con la nuova Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile. Entro giugno 2023 anche l’Italia, come gli altri Stati membri dell’Unione europea (UE), dovrà presentare alla Commissione europea la proposta di revisione del proprio PNIEC secondo quanto previsto dall’articolo 14 del Regolamento UE sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima del 2018. Il Piano dovrà essere approvato in via definitiva entro un anno e avrà durata decennale. Ai primi di maggio il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha aperto la consultazione sulla bozza del nuovo PNIEC, senza rendere disponibile un testo, ma cercando soltanto di sondare statisticamente le opinioni dei diversi stakeholder. La consultazione è avvenuta attraverso un questionario che “rappresenta la fase iniziale di un processo di informazione e condivisione a vari livelli con cittadini, industrie, operatori del settore, regioni, comuni, parlamento, che durerà fino a giugno 2024, data di presentazione alla Commissione UE della versione definitiva del PNIEC, e che comprenderà anche strumenti di consultazione sul testo più strutturati, come la VAS, e canali istituzionali come la Conferenza Unificata”. La consultazione ha avuto termine il 26 maggio. I punti di riferimento ineludibili per la predisposizione del nuovo PNIEC, nel quadro dell’Agenda 2030 dell’Onu e dell’Accordo di Parigi, sono gli impegni previsti dall’UE con il Green deal e il Pacchetto di Proposte “Pronti per il 55%” (Fit-for-55), mentre il Rapporto AR6 dell’Intergovernmental Panel on Clmate Change (IPCC) fornisce il quadro informativo che spiega perché questi impegni non sono dilazionabili. Nel nostro Paese i percorsi strategici della transizione energetica sono ormai avviati e incorporati anche nelle scelte del sistema produttivo orientate a processi di riconversione green, accelerati a seguito della crisi indotta dalla guerra in Ucraina, che implicano investimenti ingenti da parte delle imprese. Proprio per questo, è indispensabile e urgente definire gli scenari delle politiche pubbliche, in coerenza con gli obiettivi concordati, mentre optare per scelte politiche divergenti rispetto al percorso finora indicato rischia di vanificare gli sforzi fatti e di far perdere al Paese competitività e crescita. Al contrario, l’impegno verso la transizione energetica ed ecologica dell’Italia va accelerato e rafforzato con programmi e misure di supporto più efficienti e capaci anche di proteggere al massimo le persone e le imprese chiamate a cambiamenti significativi, accompagnandole con programmi di riconversione e formazione in grado di ridurre i costi della transizione.
Dieci raccomandazioni per un Piano energia e clima capace di cogliere gli obiettivi europei
Marzo 2023: Il nuovo Piano nazionale per l'adattamento ai cambiamenti climatici. Dieci proposte per evitare ciò a cui non possiamo adattarci e adattarci a ciò che non possiamo evitare Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), licenziato dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) a seguito della sollecitazione della Presidente del Consiglio dopo i gravissimi fatti di Ischia. In realtà, una bozza di Piano e una Strategia per l’adattamento erano stati elaborati dal Ministero da anni con gli apporti scientifici di ISPRA e del CMCC, ma il precedente Ministro della Transizione ecologica (MITE) non aveva ritenuto di perfezionarlo, così come è accaduto per il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), che riguarda gli indirizzi politici e operativi per la mitigazione climatica e la transizione energetica. Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica alla fine del 2022, è il risultato del percorso avviato dal MATTM nel 2017, così come previsto dalla Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici (SNACC). Nel 2018, a seguito della condivisione con la Conferenza Stato-Regioni della bozza di Piano, il Ministero ha ritenuto di sottoporre il documento al procedimento di Valutazione Ambientale Strategica (VAS).
Si è dunque proceduto alla verifica di assoggettabilità (2020) e alla fase di scoping (2021), che si è conclusa con la comunicazione dell’Autorità competente (giugno 2021) che ha trasmesso il parere della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale – VIA e VAS (n. 13 del maggio 2021). Sulla base delle numerose osservazioni pervenute si è reso quindi necessario apportare sostanziali modifiche alla versione del PNACC del 2018 a seguito delle quali è stata prodotta la versione pubblicata nel dicembre 2022. La qualità scientifica del lungo lavoro di preparazione consente di condividere le impostazioni di principio, le analisi e le valutazioni che confermano la necessità di adottare con estrema urgenza misure adeguate di prevenzione e di risposta agli effetti dei cambiamenti climatici in atto e, prevedibilmente, agli effetti che attendono i nostri territori nel futuro. In particolare, i quattro allegati al Piano, recanti le indicazioni metodologiche per l’elaborazione di strategie e piani nella dimensione regionale e locale, forniscono utili elementi di quadro e strumenti specifici, i quali mantengono la loro attualità, sebbene elaborati nel 2020 e quindi impossibilitati a tener conto delle più recenti pubblicazioni scientifiche a partire dal Sesto Assessment Report dell’IPCC (2021-2022), nonché degli avanzamenti sulle conoscenze da parte della comunità scientifica, delle linee di azione dettate dalle decisioni dell’UNFCCC e degli altri strumenti globali di governance ambientale. Tali indicazioni consentirebbero di indirizzare meglio e avviare la progettazione di azioni operative a carattere locale, anche in assenza di un quadro nazionale definitivo e vincolante, come suggerito anche dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel Rapporto 2022 (WG II, SPM). Oltre a individuare alcune azioni finalizzate al rafforzamento della governance (tra cui la costituzione di un Osservatorio dedicato) e delle competenze tecniche per l’adattamento a livello nazionale (azioni cosiddette soft), il PNACC propone un database di azioni di adattamento, così come già individuate e definite nell’ambito della versione del Piano del 2018, così suddivise: I. 274 azioni soft (76% del totale), II. 46 azioni green (13% del totale), III. 41 azioni grey (11% del totale). Tali azioni costituiranno il contesto di riferimento per gli interventi che verranno presentati dalle Regioni, dagli Enti Locali e da altri Enti pubblici. Trattandosi di un database realizzato nel 2018, ovvero prima che si delineasse il più recente quadro normativo europeo di interesse per la tematica dell’adattamento (Il Green Deal europeo nel 2019, la nuova Strategia dell’UE di adattamento ai cambiamenti climatici nel 2021, la Legge europea sul clima nel 2021), l’auspicio è che l’Osservatorio provveda a un aggiornamento delle azioni in esso contenute, anche al fine di riequilibrare la componente territoriale degli interventi (azioni green e grey rispetto a quelle soft) e rafforzare la componente green delle azioni, in linea con gli indirizzi europei, anteponendole con assoluta priorità a quelle grey laddove possibile.
Dieci raccomandazioni per l'adattamento
15 gennaio 2023. Verso il successo l'attività di ripristino dell'ozono stratosferico
L'attività ambientale per salvare lo strato di ozono sta funzionando come sperato e potrebbe concludersi in pochi decenni, afferma un nuovo Rapporto delle Nazioni Unite. L’accordo di Montreal del 1987 per bandire le sostanze chimiche dannose che stavano danneggiando lo strato ha avuto successo.
Il 16 maggio 1985, tre scienziati del British Antarctic Survey annunciano su Nature di aver rilevato livelli anormalmente bassi di ozono sopra il Polo Sud. La loro scoperta, comunemente nota come buco dell'ozono, è un esempio tangibile della capacità dell'umanità di danneggiare l'atmosfera, nonché una delle storie di maggior successo tra quelle dell'attivismo climatico. Lo strato di ozono è una regione della stratosfera terrestre contenente alti livelli di ozono (O3), che impedisce efficacemente a gran parte della radiazione ultravioletta più dannosa del sole di raggiungere la superficie del pianeta. Dagli anni '70, gli scienziati hanno spinto per la regolamentazione dei clorofluorocarburi, sostanze chimiche presenti in oggetti di uso quotidiano come condizionatori d'aria e spray aerosol, a causa dei loro effetti negativi su questo strato, ma è stato il documento Nature a rivelare specificamente l'esaurimento annuale dell'ozono in un punto sopra l'Artico. La comunità internazionale è stata insolitamente rapida nell'agire. Entro due anni, in risposta diretta all'articolo di Nature e ad altri studi, 46 nazioni hanno firmato il Protocollo di Montreal, impegnandosi a eliminare gradualmente le sostanze note per causare l'esaurimento dell'ozono. Tutti i 197 membri delle Nazioni Unite alla fine ratificheranno il trattato e, di conseguenza, gli scienziati ora prevedono che lo strato di ozono tornerà ai livelli precedenti al 1980 prima della fine del 21° secolo. La relativa velocità e l'adozione unanime del trattato in tutto il mondo hanno portato l'ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan a definire il protocollo di Montreal "forse l'unico accordo internazionale di maggior successo fino ad oggi". Lo strato di ozono è una parte sottile dell'atmosfera terrestre che assorbe la maggior parte della radiazione ultravioletta del sole. Quando si apre, questa radiazione può raggiungere la superficie, causando danni agli esseri umani e agli altri esseri viventi. I raggi ultravioletti possono danneggiare il DNA e causare scottature solari, aumentando il rischio a lungo termine di problemi come il cancro della pelle. Lo strato di ozono ha iniziato ad esaurirsi negli anni '70. I clorofluorocarburi (CFC), che si trovano comunemente in bombolette spray, frigoriferi, isolanti in schiuma e condizionatori d'aria, sono stati individuati come la causa del degrado dello strato di ozono. L'impoverimento dell'ozono stratosferico è causato dalle emissioni di origine umana di particolari sostanze (ODS) e il conseguente rilascio di gas alogeni reattivi, soprattutto cloro e bromo, nella stratosfera. Gli ODS comprendono i clorofluorocarburi (CFC), gli halon contenenti bromo e bromuro di metile, gli idroclorofluorocarburi (HCFC), il tetracloruro di carbonio (CCl4) e il metilcloroformio. Gli ODS sono di lunga durata (ad esempio, il CFC-12 ha una durata in atmosfera maggiore di 100 anni) e sono anche potenti gas serra (GHG). Il buco dell'ozono antartico ha continuato ad espandersi fino al 2000, dopodiché la sua area e profondità hanno iniziato a migliorare lentamente. Ora, il Rapporto afferma che se le attuali politiche vengono mantenute, lo strato di ozono verrà ripristinato ai valori del 1980 nel 2066 sopra l'Antartide, dove l'esaurimento dell'ozono è stato il peggiore, nel 2045 sopra l'Artico e tra circa due decenni ovunque. Il salvataggio dello strato di ozono ha avuto un effetto positivo sul riscaldamento globale, suggerisce il Rapporto, perché alcune delle sostanze chimiche dannose che sono state gradualmente eliminate sono potenti gas serra, pur se le sostanze sostitutive sono state talvolta altrettanto se non più climalteranti. Non si può però fare a meno di notare che alcune proposte di geoengineering per limitare il riscaldamento globale inviando milioni di tonnellate di biossido di zolfo nell'atmosfera superiore - note come iniezione di aerosol stratosferico - potrebbero invertire drasticamente il recupero dello strato di ozono.
20 Dicembre 2022. Firmato il patto Kunming-Montreal alla COP 15 della Convenzione per la biodiversità A Montreal, sede che per motivi sanitari ha ospitato la sessione della COP 15 della Convenzione ONU sulla biodiversità prevista a Kunming in Cina nel 2020, c'è stato un ampio consenso sul testo finale presentato dopo due settimane di negoziati che include la protezione della natura nel 30% del pianeta entro la fine del decennio con l'accento sui diritti degli indigeni, l’abbattimento di dieci volte delle perdite delle specie entro il 2050, la eliminazione tendenziale di 500 miliardi di US$ di sovvenzioni dannose per l'ambiente e azioni urgenti contro le estinzioni delle specie. Importante l'enfasi sui diritti e sui territori delle popolazioni indigene che, nonostante il loro enorme contributo alla protezione della natura, spesso affrontano minacce di violenza e violazioni dei diritti. Ma nonostante gli elogi, la COP 15 si è conclusa in modo drammatico dopo che un certo numero di paesi si è lamentato che l'accordo fosse stato portato avanti in modo antidemocratico dalla presidenza cinese (in figura). L'accordo non è legalmente vincolante e si basa sulla buona volontà e sulla fiducia tra i paesi, compresi molti in Africa, sede di alcuni degli ecosistemi più ricchi del pianeta. Ecco i punti principali: Accordo per proteggere il 30% della Terra entro la fine del decennio. Ispirato dalla ambizione di proteggere metà del pianeta per la sopravvivenza a lungo termine dell'umanità, l'obiettivo di più alto profilo della COP 15 ha unito e diviso in egual misura. La formulazione finale impegna i governi a preservare quasi un terzo della Terra per la natura entro il 2030, rispettando i territori indigeni e tradizionali mediante l'espansione di nuove aree protette. Il linguaggio sottolinea l'importanza di un'efficace gestione della conservazione per garantire che le zone umide, le foreste pluviali, le praterie e le barriere coralline siano adeguatamente protette, non solo a parole. Diritti delle popolazioni indigene. I popoli indigeni sono menzionati 18 volte negli obiettivi di questo decennio per arrestare e invertire la biodiversità, qualcosa di storico. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che i popoli indigeni sono i migliori custodi della natura, rappresentando il 5% dell'umanità ma proteggendo l'80% della biodiversità terrestre. Dal Brasile alle Filippine, le popolazioni indigene sono soggette a violazioni dei diritti umani, violenze e espropri di terre. Il linguaggio nel testo è chiaro: i modelli di conservazione guidati dagli indigeni devono diventare la norma in questo decennio. Ridimensionamento dei sussidi dannosi per l'ambiente. Il mondo spende non meno di 1,8 trilioni di US$ ogni anno in sussidi governativi che incentivano l'annientamento della fauna selvatica e il riscaldamento globale. La mancanza di una riforma sui sussidi dannosi per l'ambiente è stato un grave fallimento degli obiettivi di biodiversità dello scorso decennio e i governi hanno ora concordato sull'importanza di apportare un cambiamento. Informativa per le imprese. L'accordo richiede ai governi di garantire che le grandi aziende transnazionali rivelino rischi, dipendenze e impatti sulla biodiversità delle loro attività. Se implementato, questo potrebbe essere l'inizio di un cambiamento significativo nelle pratiche commerciali. Circa la metà del PIL globale dipende dal sano funzionamento della natura e la perdita di biodiversità sta rapidamente aumentando i rischi per le attività produttive. Contro la biopirateria digitale. Prima della COP 15, le informazioni sulla sequenza digitale (DSI) erano qualcosa che pochi capivano davvero. DSI si riferisce alle informazioni genetiche digitalizzate che otteniamo dalla natura, che vengono utilizzate frequentemente per produrre nuovi farmaci, vaccini e prodotti alimentari. Queste forme digitali di biodiversità provengono da foreste pluviali, torbiere, barriere coralline e altri ricchi ecosistemi, ma è difficile risalire al loro paese di origine, con molti nel mondo in via di sviluppo che ora si aspettano un pagamento per l'uso delle loro risorse. A Montreal è stato raggiunto un accordo per sviluppare un meccanismo di finanziamento del DSI nei prossimi anni, una vittoria storica per gli Stati africani che ne volevano la creazione prima del vertice. I 23 obiettivi dell'accordo non sono sufficienti per prevenire ulteriori perdite irreversibili, anche tra le tante specie minacciate di estinzione. L'accordo non è giuridicamente vincolante e tutti i 20 obiettivi fissati ad Aichi in Giappone nel 2010 sono stati mancati. Il nuovo accordo è stato finalizzato nonostante le denunce dei paesi africani, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), sede di una delle più grandi foreste pluviali del mondo, minacciata dall'esplorazione di petrolio e gas. Ambiguo il ruolo degli Stati Uniti, presenti ma non partecipanti, perché il Senato ha rifiutato di ratificare la convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica. Molte delle decisioni e delle promesse fatte ora sarebbero state incoraggianti se fossero state prese decenni fa. Ciò detto, la cooperazione internazionale è così vitale per gli sforzi in corso volti a limitare ulteriori danni che la firma dell'accordo in una conferenza co-ospitata da Canada e Cina deve essere accolta come uno sviluppo positivo. L'obiettivo noto come "30 per 30", che significa un impegno a proteggere il 30% del pianeta - terra e mare - per la natura entro la fine del decennio, è buono e ha buone possibilità di essere preso in carico dalla società civile in molti paesi, come è accaduto nel clima per il net zero. È valido anche il concetto di piani nazionali per la biodiversità, con una funzione simile agli NDC del processo climatico delle Nazioni Unite. L'ONU ha un ruolo chiave da svolgere come amministratore della politica ambientale, ma sono i governi a prendere la maggior parte delle decisioni che determinano il rispetto degli impegni. Anche il linguaggio forte sui diritti degli indigeni è ben accetto e legato al riconoscimento dei danni ecologici, oltre che dei benefici, dello sviluppo. L'eliminazione dalla bozza finale di un obiettivo di rinaturalizzazione del 5% degli ecosistemi entro il 2030 è stata un'occasione mancata. Senza obiettivi specifici, il pericolo è che le buone intenzioni svaniscano. Altri problemi includono la mancanza di un impegno per affrontare i modelli di consumo, soprattutto in occidente, che richiedono enormi risorse oltre a produrre grandi quantità di carbonio. Le diete, in particolare quelle occidentali ricche di carne, dovranno cambiare se vogliamo avere qualche possibilità di conservare gli habitat, come l'Amazzonia, dove l'allevamento del bestiame è sinonimo di deforestazione.
30 Novembre 2022. Il Club di Roma pubblica il Rapporto 2022: "Earth for All. A Survival Guide for Humanity" a cura di Gianfranco Bologna (leggi l'originale) 50 anni dopo la pubblicazione del suo primo rapporto “The Limits to Growth” che scatenò il dibattito planetario sull’impossibilità di una crescita materiale, quantitativa e illimitata dell’umanità in una Terra dai chiari limiti biogeofisici, e dopo la pubblicazione di altri 52 rapporti, l’ultimo rapporto “Earth for All. A Survival Guide for Humanity”, pubblicato nel settembre di quest’anno dal Club di Roma e, in edizione italiana, a fine novembre, rappresenta un documento veramente importante e straordinario, perché in maniera chiara e documentata, illustra in cosa consiste concretamente un vero cambiamento di sistema per l’intera umanità. Un cambiamento ineludibile perché ci troviamo nel bel mezzo di un’emergenza a scala planetaria che noi stessi abbiamo creato. Conosciamo i punti deboli. Tutti sanno che dobbiamo porre fine alla povertà estrema per miliardi di persone, che dobbiamo arrestare la crescita delle disuguaglianze e che abbiamo bisogno di una rivoluzione energetica. Tutti sanno che le diete industriali ci stanno uccidendo e che il modo in cui ci procuriamo il cibo sta devastando la natura. Sappiamo che le popolazioni umane non possono aumentare all’infinito. E sappiamo che la nostra impronta materiale non può crescere all’infinito sulla Terra, piccolo pianeta blu e verde... “Una Terra per tutti”... basandosi sulle valutazioni di esperti supportate da modelli di dinamica dei sistemi, esplora i percorsi possibili per uscire da tali emergenze, quelli che potrebbero portare più benefici a livello sociale, ambientale ed economico per tutti. Che piaccia o meno, il rapporto “The Limits to Growth” ha dato il via a un dibattito internazionale sulla civiltà, sul capitalismo, sull’uso appropriato delle risorse e sul nostro futuro collettivo, che è continuato per molti anni dopo la sua pubblicazione. È cosa nota che Ronald Reagan tentò di screditare il rapporto affermando: “Non ci sono grandi limiti allo sviluppo perché l’intelligenza umana, l’immaginazione e la meraviglia sono illimitate”. Reagan potrà avere avuto ragione riguardo all’illimitata capacità di immaginazione di noi umani, ma resta il fatto che viviamo su un pianeta fisicamente limitato ed estremamente affollato, che sta subendo enormi cambiamenti. È ora di cominciare a usare queste illimitate risorse dell’umanità per ripensare e costruire società più eque in cui i cittadini possano prosperare e abbiano la possibilità di realizzare i propri sogni entro i confini fisici della nostra sola e unica Terra. L’analisi del rapporto si è concentrata su due sistemi profondamente legati: le persone e il pianeta, o più esplicitamente l’economia globale e il sistema di supporto vitale della Terra. Il fondamento è il pensiero sistemico... i cui strumenti ci permettono di comprendere aspetti complessi della realtà, i cicli di feedback e la portata di alcuni eventi... Il rapporto ha utilizzato un modello computerizzato di dinamica dei sistemi creato per studiare gli sviluppi del benessere umano sul nostro pianeta che è stato definito Earth4All e che presenta anche la versione regionalizzata dove sono state distinte dieci grandi regioni del pianeta, che sono Stati Uniti, Europa, Pacifico, Est Europa e Asia centrale, Medio Oriente e Nord Africa, Cina, America Latina, Sudest asiatico, Asia meridionale e Africa sub-sahariana. Il rapporto esplora in particolare due dei vari scenari elaborati: quello definito Too Little, Too Late e Giant Leap. Questi scenari prendono forma a partire da due diverse domande... Che cosa succederebbe se il sistema economico che domina sul mondo e la biosfera continuasse a funzionare esattamente come ha fatto negli ultimi cinquant’anni? Le tendenze attuali in materia di riduzione della povertà, innovazione tecnologica e transizione energetica saranno sufficienti per evitare il collasso sociale e shock di portata planetaria? La seconda domanda ... è invece la seguente: che cosa succederebbe se, con un impegno straordinario, il sistema economico venisse trasformato per dare vita a una società più resiliente? L’analisi presentata nel rapporto mostra chiaramente come il prossimo decennio vedrà la trasformazione economica più veloce della storia. La scala di questa trasformazione può addirittura spaventare. È più grande:
È tutte queste cose messe assieme e potenziate. La sfida che affronta “Una Terra per tutti” è convincere che tutto questo è fattibile. Richiederà la creazione della più ampia coalizione che il mondo abbia mai visto. E dovrà accadere mentre nei prossimi decenni il potere economico passerà dal vecchio Occidente dominante a quello che nel rapporto viene definita la “maggioranza del mondo”. In tutto il mondo abbiamo bisogno di coinvolgere la maggioranza, forze politiche di destra e di sinistra, centristi e verdi, nazionalisti e globalisti, manager e lavoratori, mondo del business e società civile, elettori e politici, insegnanti e studenti, ribelli e tradizionalisti, nonni e teenager. Dovremo ricablare il sistema economico globale. In particolare, dobbiamo ripensare le dinamiche della crescita economica, così che le economie che hanno bisogno di crescere possano farlo mentre quelle che stanno consumando troppo possano sviluppare nuovi sistemi operativi. Richiederà di ripensare il consumo di risorse, che in assenza di questi cambiamenti di rotta potrebbe raddoppiare entro il 2060. Richiederà la riforma del sistema finanziario globale per passare da quello che ci sta conducendo sull’orlo del baratro a un sistema che garantisca prosperità a lungo termine. Una delle priorità consiste nel riprogettare il flusso monetario globale. Questo significherà aggiornare le istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale per fare in modo che questo flusso rechi benefici ai poveri, non solo al 10% più ricco. Richiederà Stati più efficienti, più intelligenti e con maggiore spirito di iniziativa, che guardino al futuro mettendo al primo posto la sicurezza dei propri cittadini. I governi devono supportare attivamente l’innovazione, riformare i mercati e ridistribuire la ricchezza... Il rapporto ritiene fondamentale il passaggio dall’attuale economia della crescita a un’economia del benessere, l’innovativo e variegato ambito di pensiero economico che ha dato vita, in particolare in questi ultimi decenni a cavallo tra la fine del Novecento e gli anni 2000, a importanti proposte operative di una nuova economia, come la caring economy, la sharing economy, la circular economy, l’ecological economics, la doughnut economics ecc. La wellbeing economy può essere definita come un modello che si mette al servizio delle persone e del pianeta anziché considerarli uno strumento al servizio dell’economia e inoltre opera per soddisfare non la crescita del PIL che ormai ha assunto il simbolo totemico della ricchezza di un paese, ma indicatori di benessere che diano realmente conto dello stato di salute delle persone e dell’ambiente. Porre il benessere come obiettivo per l’economia significa soddisfare i bisogni e le capacità umane nell’ambito della realtà biofisica di un pianeta con dei limiti. Inoltre il rapporto propone due nuovi importanti indicatori che sono definiti indice di benessere medio e indice di tensione sociale. Quest’ultimo segnala i livelli di disuguaglianza che sono alla base di profonde spaccature nella società, nonché all’emergere della malsana dinamica del “noi contro loro”, che può far entrare le società in circoli viziosi negativi per il futuro. Il rapporto propone, sulla base di un’economia del benessere, cinque profondi cambiamenti di rotta che riguardano: porre fine alla povertà, affrontare e risolvere le crescenti disuguaglianze, sostenere l’emancipazione femminile, rendere il sistema alimentare sano per le persone e per l’ambiente, trasformare il sistema energetico utilizzando fonti energetiche pulite... Il rapporto Earth for All li connette tutti in un sistema dinamico, per valutare se insieme possono produrre una spinta sufficiente a orientare l’economia globale fuori dalla rotta distruttiva verso cui si sta indirizzando, avvicinandola a un percorso più resiliente. Ad esempio affrontare “solo” l’emergenza climatica richiederebbe la riconfigurazione del sistema energetico globale, base di tutte le economie, nello spazio di un’unica generazione. Molte delle soluzioni tecniche, come per esempio i pannelli solari, le turbine eoliche, le batterie e i veicoli elettrici, sono già disponibili e si stanno diffondendo in modo esponenziale... Il rapporto alla fine riassume le proposte politiche presentate che sono qui riportate: Povertà • Consentire al Fondo monetario internazionale di effettuare stanziamenti di oltre un trilione all’anno nei paesi a basso reddito per sviluppare i lavori verdi, creando investimenti attraverso i cosiddetti diritti speciali di prelievo. • Cancellare tutti i debiti verso paesi a basso reddito (con reddito pro capite inferiore a 10.000 dollari). • Proteggere le industrie nascenti nei paesi più poveri e promuovere lo sviluppo del commercio “da sud a sud”, ossia tra questi stessi paesi. Migliorare l’accesso alle energie rinnovabili e ai servizi sanitari rimuovendo gli ostacoli al trasferimento di tecnologia, compresi i vincoli di proprietà intellettuale. Disuguaglianze • Aumentare le tasse sul 10% più ricco delle società fino a quando la quota di reddito nazionale posseduta non scenderà sotto il 40% del reddito nazionale. Il mondo ha bisogno di una forte tassazione progressiva; bloccare le scappatoie fiscali internazionali è essenziale per affrontare i destabilizzanti livelli di disuguaglianza e il “consumo di lusso” di carbonio e di biosfera. • Creare un nuovo sistema di leggi per rafforzare i diritti dei lavoratori. In un momento di profonda trasformazione, hanno bisogno di protezione economica. • Introdurre i Citizens Funds per dare a tutti i cittadini una giusta quota del reddito nazionale, della ricchezza e dei beni comuni globali attraverso schemi di commissioni e dividendi. Equità di genere • Fornire accesso all’istruzione a tutte le ragazze e le donne. • Raggiungere l’equità di genere nei posti di lavoro e nella leadership. • Fornire pensioni adeguate. Cibo • Emanare nuove norme per ridurre la perdita e lo spreco di cibo. • Aumentare gli incentivi economici per l’agricoltura rigenerativa e per l’intensificazione sostenibile. • Promuovere diete sane che rispettino i confini planetari. Energia • Eliminare immediatamente i combustibili fossili e aumentare l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. Triplicare immediatamente gli investimenti nelle energie rinnovabili per arrivare ad almeno un trilione di dollari all’anno. • Rendere tutto elettrico. • Investire nell’accumulo di energia su larga scala.
29 Novembre 2022. 150 Paesi si riuniscono a Punta del Este in Uruguay per negoziare un trattato globale per mettere al bando l'inquinamento da materie plastiche La plastica è uno dei materiali in più rapida crescita e la produzione è destinata a raddoppiare, fino a superare il miliardo di tonnellate all'anno, entro il 2050. Con ciò, l'inquinamento aumenterà in proporzione. Questa settimana, i delegati di oltre 150 paesi si incontrano in Uruguay per uno storico accordo globale per porre fine all'inquinamento da plastica. A marzo, l'Assemblea delle Nazioni Unite per l'ambiente ha varato un trattato giuridicamente vincolante che considera il ciclo di vita delle materie plastiche, dalla produzione fino agli imballaggi innovativi, ai prodotti e ai modelli di business. Il trattato dovrebbe essere finalizzato entro la fine del 2024. La plastica rappresenta l'85% di tutti i rifiuti marini (Nature). L'UNEP prevede che la quantità di plastica negli oceani quasi triplicherà entro il 2040, aggiungendo da 23 a 37 milioni di tonnellate di rifiuti in più ogni anno. La stragrande maggioranza dei rifiuti di plastica mal gestiti che hanno origine sulla terra alla fine finisce nei fiumi e viene scaricata negli oceani. Il costo dell'inquinamento da plastica per la società, compresi il risanamento ambientale e il degrado dell'ecosistema, supera i 100 miliardi di dollari all'anno. Il costo dell'inazione contro i rifiuti di plastica, comne al solito, supera di gran lunga il costo per abbattere l'inquinamento. I negoziatori del trattato dovranno fare i conti con opinioni contrastanti : le NGO e i lobbisti spesso vogliono vietare la plastica monouso e trovare alternative più sicure; l'industria della plastica afferma che l'inquinamento può essere risolto migliorando la raccolta dei rifiuti; e le industrie della gestione dei rifiuti e del riciclaggio spingono per un maggiore riciclaggio. Intanto va vietata la esportazione di rifiuti di plastica dai paesi ad alto reddito ai paesi poveri. I produttori dovrebbero pagare per la raccolta, lo smistamento e il riciclaggio degli imballaggi in plastica. Ciò toglierebbe la plastica dalle discariche e allontanerebbe l'onere finanziario della gestione dei rifiuti dai governi locali, che in genere sono finanziati dalle tasse. Per ridurre la quantità di plastica che finisce negli oceani, il trattato deve includere una scadenza entro la quale i paesi devono ridurre la quantità di plastica che usano. Attualmente solo il 9% dei rifiuti di plastica viene riciclato, anche perché i rifiuti di plastica hanno poco valore. Gli scienziati dicono che se valesse qualcosa, più plastica verrebbe riutilizzata, meno finirebbe nell'ambiente e ci sarebbe anche meno bisogno di nuova plastica. I paesi dovrebbero concordare, come parte del trattato, di imporre un sovrapprezzo sulla creazione di polimeri, gli elementi costitutivi della plastica. Questo denaro potrebbe essere utilizzato per finanziare il riciclaggio. Anche i rivenditori di prodotti in plastica dovrebbero essere obbligati a riacquistare i rifiuti e trovare modi per riutilizzarli. Questo costo per i rivenditori verrebbe probabilmente trasferito sui consumatori, ma è probabile che i consumatori sarebbero disposti a pagare di più per i prodotti se sapessero che ciò riduce la quantità di plastica nell'ambiente. Un simile approccio aiuterebbe anche a porre fine alla produzione di materie plastiche che non possono essere riutilizzate o riciclate, perché non ci sarebbe nessuno a riacquistarle. Il trattato dovrebbe stabilire il nuovo Deal nei prossimi cinque anni, con i paesi che introducono regolamenti che penalizzano le aziende che inquinano. In tutto il mondo, ma soprattutto in Asia, i rifiuti di plastica vengono bruciati. Ciò riduce il volume dei rifiuti e impedisce che diventino terreno fertile per batteri, virus e zanzare. Ma l'incendio è una delle principali cause dell'inquinamento atmosferico. Circa 4,2 milioni di persone sono morte a causa dell'inquinamento atmosferico nel 2016, con il 91% di questi decessi nei paesi a basso e medio reddito. Nelle zone a basso reddito di Nairobi e Sylhet, nel Bangladesh, la plastica fa parte del paesaggio e rappresenta un notevole pericolo per la salute. È fisicamente incorporata nel terreno, rendendo estremamente difficile, se non impossibile, il recupero. Gli studi hanno scoperto che le microplastiche vengono inalate e consumate attraverso cibo e acqua. È stato anche dimostrato che le materie plastiche di dimensioni più piccole, chiamate nanoplastiche, causano danni e infiammazioni nella pelle umana e nelle cellule polmonari. La plastica contiene anche additivi, come bisfenolo A, ftalati e bifenili policlorurati, che sono causa di danneggiamento del sistema endocrino e di anomalie riproduttive. Il trattato dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di chiedere ai paesi di vietare o eliminare gradualmente nella plastica le sostanze chimiche che danneggiano la salute umana.
15 e 16 Novembre 2022. Il G 20 di Bali spinge il negoziato climatico di Sharm el-Sheikh La dichiarazione finale dei Leader I leader delle nazioni del G 20 - le principali economie del mondo - si riuniscono a Bali, in Indonesia, nella terza settimana di novembre 2022. che è anche la seconda settimana della COP 27 di Sharm El-Sheikh, per un vertice annuale diplomaticamente complicato dalla presenza della Russia durante la sua guerra in Ucraina. La Russia sarà rappresentata dal suo veterano ministro degli Esteri, Sergei Lavrov. Il Gruppo dei 20 è composto da 19 paesi più l'Unione Europea e rappresenta quasi i due terzi della popolazione mondiale, l'85% della produzione economica mondiale e il 75% del commercio mondiale. Nel 2022 ci sono 20 membri nel gruppo: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Corea del Sud, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea. È il più grande raduno del gruppo di leader dall'inizio della pandemia di coronavirus e l'Indonesia, in qualità di stato ospitante, ha fissato un'agenda incentrata sulla ripresa economica dalla pandemia, sulle misure sanitarie globali e sull'energia sostenibile. Si terrà una serie di colloqui bilaterali sullo sfondo delle tensioni globali che includono l'invasione dell'Ucraina e le conseguenti ricadute economiche globali, la crisi climatica, la minaccia nucleare della Corea del Nord e la crescente prevalenza geopolitica e commerciale della Cina. L'incontro del G 20 a Bali ha segnato l'uscita di Xi Jinping da tre anni di isolamento pandemico autoimposto, con il presidente francese, Emmanuel Macron, e il primo ministro australiano, Anthony Albanese, tra coloro desiderosi di assicurarsi un'opportunità di incontro, ma anche di chat e foto, con il leader cinese. Nonostante la condanna delle violazioni dei diritti umani cinesi e l'ansia per le sue intenzioni nello Stretto di Taiwan, il tono ampiamente positivo stabilito dal bilaterale di Xi con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è continuato fino alla fine del vertice. Ma sono state anche opportunità per le controparti di Xi di comunicare di persona le proprie lamentele. Albanese, il primo premier australiano a incontrare Xi dal 2016, aveva definito il loro incontro “positivo e costruttivo”, ma aveva sollevato la detenzione dei cittadini australiani Cheng Lei e Yang Hengjun, nonché le violazioni dei diritti umani contro la popolazione uigura nello Xinjiang. Macron ha chiesto a Xi di convincere Putin a negoziare la fine della guerra in Ucraina, e secondo quanto riferito ha detto che vorrebbe visitare la Cina il prossimo anno, restrizioni del Covid-19 permettendo. Xi e il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, avrebbero dovuto tenere i loro primi colloqui faccia a faccia giovedì. Il vertice è stato dominato dalla geopolitica, con irritazione dei suoi ospiti indonesiani, che avevano voluto concentrarsi sulla sicurezza alimentare ed energetica e sulla crisi climatica. Gran parte dell'attività del giorno di apertura è stata soffocata dall'analisi dell'incontro Biden-Xi del giorno prima. Mercoledì, il G20 è diventato rapidamente un incontro ad hoc del G7, mentre i leader si sono riuniti per discutere la loro risposta alla notizia che un missile di fabbricazione russa era finito in Polonia, uccidendo due persone vicino al confine del paese con l'Ucraina. La dichiarazione congiunta di Bali rilasciata mercoledì non è andata oltre le banalità non impegnative. Riguardo all'emergenza climatica, i leader del G20 hanno semplicemente affermato di aver deciso di "proseguire gli sforzi per limitare l'aumento delle temperature globali a 1,5°C", compresa l'accelerazione degli sforzi per "ridurre gradualmente" l'uso senza sosta del carbone. A differenza di Xi, l'incontro di Bali ha ulteriormente isolato Vladimir Putin, che ha inviato il suo ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, a fungere da segnaposto diplomatico dopo diversi giorni di drammatici sviluppi in Ucraina, compreso il ritiro della Russia da Kherson. Lavrov è rimasto al suo posto mentre Volodymyr Zelenskiy ha fatto riferimento al G 19, il G 20 meno la Russia, in un discorso video. Lavrov ha lasciato Bali martedì sera prima della conclusione del vertice. Anche i tradizionali alleati della Russia, India e Cina, sembravano prendere le distanze dal Cremlino, mentre la dichiarazione di mercoledì condannava "con la massima fermezza" l'aggressione della Russia in Ucraina e ne chiedeva il ritiro incondizionato. "La maggior parte dei membri ha condannato fermamente la guerra in Ucraina", afferma la dichiarazione, segnalando che la Russia, che è membro del G 20, si è opposta alla formulazione. Le posizioni assunte da Cina e India non sono state subito chiare e sembra che il documento finale, nelle versioni tradotte e diffuse nei rispettivi paesi, elimini i termini che, come “guerra”, sono particolarmente sgraditi ai Russi. Dal punto di vista energetico e climatico il documento di Bali sembra perfino più coraggioso e determinato del documento della Presidenza egiziana che, di li a pochi giorni, concluderà la COP 27 di Sharm. Andando al sodo, però, anche Bali non va sostanzialmente oltre quanto concordato alla COP 26 di Glasgow. Si può sicuramente dire che l’apertura di Bali su loss and damage, rafforzata dalla fortissima spinta dei paesi poveri che a Bali certamente non ci potevano essere, ha consentito alla COP 27 di approvare la storica istituzione del Fondo mondiale per i pagamenti dei loss and damage. > Leggi l'intero resoconto di Edoardo Rossi
10 novembre 2022. Conclusi gli Stati generali della green economy Si sono conclusi gli Stati Generali della Green Economy 2022, un’occasione per il mondo istituzionale, imprenditoriale e civile per confrontarsi sul tema della transizione ecologica, in questo periodo di alti prezzi dell’energia e di incertezza sul futuro dell’economia. La due giorni green, organizzata dal Consiglio Nazionale della Green Economy, si è tenuta alla Fiera di Rimini all’interno di Ecomondo-Key Energy. Questa edizione degli Stati Generali della Green Economy, che è stata tra le più partecipate degli ultimi anni, ha evidenziato come la green economy italiana, l’economia circolare decarbonizzata siano in grado di affrontare le sfide degli alti costi dell’energia, della volatilità delle materie prime e diventare occasione di rilancio e sviluppo (Ronchi). L’undicesima edizione ha registrato un’altissima affluenza di partecipanti, circa 100 relatori nazionali ed internazionali e il saluto dei Ministri del nuovo governo. Grande anche la partecipazione alla discussione online nel corso della due giorni: tanti gli utenti che hanno partecipato al dibattito. Su Twitter oltre 1 migliaio di interazioni in poche ore. Domande e commenti che hanno generato una reach (pubblico potenzialmente esposto a contenuti social) di 1,2 milioni di utenti.
In un contesto socioeconomico in cui il cambiamento diventa condizione necessaria per la sopravvivenza delle imprese, le aziende italiane stanno progettando la loro transizione verso modelli di business più sostenibili e riconoscono il proprio ruolo all’interno della trasformazione dell’intero Paese. Abbiamo condotto un’indagine chiedendo a mille imprese di raccontarci il loro percorso di transizione ecologica: la conoscenza dei relativi temi e le aspettative per il futuro, la progettazione e gli ambiti di intervento, le barriere riscontrate e le aree in cui necessitano un supporto esterno. Si tratta di aziende che, nella maggior parte dei casi (oltre l’80%), considerano la transizione un cambiamento necessario per affrontare la crisi climatica e per un futuro prospero, oltre che per il raggiungimento di un vantaggio competitivo per loro stesse e per il Paese. Questo documento, dopo aver ripercorso gli elementi più significativi emersi dall’indagine, raccoglie le risposte delle grandi aziende che, avendo un diverso livello di maturità riguardo la transizione ecologica, hanno deciso di collaborare e mettere a disposizione quanto appreso durante il loro percorso. Nonostante le difficoltà attuali, infatti, credono che attraverso le proprie azioni, e con il supporto di cittadini ed istituzioni, si possano gettare le basi per un modello di sviluppo sostenibile. Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, ha tenuto la relazione introduttiva alla sessione plenaria nella quale ha presentato il Rapporto 2022 sullo stato della Green economy in Italia e nel mondo. La Relazione sullo stato della green economy di quest’anno è aperta da un’indagine, realizzata da EY e Fondazione per lo sviluppo sostenibile, su come le imprese italiane stanno vivendo la transizione ecologica proprio in questi mesi di alti prezzi dell’energia e delle materie prime, di ripresa dell’inflazione e di incertezza sul futuro dell’economia, con una guerra in Europa, scatenata dall'invasione russa dell’Ucraina. Dall’indagine emerge chiaramente che c’è ormai una diffusa attenzione: ben il 45% degli imprenditori intervistati dichiara di prestare un livello elevato di attenzione verso la transizione ecologica e un altro 41% un livello abbastanza buono. Solo una minoranza del 14% ammette di non essere sufficientemente attenta. Emerge anche una forte richiesta di maggiore informazione perché ben il 60% degli imprenditori intervistati dispone di un livello di conoscenza ritenuto generico e un altro 5% del tutto carente; solo il 35% pensa di avere un buon livello di conoscenza. In relazione alle preoccupazioni per il futuro dell’impresa, l’indagine conferma un dato noto: l’86% degli imprenditori manifesta un livello molto elevato di preoccupazione per gli alti costi dell’energia. Al secondo posto fra le preoccupazioni, il 72% dichiara le difficoltà di approvvigionamento e gli alti prezzi delle materie prime. Al terzo posto il 60% si dice preoccupato per le crisi sociali ed economiche nel mondo. L’aumento degli eventi atmosferici estremi, causati dalla crisi climatica, risulta in quarta posizione per gli imprenditori intervistati, ma con percentuali ormai rilevanti: il 75% ha un livello di preoccupazione medio o elevato e solo il 25% dichiara di non esserlo. Rispetto alle convinzioni diffuse fra gli imprenditori, ben l’83% ritiene che la transizione ecologica sia comunque un cambiamento necessario per affrontare la crisi climatica e la scarsità di risorse e per puntare su un futuro prospero; ben il 76% è convinto che l’Italia dovrebbe essere fra i promotori della transizione ecologica perché questa scelta ci metterebbe all’interno del gruppo avanzato delle economie mondiali. Le aspettative degli imprenditori sugli effetti delle misure per la transizione ecologica sulle proprie imprese sono in buona parte positive: il 51% ritiene che contribuiranno a migliorare il posizionamento dell’azienda e il 61% che promuoveranno investimenti per innovazioni. Da non trascurare la quota di imprenditori, mediamente un quarto, che manifesta incertezza (non è né d’accordo né in disaccordo) e la quota, circa un terzo, di chi teme che da queste misure derivi un aumento dei costi di produzione. A che punto sono le imprese italiane nell’attuazione delle misure considerate “tipiche” della transizione ecologica? Su alcune sono certamente a un buon livello: il 55% ha già adottato misure per usare in modo più efficiente energia e acqua e il 49% misure per ridurre e per riciclare i propri rifiuti. Pur partendo da livelli non elevati, ma ragguardevoli (mediamente oltre il 40%), hanno però messo in agenda o stanno valutando altre misure: utilizzo di fonti rinnovabili (34%), riduzione delle emissioni di gas serra (21%), elevata qualità ecologica dei prodotti e dei processi (22%). Risulta invece bassa la percentuale degli imprenditori che sta effettuando una comunicazione delle misure per la transizione ecologica (solo il 14%) e di chi ha messo in agenda di adottare tali comunicazioni (18%). Questo dato confermerebbe che le imprese italiane che comunicano sono molte meno di quelle che stanno operando per la transizione ecologica. Tra coloro che hanno intrapreso un percorso di transizione ecologica, i principali benefici già riscontrati riguardano la riduzione dei costi operativi (27%), il miglioramento reputazionale (24%) e il consolidamento di partnership (15%). Ben il 42% degli intervistati dichiara di non avere ancora riscontrato alcun vantaggio dalle misure messe in atto per la transizione ecologica: ciò potrebbe significare che si tratta di investimenti con tempi di ritorno lunghi o anche di misure non in grado di portare diretti vantaggi per l’impresa, ma ritorni solo di interesse generale. Articolando i livelli relativi all’impegno nella transizione ecologica abbiamo classificato come “Advanced” il 45% delle imprese che stanno già utilizzando risorse significative per attività della transizione ecologica: in particolare utilizzano, in percentuali alte, fonti rinnovabili di energia, materiali e acqua in modo efficiente e riciclano i rifiuti. Seppure collocate principalmente al Nord, si ritrovano ormai diffuse ovunque, sono principalmente di medie e grandi dimensioni e, in genere, si rivolgono anche ai mercati internazionali. Abbiamo poi collocato fra gli “Starter” quegli imprenditori che hanno avviato in misura più ridotta attività della transizione ecologica, ma in modo più rilevante messo in agenda o previsto misure di transizione ecologica: è il 36% del nostro campione. Si tratta in prevalenza di imprese di medie dimensioni, collocate soprattutto al Nord e al Centro e con un business rivolto in gran parte a mercato nazionale. C’è infine un gruppo di “Delayed”, il 19% del campione, che ha fatto poco e non intende per ora fare molto di più per la transizione ecologica: si tratta, com’era prevedibile, di aziende prevalentemente di piccole dimensioni, collocate principalmente al Sud e rivolte al mercato interno. Quali sono i maggiori ostacoli riscontrati nel percorso di transizione ecologica? Di gran lunga l’ostacolo incontrato dalla maggior parte è quello burocratico, ben il 50% degli intervistati, in particolare per le autorizzazioni e per accedere alle risorse necessarie. Al secondo posto stanno i finanziamenti (27% degli intervistati), seguono le barriere tecniche e attuative (17%) e gli adeguamenti del modello di business (15%).
21 settembre 2022. Nuovi modelli di sviluppo per la sostenibilità planetaria di Toni Federico Uno sviluppo ineguale delle economie e delle società ha caratterizzato il cammino del pianeta dopo l’Earth Summit di Rio del 1992. Era allora appena crollato il muro di Berlino e con esso l’Unione Sovietica, lasciando libero il campo all’egemonia del modello di sviluppo occidentale, sostanzialmente basato sull’economia di mercato e su reti multilaterali di sicurezza degli scambi e dei commerci (WTO, etc.). La guerra fredda si era conclusa non perché i problemi del capitalismo fossero stati risolti, ma perché la soluzione del cosiddetto comunismo reale aveva fallito[1]. Dalla fine della prima guerra mondiale le differenze di reddito delle persone nei paesi ricchi si sono ridotte e i sistemi di welfare sono diventati sempre più generosi. Ma quando l'opzione rivale ha cessato di esistere, i sistemi di mercato hanno avuto il campo sgombro, le aliquote fiscali per gli alti redditi sono state ridotte, i sindacati sono stati indeboliti e i divari dei redditi sono esplosi all’interno dei paesi e tra di essi. A Rio si dava per scontato che la ricchezza occidentale sarebbe stata condivisa con il gruppo di paesi in via di sviluppo, tanto che alcuni principi e le stesse convenzioni, tra cui quella climatica, esentarono i PVS da ogni obbligo ambientale in nome della pur sacrosanta acquisizione del concetto delle responsabilità condivise ma differenziate. Venne presto in campo la novità della globalizzazione, un modello di generalizzazione dei mercati che apportò benefici, come riconobbe il WSSD di Johannesburg del 2002[2], ma aumentò ancora le diseguaglianze, con i prezzi delle materie prime dei PVS imposti dai mercati a vantaggio dei più forti e, soprattutto con la commodification del lavoro e la delocalizzazione delle imprese. Ci furono forti movimenti di protesta giovanile sostenuti dai sindacati (Seattle, 1999; Genova, 2001) ma furono repressi senza tanti complimenti.
Sono impressionanti le cifre delle disuguaglianze di reddito, non certo le uniche a carico degli attuali sistemi perché vanno aggiunte le diseguaglianze di genere, dei diritti e dell’accesso alle risorse. Dal 1995, all'1% più ricco delle persone è andata una quota dell'aumento della ricchezza globale 20 volte superiore alla metà più povera della popolazione umana. Otto uomini ora possiedono la stessa quantità di ricchezza dei 3,6 miliardi di persone più povere del mondo[3]. Al di là di ogni preconcetto possiamo concludere che il modello di sviluppo occidentale è del tutto incapace di ristabilire una sia pur minima equità nella distribuzione delle risorse e dei diritti, mentre continua a subire gravi crisi cicliche della economia e della finanza che ora dilagano inarrestabili sul mercato planetario, e si dimostra altrettanto incapace a prevenire e fronteggiare le crisi sanitarie globali[4] e a difendere la pace. Il quadro economico e geopolitico mondiale è però in evoluzione, tanto che si può ormai dire che il modello occidentale ha di nuovo competitori sul terreno, frutto anche del deficit delle politiche globali che, anziché integrazione, hanno generato competizione e anziché placarli, hanno portato i conflitti armati da una prevalente dimensione regionale ad una pericolosa generalizzazione. Non c’è più, dunque, la stabilità che ci aveva illuso di poter governare uno sviluppo sostenibile su scala mondiale mediante l’approccio multilaterale e le Nazioni Unite. Nuove realtà multinazionali sono cresciute più o meno rapidamente. La Cina, anzitutto, guida indiscussa ed interessata dei paesi poveri, è ora alla pari degli occidentali su molti indicatori, emissioni ed inquinamento compresi. L’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente non sembrano più disposti a cedere le loro materie prime al prezzo stabilito dagli occidentali. Per ultima, sgradita, ricompare la nazione panrussa alla ricerca del suo posto al sole con le mani sui rubinetti del gas e del petrolio. Stupefatti, gli occidentali, che una realtà con un PIL così infimo si possa permettere di aggredire e ricattare con metodi quantomeno pre-moderni, insensibile al progresso e capace di trasferire materie prime in armamenti senza l’ombra di mediazioni democratiche. In queste nuove realtà emergenti di democrazia c’è n’è ben poca e nel nostro mondo di paesi ricchi si insinuano dubbi e incertezze, anche per il fallimento disastroso dei tentativi di esportare la democrazia con le armi. Le armi sono rimaste, della democrazia nessuna traccia. La trasformazione del quadro mondiale si legge molto chiaramente nella evoluzione del negoziato mondiale sullo sviluppo sostenibile. A Rio+20, del 2012, si arrivò con un’agenda concordata tra Europa e UNEP che mirava ad assegnare a quest’ultima la governance dello sviluppo sostenibile sul comune impianto concettuale della Green economy[5]. Bloccarono il tentativo per interessi speculari la Cina, indisponibile a farsi imporre modelli di sviluppo eterodiretti, e gli Stati Uniti, come sempre sostanzialmente nemici delle istanze green troppo invasive. In quell’occasione lo sviluppo sostenibile fu promosso ai livelli più alti delle Nazioni Unite, investendo l’Assemblea Generale e l’ECOSOC con un forum dedicato l’HLPF e in tre anni di faticosi negoziati si pervenne con l’Agenda 2030 e l’Accordo di Parigi (2015) ad una nuova modalità di governance, non più basata sul Command and Control, top-down, ma sull’adesione volontaria e proattiva, bottom-up, dei diversi Paesi agli obiettivi degli SDG e di Parigi, al cui storico Accordo i Paesi accedono attraverso degli NDC[6], assunzioni unilaterali e volontarie di impegni periodicamente rivisti in crescita. Anche l’Europa è passata dalle affermazioni di principio di una Green economy universale al Green Deal, un patto interno stringente per obiettivi, che mette al centro la decarbonizzazione dell’economia entro il 2050 con un severo milestone al 2030, l’economia circolare e la protezione della natura, in un quadro sociale dichiaratamente inclusivo. Ma l’economia è sempre quella, il modello di economia di mercato vira verso il green ma la pelle non cambia e le istanze di abbattimento delle diseguaglianze restano fuori. Possiamo in sintesi pensare chee diseguaglianze rimangono il differenziale netto tra Green Deal e Sviluppo sostenibile. Il modello di sviluppo cinese, un capitalismo autocratico basato sulla programmazione da parte del Partito unico, è forse migliore del modello occidentale? Di democrazia non si parla, di diritti ancor meno. L’aggressività militare è per ora bassa. Alla Cina va riconosciuto il merito di aver tratto fuori dalla povertà un quinto della popolazione mondiale, di aver raggiunto la parità tecnologica e il predominio commerciale e finanziario, ma non sappiamo niente delle diversità città-campagna e della repressione delle minoranze (Tibet, Uiguri, Hong Kong). Sappiamo invece che quel sistema è piuttosto refrattario alle istanze libertarie occidentali, ma i conti con quelle comunità vanno fatti alla luce del sole, non attraverso il riarmo nascosto. Il ruolo della Cina è stato determinante nella diplomazia climatica. Da Rio in poi ha fermamente difeso il suo diritto all’esenzione dagli impegni di mitigazione che la stessa Convenzione delle Nazioni Unite gli riconosce, ed ha capeggiato il gruppo dei 77 PVS (G77) con la ferma determinazione che i prezzi da pagare spettano ai paesi occidentali, responsabili di gran lunga del cambiamento climatico per aver emesso gran parte delle emissioni storiche di gas serra, quelle che determinano il global warming presente e futuro. La Cina non ha fatto l’andirivieni degli USA dentro e fuori dalla Convenzione e a Parigi ha accettato di rinunciare alla prerogativa di paese non responsabile e farsi carico per la prima volta di impegni diretti e pubblici in fatto di abbattimento delle emissioni che, su base annua, la vedono al primo posto con poco meno del 30% delle emissioni globali GHG e CO2. Per contro la Cina e i G77 rimangono intransigenti sul fatto che la finanza per il clima, GCF e Loss and damage, devono restare a intero carico dei paesi ricchi e che gli altri eventuali contributi sono eventuali e solo su base volontaria. Come trovare un modello di sviluppo che ci indirizzi, con tutte le diversità, allo sviluppo sostenibile?[7] Il quadro del negoziato multilaterale deve essere salvaguardato e rafforzato. In occidente se ne discute a fondo. Il riconoscimento delle attuali insufficienze è ormai largamente condiviso e da molte parti si parla di nuovo capitalismo[8],[9]. Nessuna teoria sembra però capace di superare il muro di Piketty espresso dalla famosa formula r>g[10], cioè che il tasso di rendimento del capitale, da cui i ricchi traggono normalmente la loro ricchezza, supera anche più di cinque volte i tassi di crescita economica da cui dipendono i redditi della maggior parte delle persone. I dati storici prodotti a profusione dimostrano che tale è la condizione definitiva del capitalismo, salvo che nei periodi delle ricostruzioni postbelliche del secolo scorso quando il capitale finanziario fu giocoforza al minimo e la rendita con esso. Le disuguaglianze creano una gerarchia e determinano le distanze sociali. Invece di incoraggiare lo spirito pubblico, la coesione e la fiducia che possono fiorire una comunità di quasi uguali, grandi differenze materiali esacerbano sentimenti di superiorità e inferiorità all’interno dei paesi e tra paesi poveri e ricchi. La struttura sociale si ossifica e la mobilità sociale diminuisce. In breve, le disuguaglianze creano una condizione di blocco dello sviluppo sostenibile. Vediamo aumentare nel mondo l'ostilità politica verso i paesi ad alto reddito, i più responsabili delle crisi economiche ed ambientali. Quello che sta avvenendo è uno spostamento di prestigio e influenza tra i leader delle comunità maggiori, dagli Stati Uniti non più credibili come portabandiera della democrazia, alla Cina che non cessa di ricordare al mondo che, nonostante gli abusi nei diritti umani, loro hanno poca responsabilità storica per le emissioni di anidride carbonica, la schiavitù e il colonialismo[11]. Per limitare la crescente influenza del socialismo autoritario della Cina il mondo occidentale deve abbandonare la sua ideologia ipercapitalista e tornare verso un socialismo di mercato partecipativo, post-coloniale e solidale ai paesi a reddito medio e basso, in grado di rispondere efficacemente alla crisi ambientale. I due poli sociali e politici dominanti devono cioè avvicinarsi, non invece arroccarsi su contrapposizioni economiche e militari come sembra si stiano apprestando a fare. L’Agenda 2030 può essere la guida di questo avvicinamento. Essa indica obiettivi che, si devono tradurre a livello dei governi in altrettante missioni6. Una missione deve essere ambiziosa, chiara nel proposito di migliorare la qualità della vita delle persone, ed avere un’ampia risonanza sociale. I suoi obiettivi devono essere concreti, misurabili e delimitati nel tempo, come la decarbonizzazione del Green Deal. Qui viene al punto il nuovo ruolo per le amministrazioni pubbliche, che non deve più essere solo quello di ridurre i rischi per il capitale privato, ma essere l’investitore di prima istanza e non di ultima, capace di attirare investimenti privati aumentando l’effetto moltiplicatore ed orientando le istituzioni finanziarie. Come stiamo sperimentando in Italia in queste prime fasi del PNRR, perché ciò sia possibile, abbiamo bisogno di potenziare di molto la capacitazione del settore pubblico e di tagliar via le tentazioni ricorrenti di ricorrere alla esternalizzazione della guida e del monitoraggio dei progetti a società private esterne o a consulenti professionali. Qui sta la chiave del nuovo rapporto tra pubblico e privato. Il pubblico definisce le missioni in nome del bene comune[12], le struttura e le finanzia per la sua parte, il privato coinveste e coopera al raggiungimento degli obiettivi, non certo attraverso la flebile responsabilità sociale d’impresa, la beneficenza o l’allargamento della platea degli stakeholder, ma come ramo determinante della catena del valore della missione dove si produce ricchezza in maniera più equa perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi della società. Non si tratta di far entrare i governi tra gli azionisti delle società, quindi nelle loro logiche privatistiche. Si tratta invece di arruolare il sistema industriale nelle missioni pubbliche, finanziare, usare le leve fiscali e sistemi di monitoraggio severi e capaci di valutare le performance di ogni attore, quindi anche di mandare a casa e sostituire i manager che non hanno raggiunto gli obiettivi assegnati. Non sfugge che tutto ciò richiede una profonda revisione dei percorsi formativi ad ogni età. [1] Wilkinson R., Pickett K.; 2022; Tackling inequality takes social reform; Nature, vol. 606, 23 June 2022 [2] United Nations; 2002; Johannesburg Declaration on Sustainable Development; World Summit on Sustainable Development, A/CONF.199/20 [3] Oxfam International; 2022; Inequality Kills. The unparalleled action needed to combat unprecedented inequality in the wake of COVID-19; Oxfam GB, Oxfam House, John Smith Drive, Cowley, Oxford, OX4 2JY, UK [4] Mazzucato M.; 2020; Non sprechiamo questa crisi; Laterza [5] UNEP; 2011; Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication; A Synthesis for Policy Makers; www.unep.org/greeneconomy [6] UNFCCC; https://unfccc.int/process-and-meetings/the-paris-agreement/nationally-determined-contributions-ndcs/nationally-determined-contributions-ndcs [7] Giovannini E., Barca F.; 2020; Quel mondo diverso da immaginare per battersi e che si può realizzare; Laterza [8] Mazzucato M.; 2021; Missione economia. Una guida per c ambiare il capitalismo; Laterza [9] Schvab K., WEF; 2021; Stakeholder Capitalism: A Global Economy that Works for Progress, People and Planet; Wiley[10] Piketty T.; 2016; Il capitale nel XXI secolo; Bompiani [11] Piketty T.; 2022; A Brief History of Equality; Belknap [12] Ostrom E.; 1990; Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action; Cambridge University Press
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settembre 2022. Prende il via La 77° sessione dell'Assemblea generale delle
Nazioni Unite L'assemblea si concentrerà sulle numerose sfide con cui i leader sono ora alle prese: la guerra in Ucraina che sta polarizzando l'ordine mondiale in modi che non si vedevano dai tempi della Guerra Fredda; l'impatto dell'aumento dei prezzi alimentari sulle persone in tutto il mondo; la crisi energetica che sconvolge l'economia mondiale; e le preoccupazioni per gli eventi estremi del clima come le devastanti inondazioni in Pakistan. "L'Assemblea Generale si riunisce in un momento di grande pericolo", ha detto la scorsa settimana António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. "Il nostro mondo è segnato dalla guerra, martoriato dal caos climatico, segnato dall'odio e svergognato dalla povertà, dalla fame e dalla disuguaglianza". È un compito arduo. Circa 157 capi di stato e rappresentanti di governo hanno in programma di tenere discorsi da martedì a domenica e la guerra in Ucraina e le sue ramificazioni dovrebbero essere il tema principale. Il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky si rivolgerà all'assemblea in un irrituale discorso video preregistrato. Anche l'insicurezza alimentare, dalla carenza di grano all'aumento dei prezzi, sarà una priorità. Ci si aspetta che i paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e Medio Oriente esprimano preoccupazione per il fatto che il mondo sia ossessionato dalla guerra in Ucraina e che gli aiuti umanitari siano diretti in modo sproporzionato ad alleviare quella crisi e che i loro stessi vengano ignorati. La tensione dovrebbe essere alta tra Russia, Stati Uniti e paesi europei sull'Ucraina; tra Cina e Stati Uniti su Taiwan e commercio; e tra i paesi in via di sviluppo e l'Occidente sull'assegnazione di fondi per lo sviluppo e altri aiuti. Guterres mercoledì ospiterà due incontri a cui parteciperanno i ministri degli Esteri. Uno riguarderà le sfide poste dalla guerra in Ucraina, compresi gli aumenti dei prezzi di cibo ed energia, e la tensione economica che ha causato. L'altro riguarderà l'azione per il clima. Il momento di agire è ora. 3 Marzo 2022. Risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU sull'Ucraina adottata a larghissima maggioranza L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite: 1. Riafferma il suo impegno per la sovranità, l'indipendenza, l'unità e l'integrità territoriale dell'Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti, comprese le sue acque territoriali; 2. Deplora con la massima fermezza l'aggressione della Federazione russa contro l'Ucraina in violazione dell'articolo 2, paragrafo 4, della Carta; 3. Chiede alla Federazione russa di cessare immediatamente l'uso della forza contro l'Ucraina e di astenersi da qualsiasi ulteriore minaccia illegale o uso della forza contro qualsiasi Stato membro; 4. Chiede inoltre che la Federazione Russa ritiri immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue forze militari dal territorio dell'Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti; 5. Deplora la decisione del 21 febbraio 2022 della Federazione russa relativa allo status di alcune aree delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk come violazione dell'integrità territoriale e della sovranità dell'Ucraina e incompatibile con i principi della Carta; 6. Chiede alla Federazione russa di revocare immediatamente e incondizionatamente la decisione relativa allo status di alcune aree delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk; 7. Invita la Federazione Russa a rispettare i principi enunciati nella Carta e nella Dichiarazione sulle relazioni amichevoli; 8. Invita le parti a rispettare gli accordi di Minsk e a lavorare in modo costruttivo nei pertinenti quadri internazionali, anche nel formato Normandia e nel gruppo di contatto trilaterale, per la loro piena attuazione; 9. Chiede a tutte le parti di consentire il passaggio sicuro e illimitato verso destinazioni al di fuori dell'Ucraina e di facilitare l'accesso rapido, sicuro e senza ostacoli all'assistenza umanitaria per i bisognosi in Ucraina, di proteggere i civili, compreso il personale umanitario e le persone in situazioni vulnerabili, compresi donne, anziani, persone con disabilità, popolazioni indigene, migranti e bambini e rispettare i diritti umani; 10. Deplora il coinvolgimento della Bielorussia in questo uso illegale della forza contro l'Ucraina e la invita a rispettare i suoi obblighi internazionali; 11. Condanna tutte le violazioni del diritto umanitario internazionale e le violazioni e gli abusi dei diritti umani e invita tutte le parti a rispettare rigorosamente le disposizioni pertinenti del diritto umanitario internazionale, comprese le Convenzioni di Ginevra del 19492 e il Protocollo aggiuntivo I del 1977,3 come applicabile , e di rispettare il diritto internazionale sui diritti umani, e a questo proposito richiede inoltre che tutte le parti assicurare il rispetto e la protezione di tutto il personale medico e umanitario impegnato esclusivamente in mansioni mediche, dei suoi mezzi di trasporto e delle attrezzature, nonché degli ospedali e delle altre strutture mediche; 12. Chiede che tutte le parti rispettino pienamente i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario di risparmiare la popolazione civile e gli oggetti civili, astenendosi dall'attaccare, distruggere, rimuovere o rendere inutili gli oggetti indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, e rispettando e proteggendo gli aiuti umanitari personale e spedizioni utilizzate per operazioni di soccorso umanitario; 13. Chiede al Coordinatore degli aiuti di emergenza di fornire, 30 giorni dopo l'adozione della presente risoluzione, una relazione sulla situazione umanitaria in Ucraina e sulla risposta umanitaria; 14. Sollecita l'immediata risoluzione pacifica del conflitto tra la Federazione russa e l'Ucraina attraverso il dialogo politico, i negoziati, la mediazione e altri mezzi pacifici; 15. Accoglie favorevolmente e sollecita i continui sforzi del Segretario generale, degli Stati membri, dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa e di altre organizzazioni internazionali e regionali per sostenere l'attenuazione della situazione attuale, nonché gli sforzi delle Nazioni Unite Nazioni, compreso il Coordinatore di crisi delle Nazioni Unite per l'Ucraina, e organizzazioni umanitarie per rispondere alla crisi umanitaria e dei rifugiati creata dall'aggressione della Federazione Russa; 16. Decide di aggiornare temporaneamente l'undicesima sessione straordinaria d'urgenza dell'Assemblea Generale e di autorizzare il Presidente dell'Assemblea Generale a riprendere le sue riunioni su richiesta degli Stati membri. leggi il documento in originale 2 Marzo 2022. Risoluzione del Parlamento italiano sull'Ucraina adottata a larghissima maggioranza Il Parlamento impegna il Governo: 1) a esigere dalle Autorità russe l’immediata cessazione delle operazioni belliche e il ritiro di tutte le forze militari che illegittimamente occupano il suolo ucraino, ripristinando il rispetto della piena sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina; 2) a sostenere ogni iniziativa multilaterale e bilaterale utile ad una de-escalation militare e alla ripresa di un percorso negoziale tra Kiev e Mosca, anche raccogliendo la disponibilità della Santa Sede a svolgere un’opera di mediazione; 3) ad assicurare sostegno e solidarietà al popolo ucraino e alle sue istituzioni attivando, con le modalità più rapide e tempestive, tutte le azioni necessarie a fornire assistenza umanitaria, finanziaria, economica e di qualsiasi altra natura, nonché – tenendo costantemente informato il Parlamento e in modo coordinato con gli altri Paesi europei e alleati – la cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la sua popolazione; 4) a raccogliere l’aspirazione europea dell’Ucraina, rafforzando in ogni campo la cooperazione UE-Ucraina; 5) ad attivare un programma straordinario di accoglienza dei profughi ucraini, coinvolgendo enti locali e associazionismo, semplificando le procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato, applicando la direttiva europea sulla protezione temporanea e sostenendo le iniziative della UE per una accoglienza solidale e condivisa; 6) ad attivare programmi umanitari per la popolazione ucraina e semplificare le procedure di utilizzo dei fondi erogati; 7) a sostenere in sede europea la ulteriore sospensione del Patto di stabilità e la istituzione di un fondo europeo compensativo per gli Stati maggiormente penalizzati dalle sanzioni; 8) a provvedere a misure di sostegno alle imprese per i maggiori oneri derivanti dalla applicazione di sanzioni, nonché la promozione di accesso a nuovi mercati verso cui indirizzare esportazioni e investimenti non allocabili sul mercato russo; 9) ad attivare strategie di diversificazione degli approvvigionamenti energetici, di investimento sulle energie rinnovabili e di utilizzo delle sorgenti di energia del Paese, e concorrendo alle decisioni dell’UE nella direzione dell’Unione dell’energia; 10) ad attivare le misure necessarie a preservare le infrastrutture strategiche del Paese da eventuali attacchi informatici o di altra natura, anche tenendo conto delle indicazioni contenute nelle Relazioni del Copasir alle Camere; 11) a sostenere l’urgenza di un netto rafforzamento della Politica estera e di sicurezza comune europea, anche attivando le riforme procedurali necessarie; 12) a mantenere uno stretto e permanente coordinamento con i Paesi del G7, dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione europea, condividendo iniziative a supporto dell’Ucraina e contromisure efficaci e sostenibili, incluse sanzioni, all’aggressione russa. 1 Marzo 2022. Risoluzione del Parlamento europeo sull'Ucraina adottata a larghissima maggioranza Il Parlamento europeo: 1. Condanna con la massima fermezza l'aggressione militare illegale, non provocata e ingiustificata della Federazione russa nei confronti dell'Ucraina e l'invasione di quest'ultima nonché il coinvolgimento della Bielorussia in tale aggressione; 2. Chiede che la Federazione russa ponga immediatamente fine a tutte le attività militari in Ucraina, ritiri incondizionatamente tutte le forze militari e paramilitari e le attrezzature militari da tutto il territorio dell'Ucraina riconosciuto a livello internazionale e rispetti pienamente l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale; 3. Sottolinea che l'aggressione militare e l'invasione costituiscono una grave violazione del diritto internazionale, e in particolare della Carta delle Nazioni Unite, e invita la Federazione russa a tornare ad adempiere alle sue responsabilità in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza, nonché a rispettare gli impegni assunti nel quadro dell'Atto finale di Helsinki, della Carta di Parigi per una nuova Europa e del Memorandum di Budapest; ritiene che l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia costituisca un attacco non solo contro un paese sovrano, ma anche contro i principi e il meccanismo di cooperazione e di sicurezza in Europa e contro l'ordine internazionale fondato su regole, quale definito dalla Carta delle Nazioni Unite; ... 7. Esorta a proseguire gli sforzi diplomatici intesi a fermare l'aggressione russa contro l'Ucraina e a trovare una soluzione pacifica basata sul rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Ucraina e dei principi del diritto internazionale, come pure del diritto dell'Ucraina di decidere sulle future alleanze senza ingerenze esterne; esorta la Federazione russa a riprendere la via del dialogo e della diplomazia al fine di salvare la popolazione dell'Ucraina e non solo, come pure la sua popolazione, dal flagello della guerra; ... 9. Respinge categoricamente la retorica russa che fa riferimento al possibile ricorso ad armi di distruzione di massa, nel contesto di un'architettura globale di non proliferazione, disarmo e controllo delle armi già deteriorata ed erosa; ricorda alla Federazione russa i suoi obblighi internazionali e mette in guardia dai pericoli di un'escalation nucleare del conflitto; esprime preoccupazione per il fatto che la Federazione russa sta innalzando il livello di allerta del suo arsenale nucleare; ... 17. Chiede, in particolare, che siano limitate le importazioni delle più importanti merci di esportazione russe, tra cui petrolio e gas, che siano vietati nuovi investimenti dell'UE nella Federazione russa e nuovi investimenti russi nell'UE, che l'accesso di tutte le banche russe al sistema finanziario europeo sia bloccato, che la Federazione russa e la Bielorussia siano escluse dal sistema SWIFT e che siano imposte sanzioni secondarie alle banche che utilizzano mezzi alternativi a SWIFT; ... 20. Chiede un cessate il fuoco immediato e incondizionato; chiede che i canali di comunicazione con la Russia restino aperti e che le parti interessate siano pronte al dialogo e ai negoziati fino a quando il cessate il fuoco sarà effettivo e la guerra conclusa; ... 27. Chiede di aumentare i contributi a favore del rafforzamento delle capacità di difesa dell'Ucraina; sostiene fermamente la decisione storica di stanziare notevoli finanziamenti aggiuntivi per fornire all'Ucraina armi difensive attraverso lo strumento europeo per la pace e la fornitura di attrezzature militari da parte degli Stati membri; 28. Invita gli Stati membri ad accelerare la fornitura di armi difensive all'Ucraina in risposta a esigenze chiaramente individuate e in linea con l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che consente l'autodifesa individuale e collettiva ...
9 Febbraio 2022. La modifica della Costituzione introduce lo sviluppo sostenibile come riconoscimento dei diritti delle generazioni future alla pari con la nostra generazione
è stato Enrico Giovannini a farsi carico dell'introduzione dello sviluppo sostenibile tra i principi fondamentali della Carta costituzionale. L'opera è riuscita in parte: la sostenibilità è tutta nel nuovo Art.9 dove la tutela ambientale ed ecosistemica è introdotta anche nell'interesse delle generazioni future. Come si ricorderà i diritti delle generazioni future sono il contenuto essenziale della definizione di sviluppo sostenibile nella definizione primigenia della Brundtland nel suo rapporto alle Nazioni Unite "Our Common Future". Storicamente, poi, il concetto di sviluppo è finito sotto la lente di ingrandimento per il suo significato che, in lingua italiana, è duplice e va da crescita a progresso. Il termine sviluppo non sarebbe quindi sufficientemente tanto chiaro da poter essere introdotto in un testo come la Costituzione italiana. Il testo modificato degli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale ha concluso all'unanimità il suo lungo iter parlamentare. L'Articolo nove è modificato solo per aggiunta del testo in corsivo: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Il provvedimento modifica, inoltre, l’articolo 41 della Carta, prevedendo che l’iniziativa economica privata e pubblica non possa svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini ambientali: "L’iniziativa economica privata è libera. L’ordinamento stabilisce i presupposti più favorevoli al suo esplicarsi. Chi la assume ne è esclusivo responsabile. Deve svolgersi in condizioni di concorrenza, trasparenza, rispetto dell’ambiente. Non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina gli interventi diretti a rimuovere le carenze del mercato lesive dell’utilità sociale". Non c'è stata una particolare esultanza sui media, TV, giornali etc. Non è chiaro se si tratti di sottovalutazione o della solita invincibile mancanza di cultura della nostra gente. Non aiuta l'ineffabile Ministro della transizione ecologica che ha rivendicato (senza alcun merito) l'importante novità costituzionale, in nome, ha dichiarato pubblicamente, dei suoi cani dei suoi gatti e dei suoi pappagalli che ora sono tutelati. E le generazioni future?
14 gennaio 2022. L'Italia ha già fatto la sua transizione al gas (Andrea Barbabella su La "Repubblica")
Diversamente da quanto si potrebbe pensare ascoltando il dibattito nostrano sull’energia, in Italia i potenziali della transizione al gas naturale sono già stati ampiamente sfruttati. Quella che ci aspetta nei prossimi anni è decisamente un altro tipo di transizione energetica, basata sulla forte crescita delle rinnovabili e sulla contestuale riduzione dei combustibili fossili. Incluso il gas. Tradizionalmente tra le grandi economie europee l’Italia è quella con la più alta dipendenza dalle importazioni di energia, essenzialmente fossili: nel 2019 bel il 77% del fabbisogno nazionale è stato soddisfatto dalle importazioni, a fronte ad esempio di una media europea del 61%. Oramai da alcuni anni il gas naturale, certamente un combustibile fossile un po’ meno inquinante degli altri ma con un impatto rilevante sul clima, ha superato il petrolio diventando la prima fonte energetica nazionale. Per contrastare il cambiamento climatico in corso e rispettare gli impegni europei, l’Italia dovrebbe quasi dimezzare le attuali emissioni di gas serra nel decennio in corso, per arrivare a neutralizzarle entro i vent’anni successivi. Per questo da qui al 2030, prossima milestone del percorso verso la neutralità climatica, la sfida che ci attende sarà quella di far diventare le rinnovabili la prima fonte di energia in Italia. Questo vuol dire certamente far crescere le rinnovabili a ritmi senza precedenti, ma anche tagliare sostanzialmente i consumi di tutti i combustibili fossili, incluso il gas i cui consumi dovranno ridursi significativamente in quasi tutti i settori (con l’eccezione del trasporto merci e marittimo, dove dovrebbe sostituire i prodotti petroliferi trainato dalla crescita del biometano). Secondo la roadmap tracciata da Italy for Climate, i consumi nazionali di gas naturale dovrebbero passare dai quasi 75 miliardi di metri cubi del 2019 a poco più 50 miliardi nel 2030: un taglio del 30%. Questi sono i dati sui consumi complessivi di gas naturale, cioè quello impiegato negli usi domestici, nei processi industriali, nella produzione di elettricità e nei trasporti. Ma il dibattito sul gas come combustibile della transizione in Italia riguarda in particolare il comparto della generazione elettrica: forse per questo specifico utilizzo le cose stanno diversamente? Non tanto, direi. Anche in questo caso l’Italia vanta una leadership, essendo diventato il Paese con i più alti consumi di gas naturale per la generazione elettrica:sempre nel 2019 con il gas in Italia sono stati prodotti oltre 140 miliardi di kWh dielettricità (quasi la metà della produzione elettrica nazionale), contro ad esempio poco più di 130 del Regno Unito e 90 della Germania. Ma come per i consumi complessivi, anche per quelli destinati alla sola generazione elettrica la roadmap dell’Italia verso la neutralità climatica imporrebbe un sostanziale ridimensionamento: la produzione di elettricità da gas naturale dovrebbe passare, infatti, dagli oltre 140 miliardi di kWh del 2019 ai poco più di100 miliardi di kWh del 2030 (-27%). Se l’Italia vuole davvero contrastare la crisi climatica e mettersi in rotta verso un’economia a zero emissioni, non c’è posto per una crescita del gas naturale nella transizione del Paese. Stando così le cose, specie per un Paese come l’Italia senza nucleare e soprattutto con poco carbone da sostituire, penso che parlare oggi di nuovi investimenti nel gas naturale per promuovere la transizione energetica, a cominciare dalla generazione elettrica,potrebbe rientrare a pieno titolo nella categoria dei bla bla bla.
7 gennaio 2022. Nucleare out, prima che sia troppo tardi
Non riusciamo a nascondere la delusione per il compromesso contenuto nella proposta proveniente dalla Commissione Europea che introdurrebbe a certe condizioni il nucleare da fissione e il gas naturale tra le forme di energia green accreditate nella tassonomia che consentirebbe loro di accedere ai finanziamenti europei destinati alla transizione ecologica nel quadro del Green Deal. Alla data di oggi la questione è tutt'altro che chiusa, come la Fondazione ha chiarito in due note su Huffington Post a firma del Presidente Edo Ronchi a cavallo del nuovo anno. Invitiamo alla lettura delle due note che forniscono un quadro chiaro dell'evoluzione della questione. Si potrebbe commentare che prima o poi la Commissione avrebbe dovuto prendere una cantonata, sotto la pressione di interessi molto concreti di vari paesi. La questione gas/nucleare in Europa è però diventata troppo grave per farne oggetto di semplici prese d'atto. Non possiamo più limitarci a diffondere le posizioni della Commissione e dobbiamo fare conto che la recente decisione della Germania di chiudere le sue sei centrali nucleari entro l'anno e lo schieramento contrario di una serie di paesi (non dell'Italia, al solito) prevalga nell'europarlamento cui spetta l'ultima parola a maggioranza semplice. le sorti del gas e del nucleare si intrecciano in una rete complessa di interessi, di visioni e di do ut des. La confusione è creata ad arte per arrivare agli obiettivi delle varie parti, ma, per tagliare il nodo gordiano, il gas naturale ha un ruolo tanto indiscutibile quanto decrescente nel percorso della transizione energetica europea al 2030 e al 2050. La fissione nucleare non ne ha nessuno. Prendiamo atto con soddisfazione che Enrico Letta, per conto della forza politica italiana di maggioranza relativa, ha preso una posizione netta dicendo che: “Non ci piace la bozza di tassonomia verde che la Commissione UE sta facendo circolare. L’inclusione del nucleare è per noi radicalmente sbagliata. E il gas non è il futuro, è solo da considerare in logica di pura transizione verso le energie rinnovabili“. L'uovo di Colombo, ma al di là dei 5*, dei verdi, di LEU e dei radicali la musica cambia di molto e nello stesso Governo ci sono voci importanti di parere opposto. A noi non sfugge che il rilancio del gas e più ancora del nucleare è un tentativo mal dissimulato da parte italiana di rallentare ulteriormente lo sviluppo delle fonti rinnovabili che, uniche, ci possono dare certezza dell'obiettivo europeo obbligatorio di abbattimento delle emissioni del 55% al 2030. Come fu al tempo dei due referendum per l'abbandono del nucleare, una eventuale scelta a favore del suo rilancio resta anzitutto di natura politica e sconta un'opposizione sociale che nel nostro paese è senza se e senza ma, come dimostra la vicenda del deposito unico delle scorie nucleari che non ha fatto un passo in avanti in quarant'anni, salvo rimanere come balzello fisso sulle bollette elettriche. Non vorremmo essere noi a rilanciare un dibattito su presunte basi scientifiche con tematiche che ci hanno a suo tempo torturato per anni, lasciando favorevoli e contrari sulle loro posizioni. Guardando senza infingimenti alla situazione italiana resta misteriosa la posizione del governo. Non viene chiarito cosa materialmente si intende fare dopo aver sottoscritto il Green Deal europeo, incassato i soldi del Next generation EU e aver accolto i regolamenti del Fit for '55. La strada al 2030 è tracciata, è breve e non lascia spazio a visioni avveniristiche o, meglio, retrotopiche. Il 2030 si fa con le rinnovabili, con lo stoccaggio elettrico e con il gas naturale per quello che resta, biogas compreso. Già un anno se ne è andato e non si vede l'impegno necessario né una comunicazione politica per sgomberare la strada dalla caterva di obiezioni, opposizioni e mal di pancia che si frapporranno allo sviluppo delle rinnovabili. Nessuna notizia ci rende sicuri dell'aggiornamento del PNIEC e, per quanto riguarda una legge italiana sul clima, indispensabile come la Fondazione ha più volte affermato, nemmeno se ne parla. Manca qualsiasi rilancio allo spirito referendario sul nucleare che pure è stato la culla di ogni iniziativa ecologista in Italia. Basterebbe ricordare il principio di precauzione e perfino la regola del do not harm, più che sufficienti dal momento che non esistono metodi di trattamento completo dei rifiuti di lunga durata ed alta radioattività. Che dire poi dei rifiuti militari di cui nulla è dato sapere salvo che, anche in Europa, gli armamenti vengono frequentemente rinnovati con il rilascio dei vecchi materiali. E che dire dei sottomarini sovietici affondati o dell'uranio impoverito finito sul fondo dell'Adriatico. Il ciclo nucleare forse così green da rientrare nei parametri dell'economia circolare, si domanda Ronchi?. Sul rischio nucleare, poi, il dibattito è stucchevole. Secondo gli interessati è ingegneristicamente trascurabile. Suggeriamo di fare un banale calcolo: quattro incidenti da gravi a gravissimi, Three Mile Island, Creys Malville (tecnologia di quarta generazione fallita, centrale chiusa), Chernobyl e Fukushima, su un totale di 441 reattori in operazione (molti concentrati in un solo sito) fanno una probabilità di incidente grave del 9 permille, 0,9%; ordini di grandezza al di sopra delle cifre di rischio dichiarate. Sui danni alla salute si mente e si continua a mentire. Non esistono conti ufficiali sugli effetti a lungo termine e a grande distanza della stessa Chernobyl e nemmeno sul numero delle vittime a scala locale. L'Italia ha abbandonato ogni parte del sistema industriale nucleare e pensionato tutti i tecnici e gli ingegneri, quorum ego. Oggi potremmo solo comprare impianti e combustibili da qualcuno, USA, UK, Francia, Kazakistan, e importare tecnici ed ingegneri, per rifare i quali ci vorrebbero più dei trent'anni da qui al 2050. Tra le cose che ci dispiacciono della Commissione europea non possiamo fare a meno di citare il recente Rapporto dello JRC di Ispra, peraltro fortemente criticato da studi svolti nella stessa Europa. Il fatto che sia un organo tecnico della Commissione e che, se questa fa compromessi, quelli sono obbligati, non ci conforta affatto. La terzietà dovrebbe essere obbligatoria per chi fa scienza. Il nucleare non ha più sostegno sociale in gran parte del mondo occidentale ed è di gran lunga la fonte energetica più costosa. L'attacco più comune alle rinnovabili si basa sull'occupazione di suolo ma,soprattutto, sull'intermittenza. Ebbene, le centrali nucleari richiedono settimane per andare a regime e non possono stabilizzare la rete. Devono andare invece in background continuo, ragione per la quale la Francia vende l'energia elettronucleare a due soldi la notte perché non può fermare le centrali. La rete si stabilizza ora con il gas naturale e progressivamente con lo stoccaggio, la interconnessione continentale e le smart grid. Per quanto riguarda il gas attenzione a due equivoci. Il biogas è una cosa e il gas naturale è un'altra. Però la Commissione vorrebbe i limiti di emissione a 270 g/kWh, cioè è di gas fossile che parla. Il nucleare da fusione è invece benvenuto, potrebbe essere definito green con qualche attenzione e comunque a molto maggior titolo, ma quello di cui si parla è nucleare da fissione la cui IV generazione è puro frutto di fantasia. La fusione nucleare potrebbe avere diritto di stare nella tassonomia europea, dove invece non c'è. I nostri referendum, a differenza di quanto sembrerebbe aver detto il ministro competente per l'energia, non hanno bloccato la fusione che infatti è l'oggetto unico della ricerca ENEA di Frascati e di un gran numero di partnership internazionali di cui siamo parte. Molto malvolentieri dobbiamo ammettere che la questione è tutt'altro che chiusa. Staremo a vedere
3 giugno 2021. Il Wuppertal e il E3G pubblicano le analisi degli effetti ambientali dei PNRR dei vari paesi. L'Italia, il paese più dotato di contributi, è il fanalino di coda Il Primo Ministro Draghi ha presentato il Piano italiano di Recupero e Resilienza (PNRR) definitivo il 27 aprile 2021. Il piano attinge a un totale di 235 Mld€, di cui 191,5 provenienti dal NGEU (sovvenzioni 68,9 miliardi di euro, i prestiti rimanenti), 13 dal Fondo UE REACT e 30,6 da un fondo complementare che utilizza fonti di finanziamento nazionali. Nel complesso, per l'Italia, le misure di risanamento sono inferiori al potenziale di transizione green dei fondi di risanamento disponibili. L'analisi del Green Recovery Tracker identifica le seguenti quote di spesa:
Per l'efficienza energetica vengono complessivamente stanziati 22 Mld€. La maggior parte, 18,5 Mld€, viene utilizzata per un meccanismo di rimborso fiscale (ecobonus) che consiste in un rimborso del 110% dei costi di ristrutturazioni edilizie, con costi relativamente elevati. Purtroppo il meccanismo non è supportato da forti condizionalità di efficienza, poiché richiede un miglioramento di sole due classi energetiche e consente investimenti nel gas fossile per gli impianti di riscaldamento. Non esiste inoltre una strategia di efficienza energetica per il settore pubblico. Infatti, per il miglioramento dell'efficienza degli edifici scolastici, si parla di 195 edifici scolastici su un totale di 32.000, destinando nel contempo ulteriori risorse alla ristrutturazione degli edifici senza vincolo di efficientamento. Non c'è spinta per la mobilità elettrica e l'allocazione dei fondi per la mobilità è squilibrata: nonostante l'ampio budget complessivo dedicato alle misure di mobilità, in particolare all'alta velocità, il PNRR non destina molte risorse alla promozione della mobilità elettrica e al greening del trasporto pubblico locale. Meno dell'1% dei fondi complessivi è destinato all'elettrificazione della mobilità, con un rischio significativo che l'Italia resti sempre più indietro nel passaggio alla mobilità elettrica. Lo squilibrio nell'allocazione dei fondi nel settore della mobilità sta nella cospicua quota di fondi destinati alle linee ferroviarie a lunga e media distanza rispetto alla mancanza di fondi per intervenire sulla maggior parte dei problemi urgenti nel settore. Nello specifico, le misure fanno poco per ridurre le emissioni a partire dal trasporto stradale e per ottimizzare la qualità dell'aria nelle città, nonostante quest'ultima sia una raccomandazione prioritaria della Commissione Europea nel processo del semestre europeo per il settore trasporti. Secondo la stessa valutazione del governo, gli investimenti significativi nell'infrastruttura ferroviaria ad alta velocità porteranno a riduzioni delle emissioni di soli 2,3 MtCO2e, una piccolissima parte delle riduzioni di 174 MtCO2e richieste complessivamente entro il 2030 sulla base dell'obiettivo di decarbonizzazione incluso nel PNRR. Alcune delle riforme incluse nel PNRR consistono nell'accelerare l'iter autorizzativo per le infrastrutture della nuova energia, in linea con gli obiettivi fissati nel PNIEC. C'è il rischio che la riforma proposta favorisca principalmente le centrali elettriche a gas, tanto più che il meccanismo italiano del Capacity Market ha già attivato richieste di autorizzazione di ca. 15 GW di capacità aggiuntiva di gas. Allo stesso tempo, secondo il gestore del sistema di trasmissione Terna, la domanda di punta di 58,8 GW è già significativamente inferiore alla capacità complessiva della rete esistente (119,3 GW). È particolarmente problematico che le centrali termiche, come le centrali a gas, siano autorizzate a livello centrale, mentre la maggior parte degli impianti di energia rinnovabile deve essere approvata a livello regionale, rendendo più complesso il processo di autorizzazione dei progetti di energia rinnovabile. Inoltre, le riforme includono potenziali allentamenti dei regolamenti dei processi autorizzativi per le infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, idrogeno e biometano. Mentre una semplificazione delle procedure amministrative è necessaria in linea di principio, data l'attuale complessa infrastruttura della pubblica amministrazione, si teme che ciò possa anche indebolire importanti disposizioni per la protezione dell'ambiente. Sono già molte le associazioni che denunciano i provvedimenti semplificativi delle autorizzazioni temendo che il paesaggio possa essere compromesso dall'invasione dei generatori rinnovabili. Le principali misure del PNRR in ogni settore con effetti sulla transizione ecologica
28 Gennaio 2021. Scompare Paul Crutzen, Padre dell'Antropocene
Paul J. Crutzen se ne è andato il 28 gennaio all'età di 87 anni. Crutzen ha scoperto come gli inquinanti atmosferici possono distruggere l'ozono stratosferico, che protegge la Terra dalle dannose radiazioni ultraviolette. Ha condiviso il Premio Nobel 1995 per la chimica per questo lavoro con F. Sherwood Rowland e Mario J. Molina, che avevano dimostrato che tali inquinanti includevano i clorofluorocarburi. Combinando una ricerca rigorosa con un dono per la comunicazione, Crutzen ha introdotto il termine "Antropocene" per descrivere quella che considerava una nuova epoca, caratterizzata dal predominio umano dei processi biologici, chimici e geologici sulla Terra. Il termine ha subito preso piede e stimolato la discussione in molte discipline. Si ritiene che l '"età degli esseri umani" sia iniziata a metà del XX secolo, con l'accelerazione dello sfruttamento delle risorse del pianeta. Crutzen è nato ad Amsterdam, nel 1933, e si è formato come ingegnere civile. Negli anni '60, ha studiato meteorologia all'Università di Stoccolma, mentre lavorava come programmatore di computer per sostenere la moglie finlandese, e la famiglia. Come studente laureato, ha combinato le sue capacità di programmazione e scientifiche costruendo un modello informatico della stratosfera. Mentre cercava di spiegare la distribuzione dell'ozono a diverse altezze, ha scoperto che gli ossidi di azoto potrebbero catalizzare le reazioni che distruggono l'ozono. All'inizio degli anni '70, quando gli scienziati iniziarono a discutere i livelli di ossidi di azoto che probabilmente sarebbero stati emessi dalle flotte di aerei supersonici, si rese conto che le emissioni antropiche potevano danneggiare lo strato di ozono stratosferico. Il suo lavoro coincise con quello di Molina e Rowland, che scoprirono che anche i composti contenenti cloro potevano essere utilizzati come propellenti, solventi e refrigeranti. Nel 1985, gli scienziati hanno scoperto un "buco" nello strato di ozono sopra l'Antartico. Crutzen ha contribuito a gettare le basi del Protocollo di Montreal del 1987, i cui stati firmatari si sono impegnati a eliminare gradualmente le sostanze che riducono lo strato di ozono. Lo strato di ozono ora mostra segni di ripresa.
12 gennaio 2021. Il governo pubblica un PNRR inadeguato
Nella bozza del PNRR, presentata dal Consiglio dei ministri il 12 gennaio, v’è una grande questione politica: l’inadeguatezza di una proposta molto lontana da quanto ci si sarebbe aspettati oltreché dagli standard europei. Il programma europeo NGEU, Next Generation EU, mette a disposizione risorse senza precedenti per il nostro Paese, ma per ricostruire meglio e in modo diverso, con innovazione, sostenibilità, attenzione al disagio sociale e alle disuguaglianze cresciute in questi anni. Nel testo del 12 gennaio, non c’è l’Allegato con le schede progetto necessarie per comprendere la concreta articolazione delle proposte. Questa situazione chiama in causa Governo ed opposizione, cui si chiede di parlare al Paese del merito delle proposte, della visione che si vuole portare avanti in modo da andare oltre le scelte ordinarie. È inaccettabile che si dica che non ci sono i tempi per aprire un confronto su queste proposte, pena problemi con Bruxelles e ritardi nel far partire i cantieri. Gli obiettivi del piano italiano sono numerosi e raggruppati in ben 6 missioni. NGEU è invece centrato su pochi obiettivi, con una priorità molto chiara: un Green Deal basato sulla transizione digitale e green, con il 37% delle risorse destinato alle misure per il clima. Il Piano francese, a sua volta, è centrato su tre missioni: la transizione ecologica, la competitività con la digitalizzazione e la coesione basata su un programma per i giovani. L’allargamento degli obiettivi priva il Piano italiano di effettive priorità e rischia di renderne più complessa e più difficile l’attuazione. Per la transizione ecologica, il Piano stanzia 69 Mld, dei quali però solo 36 sono per nuovi progetti. Circa 31 Mld sono, infatti, destinati a sostituire finanziamenti già stanziati per progetti già in essere e per arrivare al totale sono conteggiati anche altri finanziamenti europei già stanziati. Sarebbero disponibili quindi solo 6 Mld l’anno, in media, fino al 2026. Gli obiettivi sono numerosi: rendere la filiera agroalimentare sostenibile, implementare pienamente il paradigma dell’economia circolare, ridurre le emissioni di gas serra in linea con gli obiettivi EU 2030, incrementare la produzione di energia da fonti rinnovabili e sviluppare la rete di trasmissione, promuovere e sviluppare la filiera dell’idrogeno, sostenere la transizione verso mezzi di trasporto non inquinanti e le filiere produttive, migliorare le performance energetiche e antisismiche degli edifici, assicurare la gestione sostenibile della risorsa idrica, contrastare il dissesto idrogeologico e un programma di riforestazione e miglioramento della qualità delle acque interne e marine. La carenza maggiore si riscontra nella ripartizione delle risorse per finanziare nuovi interventi. Gli investimenti per le nuove misure climatiche non solo non sono ingenti, come dichiarato, ma non sono neppure il 37%. Si sente la mancanza di un aggiornamento del PNIEC, il Piano nazionale integrato energia e clima, e quindi della individuazione delle misure necessarie per arrivare al 2030, ma ci sono solo 1,3 Mld l’anno in più per tutte le rinnovabili, per la filiera e le reti e poco altro per tutto il resto delle misure. Meglio le misure per l’efficientamento energetico degli edifici sia pubblici sia privati. Largamente inadeguati gli stanziamenti per l’economia circolare. Per la mobilità urbana sostenibile ci sono solo 760 Ml l’anno che dovrebbero servire per un numero elevato di misure (le ciclovie, la filiera dei veicoli elettrici e ibridi, il rinnovo della flotta autobus, di quella dei treni regionali e dei trasporti navali regionali e per il trasporto rapido di massa) con quasi nulla sul tema strategico della sharing mobility. Chi si aspettava proposte innovative si trova di fronte a un documento desolante in particolare rispetto al sistema dei trasporti dove si rinuncia ad aggredire gli storici ritardi italiani. I cittadini del Mezzogiorno non vedranno cambiare quanto si attendevano una situazione di linee ancora a binario unico, non elettrificate, con pochissimi treni in circolazione. Si punta ancora sui grandi cantieri infrastrutturali con un elenco di ferrovie ad alta velocità, oltretutto in larga parte già finanziate, come la Brescia-Padova, la Milano-Genova, la Napoli-Bari. Come sempre per le città il ruolo è marginale, con i titoli giusti – decarbonizzazione, rinnovo del parco circolante, riduzione del gap infrastrutturale – ma con risorse del tutto inadeguate. Il vero deficit è, inutile dirlo, sui mancati investimenti per le città ed il trasporto locale Che fare quindi per rendere effettivamente prioritarie le nuove misure per il Green Deal, che non è solo richiesto dall’Europa, ma è importante per cogliere e valorizzare i potenziali molto elevati di sviluppo della green economy italiana? Ci sarebbero almeno tre possibilità: distribuire fra tutte le 6 missioni in modo più equo i 66 miliardi di finanziamento dei progetti in essere, lasciando così più risorse disponibili per nuovi progetti; ridurre la gamma degli interventi per concentrare maggiori risorse sulle priorità del Green Deal; usare una parte del prestito del MES per coprire almeno una parte dei 18 miliardi previsti per la salute e liberare così parte delle risorse per altre destinazioni.
15 novembre 2020. Un nuovo capitalismo del bene comune
Apparsa agli onori della cronaca più larga per aver rifiutato la propria firma al cosiddetto Piano Colao per il rilancio dell'economia italiana, Mariana Mazzucato elabora una visione nuova, non rivoluzionaria, di un capitalismo mosso dall'interesse pubblico. Il fallimento totale del capitalismo globalizzato e finanziarizzato, prima nella crisi subprime del 2008 e oggi nella gravissima crisi globale del Covid -19, impone cambiamenti immediati e sostanziali degli assetti dell'economia mondiale e l'indirizzamento degli investimenti verso lo sviluppo sostenibile e la green economy, con al centro il recupero della salute, della qualità della crescita e la riparazione degli immensi danni apportati dal capitalismo alla società e al benessere. Con il Covid le imprese, che hanno accumulato denaro a non finire, bussano alla porta dei governi implorando miserabilmente risorse per la sopravvivenza e si preparano a nuovi cicli di accumulazione, tagli e licenziamenti. Tutto ciò è improponibile e solo un rinnovato ruolo degli Stati, in nome della salute e del benessere dei cittadini potrà riportare sulla scena una dimensione di un futuro possibile. Il nostro invito è alla lettura della Mazzucato, in particolare del pamphlet "Non sprechiamo questa crisi" pubblicato da Laterza e diffuso da Repubblica, che, ricordiamo è ora un giornale di un gruppo imprenditoriale torinese, non noto per la sua inclinazione all'innovazione. L'autrice insegna economia a Londra dove ha fondato lo IIPP, Institute for Innovation and Public Purpose. Oggi ci si presenta l'occasione di approfittare di questa crisi per capire come fare capitalismo in modo diverso. Occorre ripensare il ruolo dello Stato: i governi dovrebbero assumere un ruolo attivo per una crescita sostenibile ed inclusiva, per orientare la ricerca e lo sviluppo ad obiettivi di interesse pubblico e per patrocinare partnership pubblico - private guidate dall'interesse pubblico. Quando le aziende si fanno avanti con richieste di salvataggio o assistenza si devono dettare condizioni affinché gli investimenti le portino verso la green economy, la decarbonizzazione in una chiave di inclusione sociale. Il capitalismo che conosciamo è preda al contempo di una crisi sanitaria, economica e climatica. Ora che lo Stato è tornato a recitare un ruolo da protagonista, sarà esso stesso a fornire le soluzioni pensate in modo da servire l'interesse pubblico. Le aziende che ricevono risorse pubbliche dovranno essere obbligate a mantenere i posti di lavoro e garantire la formazione dei dipendenti ora nella crisi, poi nella transizione e il miglioramento delle condizioni occupazionali. gli interventi pubblici dovranno comportare degli obblighi, come quello di vincolare le imprese ad abbattere le emissioni serra, rinunciare alla delocalizzazione e minimizzare l'outsourcing. Gli imprenditori sono inclini a socializzare i rischi ma non i guadagni. Nella crisi chiedono aiuti, ma quando l'economia prospera i vantaggi restano rigorosamente privati. Nella loro visione solo le imprese creano valore e lo Stato si deve limitare a facilitare questo processo. In realtà è il concetto stesso di valore che va ridefinito perché abbiamo confuso il valore con il prezzo di mercato e questo ha alimentato la diseguaglianza e distorto il ruolo del settore pubblico il quale invece, attraverso la produzione di beni pubblici (istruzione, sanità ...) e la sorveglianza dei beni comuni (cultura, paesaggio, ambiente ...), produce eccome valori che non hanno prezzo, ben lontani dal mercato. La ripresa post - Covid dovrà essere green e smart. I mercati da soli non riusciranno a individuare percorsi di crescita sostenibili ed equi. Innovazione e regolamentazione dovranno muoversi in una direzione stabile e coerente. Il fatto di subordinare la concessione degli aiuti pubblici al rispetto di determinate condizioni contribuisce a canalizzare le risorse economiche in modo strategico, garantendo che vengano reinvestite in maniera produttiva piuttosto che essere catturate dalla speculazione. Se ben applicate le condizionalità possono allineare i comportamenti delle aziende ai bisogni della società, garantendo uno sviluppo sostenibile. Inoltre, per evitare conseguenze permanenti, l'approccio della Just transition, elaborato nell'ambito del cambiamento climatico, deve essere implementato in tutti i settori brown dell'economia per dare vita a posti di lavoro green e durevoli. Occorre ripristinare il paradigma keynesiano della piena occupazione, sotto tutti gli aspetti un bene comune, sotto forma di un sistema di garanzie tale da far sì che il capitale umano non vada sprecato né si deteriori. La sfida a lungo termine più importante che dobbiamo affrontare è il cambiamento climatico. Lo si può fare solo con un Green Deal di pari forza della trasformazione socioeconomica keynesiana del dopoguerra Di essa i principali attori, da Parigi in poi, sono gli Stati, non le imprese. Per questo abbiamo bisogno di piani e programmi per implementare una transizione green. Si rende necessaria una nuova era di investimenti pubblici per riorganizzare il nostro panorama tecnologico, produttivo e sociale. Le cose da fare
Le cose da non fare
19 settembre 2020. La nuova strategia comunitaria per il 2030
La Commissione Europea ha pubblicato un documento di grande importanza che sposta in avanti gli obiettivi climatici ed energetici al 2030. Al termine del processo di co-decisione i nuovi obiettivi diverranno obbligatori per i Paesi membri. Le conclusioni del documento: Rafforzare l'ambizione climatica dell'Europa per il 2030. Investire in un futuro climaticamente neutro a beneficio delle nostre persone, sono le seguenti. Aumentare l'ambizione dell'UE fino a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto al 1990 entro il 2030 è fattibile e vantaggioso per la salute, la prosperità e il benessere dei nostri cittadini. Senza sottovalutare la sfida di mobilitare significativi investimenti aggiuntivi nel prossimo decennio e di promuovere una transizione giusta e, nel contesto della ripresa COVID-19, si offre così un'opportunità di investimenti duraturi che possono rilanciare l'economia dell'UE. Una maggiore ambizione per il 2030 contribuirà a un percorso di riduzione delle emissioni più graduale e ad una transizione economica e sociale più equilibrata verso la neutralità climatica nei prossimi 30 anni. Pertanto, sarà più credibile, più prudente e più equa rispetto alle generazioni future.
Agire in modo ambizioso fornirà all'UE e alle sue imprese e industrie il vantaggio di prime mover nell'arena economica internazionale, aumentando la sua competitività nei mercati globali in crescita per le tecnologie sostenibili e verdi. Altrettanto importante è che il miglioramento dell'ambizione porterà vantaggi, insieme alla lotta al cambiamento climatico, come la riduzione del costo di importazione di combustibili fossili, una maggiore sicurezza energetica, inquinamento atmosferico ridotto, salute migliore, biodiversità migliorata, minore dipendenza da materie prime importate e meno rischi derivanti dai rifiuti. Accoppiato con l'aumento delle energie rinnovabili e le politiche di efficienza energetica, taglierà i costi energetici per famiglie e aziende e, a condizione che gli impatti sociali siano affrontati, contribuirà ad alleviare la povertà energetica e alla crescita e all'occupazione. I cittadini, le imprese e le parti sociali dell'UE richiedono maggiore certezza e prevedibilità sulla via verso la neutralità climatica. Pertanto, la Commissione sta modificando la sua proposta per la prima legge europea sul clima oggi, aggiungendo un obiettivo per il 2030 di almeno il 55% di riduzioni nette delle emissioni di gas serra rispetto al 1990. Questo sarà l'inizio per un percorso possibile affinché l'UE diventi climaticamente neutra entro il 2050.
La Commissione invita il Parlamento europeo e il Consiglio a raggiungere
rapidamente un accordo e adottare il regolamento della legge europea sul
clima. Nel corso dei prossimi nove mesi, la Commissione riesaminerà la sua
legislazione energetica. La presente comunicazione individua già le opzioni
chiave per modificarla. La Commissione è convinta che tutti gli strumenti
politici rilevanti per la decarbonizzazione della nostra economia devono
lavorare in modo coerente per raggiungere gli obiettivi. Un rinforzato
schema ETS, un maggiore utilizzo dello scambio di quote di emissioni a
livello dell'UE, una efficienza energetica più severa e molta più energia
rinnovabile avranno tutti un ruolo importante nel raggiungimento degli
obiettivi green europei. Lo stesso vale per le politiche energetiche,
gli strumenti a sostegno della mobilità e dei trasporti sostenibili,
l'economia circolare e le politiche ambientali, agricole, finanziarie, la
ricerca e l'innovazione industriale.
02 Agosto 2020. Toni Federico: Clima ed energia: le chiavi per uscire dalla crisi pandemica
Il Recovery Plan. Un Recovery Plan da 750 Mld€, finanziato con modalità di tipo federalistico, porterà all’Italia tra sovvenzioni e prestiti 209 Mld€, un terzo dei quali obbligatoriamente da investire nella lotta ai cambiamenti climatici. Per accedere a questi fondi ci viene chiesto di presentare entro il prossimo ottobre un Piano nazionale di riforme e di investimenti pubblici che definisca quella che sarà la transizione energetica ed industriale dell’Italia nei prossimi tre decenni. La proposta della Commissione prevede che l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund sia finalizzato a investimenti in grado non solo di affrontare l’emergenza, ma di assicurare un futuro alle prossime generazioni. Può dare grande impulso all’occupazione, con attenzione ai processi di conversione industriale e di formazione dei lavoratori e dei giovani. Il Green Deal deve costituire l’elemento di condizionamento e di guida della ripresa, in nome del quale l’azione dei Governi europei e della finanza pubblica riprendono il ruolo di indirizzo dell’attività delle imprese abbandonato in nome del dettato neo-liberista, quello stesso che ha aggravato le diseguaglianze a livello mondiale, che ha scaricato sui lavoratori il peso delle sue utilità e che si dimostrato fallimentare proprio a fronte della pandemia. Il Green Deal non è una fuga in avanti ambientalista, ma un solido programma popolare condiviso dalla maggior parte dei Paesi membri. Le prime misure da mettere in campo sono quelle per il raggiungimento di target più ambiziosi al 2030, -55% ed oltre di riduzione delle emissioni GHG, che richiedono notevoli investimenti nella transizione energetica, nell’efficienza e nel risparmio energetico, nello sviluppo delle rinnovabili, nella elettrificazione della mobilità di passeggeri e merci e nelle tecnologie per l’idrogeno green e per la cattura e il sequestro del carbonio. Il cambiamento verso un modello circolare di economia, promosso anche dalle nuove direttive europee nella necessaria funzione di accompagnamento della lotta ai cambiamenti climatici e all’inquinamento, richiede investimenti nei processi e nei prodotti industriali, per prolungarne la durata, migliorarne la riparabilità e le possibilità di riuso, per renderli più facilmente riciclabili e per aumentare l’impiego di materie prime seconde. Accanto alle fonti di energia rinnovabile, l’altra grande dimensione della transizione energetica è l’efficienza, che non è solo risparmio, ma soprattutto innovazione tecnologica e gestione del territorio. L’efficienza dovrà essere interpretata a livello locale, nelle città, investendo in progetti di nuova rigenerazione urbana che comprenda non solo i tradizionali interventi di recupero di edifici e di aree dismesse, ma misure di mitigazione e adattamento climatico e un potenziamento delle infrastrutture verdi. Non ultima per importanza va ridefinita la strategia agroalimentare europea secondo il modello Farm to Fork, per garantire la sostenibilità della produzione e la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, per promuovere un consumo alimentare sostenibile e ridurre le perdite e gli sprechi ma anche per assecondare il processo generale di transizione e l’uso del territorio nella chiave climatica. L’impegno di risorse necessarie per il Green Deal è stato calcolato, nel documento di lavoro che accompagna la Comunicazione della Commissione europea del 27 maggio, in 470 Mld€, così suddivisi: 30 per le rinnovabili, 190 per l’efficienza energetica, 120 per la mobilità sostenibile, 77 per altre misure per il clima e l’ambiente e 53 per l’economia circolare e la gestione delle risorse. È fuori strada pertanto chi pensa all’apertura di una sorta di bancomat dove ciascun Paese possa prelevare soldi, solo con limiti quantitativi, per spenderli come vuole, senza tener conto degli indirizzi e delle priorità indicate a livello europeo. Il 30% destinato al Green Deal. L’azione per il clima - si dice nel testo delle conclusioni del Consiglio del 21 luglio - sarà integrato nelle politiche e nei programmi finanziati nell’ambito del QFP e di Next Generation EU per il 30% dell’importo totale della spesa, pari per l’Italia a 62,7 Mld€. La condizione è che gli obiettivi devono conformarsi entro il 2050 alla neutralità climatica e ai nuovi milestone climatici dell’Unione per il 2030, che verranno aggiornati entro fine 2020. Un monitoraggio della spesa per il clima e della sua efficienza, incluse la rendicontazione e misure pertinenti in caso di progressi insufficienti, dovrebbe garantire che il prossimo QFP nel suo complesso contribuisca all’attuazione dell’accordo di Parigi. La Commissione riferirà annualmente in merito alle spese per il clima. Per rispettare queste condizionalità è opportuna l’applicazione al Recovery Plan della Tassonomia europea per gli investimenti sostenibili e green, stabilendo più chiaramente che si può finanziare una serie di progetti che hanno effetti positivi per una serie di obiettivi climatici e ambientali e che comunque non li devono in ogni caso danneggiare. La misura è formulata in modo generico e potrebbe essere facilmente aggirabile dai Piani nazionali. L’altro pilastro del Green Deal, è l’economia circolare che invece è molto indebolita nelle indicazioni europee del Recovery Plan. Senza economia circolare non vi può essere né economia climaticamente neutra, né Green Deal: da qualche parte questa indicazione per i Piani nazionali dovrebbe essere ben più chiara. Nel conclusioni del Consiglio si trovano diversi riferimenti all’agricoltura e alla PAC, ma non al Green Deal e alla transizione alla neutralità ben declinati dalla recente strategia europea Farm to Fork tanto che anche l’indicazione del 40% dei fondi per l’agricoltura a misure climatiche risulta indebolita. Si consulti il bel Rapporto di Luigi di Marco sulle iniziative europee pre e post pandemia, Green Deal e New Generation EU. Il 2019 e la pandemia. Secondo le indicazioni di Italy4climate la pandemia ci riserva una prospettiva di sostanziale incertezza. Non possiamo anzitutto nascondere la situazione come si presentava a fine 2019: si chiude il decennio più caldo mai registrato in Italia, con 13,4 °C di temperatura superficiale media; tra il 2008 al 2019 cresce di 10 volte il numero di eventi estremi in Italia, fino a 1600; le emissioni! di gas serra non diminuiscono sensibilmente da sei anni, stazioniamo sopra i 420 MtCO2eq; l'efficienza energetica dell'economia da diversi anni non migliora più e permane intorno a 93 tep/M€; in sei anni in Italia le rinnovabili elettriche crescono meno che nel resto d'Europa (+3%) anche se erogate a prezzi inferiori, mediamente meno di 5 €cent/kWh. Cala a 20 TWh la produzione elettrica da carbone, così consentendo la discesa dell’impronta carbonica dell’energia elettrica a 289 gCO2/kWh, mentre ne viene confermato il phase-out entro il 2025; le emissioni dei trasporti, pur con meno auto diesel vendute, salgono in media a 119 gCO2/km. Gli effetti sensibili della pandemia ci stanno dicendo che solo nei mesi di marzo e aprile 2020 abbiamo ridotto le emissioni di oltre 20 MtCO2 rispetto all’anno precedente. Nella fase di piena operatività delle misure di restrizione, la riduzione delle emissioni è stata intorno al 35% che, al di là delle apparenze, è in realtà molto vicina a quello che dovrebbe essere il taglio da raggiungere in appena un decennio per centrare gli obiettivi di Parigi e non far precipitare la crisi climatica. Questo ci mostra in maniera molto chiara la dimensione dello sforzo che dovremmo fare nei prossimi anni e anche la distanza dall’obiettivo di contenimento del cambiamento climatico. Per altro verso, dopo la flessione record registrata ad Aprile in pieno lockdown, il bollettino di Terna per il mese di maggio evidenzia una decisa ripresa dei consumi elettrici (+10%) rispetto al mese precedente, per un totale di 22,7 TWh di elettricità consumata, di cui il 94,4% è stata soddisfatta con produzione nazionale. Il maggio appena trascorso rispetto allo stesso mese del 2019 ha fatto segnare un -10%. In questo contesto spicca però un importante record positivo: il 51% della domanda nazionale di elettricità è stato coperto da fonti rinnovabili, il valore mensile più alto di sempre. Nello stesso periodo del 2019, la domanda di energia elettrica coperta da FER è stata del 41%. A maggio la produzione di elettricità da fonti rinnovabili è cresciuta dell’12% rispetto allo stesso mese del 2019 e la produzione fotovoltaica, pari a 2,9 TWh, ha superato del 25% il maggio 2019. Quella eolica, pari a 1,8 TWh vale un +6,3%. Le nostre proposte per la ripresa. Poiché è previsione facile e condivisa che l’atteso rimbalzo del PIL post-Covid si trascinerebbe dietro tutte le variabili energetiche, è evidente la necessità di giocare d’anticipo e quindi la priorità da riservare al rilancio delle fonti rinnovabili e dell’elettrificazione nell’impiego dei primi investimenti che vanno fatti con i fondi europei. Non certo nuove autostrade e nuova cementificazione, ma molte più rinnovabili elettriche, un forte impulso all’autoproduzione elettrica, all’elettrificazione dei trasporti, e finalmente la realizzazione della smart grid elettrica dotata di intelligenza e capacità di stoccaggio. Quest’ultima, e non certo la rete 5G, è la vera innovazione telematica per portare energia rinnovabile a tutti. Certamente portare Internet a tutti è parte integrante del rilancio, ma conta di più l’estensione territoriale e l’alfabetizzazione informatica generalizzata che non l’alta velocità telefonica e il relativo abuso delle piattaforme social con cui le compagnie telefoniche fanno soldi solo nei centri urbanizzati più densi e più ricchi. Non basta tuttavia promuovere il solo consumo delle rinnovabili, occorre spostare il sistema industriale dall’attuale attitudine soporifera e misoneista verso le produzioni green che possono garantire un gran numero di nuovi posti di lavoro e il recupero di una competitività sui mercati sempre più compromessa. Tra queste va favorita l’introduzione dell’idrogeno green come vettore energetico rinnovabile, prodotto mediante l’energia solare e l’elettrolisi dell’acqua. Parliamo anche di elettrificazione rinnovabile dei trasporti pubblici e privati puntando sulla mobilità dolce, rilanciata a livello mondiale dalla pandemia, sull’idrogeno verde, sulle celle a combustibile per il trasporto pesante e sulle facility pubbliche e domestiche per la ricarica delle batterie, accompagnate da un programma di costruzione di stazioni di ricarica di potenza in tutte le stazioni di servizio e on demand. Sicuramente l’Europa provvederà alla standardizzazione dell’hardware per la ricarica. Occorre una ulteriore promozione della ferrovia, passeggeri e merci, con la introduzione dell’obbligo dei veicoli elettrici per la logistica merci dell’ultimo km. Agli scettici ricordiamo che sono Amazon e company ad aver ormai sviluppato tutta l’intelligenza artificiale che serve per consegnare le merci. Inutile stare a guardare. Per i trasporti extraurbani niente asfalto o cementificazione aggiuntivi ma manutenzione del capitale infrastrutturale costruito. Lungo questo percorso non si comprende l’incentivazione dei mezzi benzina e diesel Euro 6 introdotta dal Governo nel Decreto rilancio né l'attenuazione delle garanzie ambientali dei appalti adombrate nelle proposte di semplificazione. Investimenti vanno ad un ulteriore sviluppo dell’efficienza energetica, nella quale l'Italia è meno in ritardo. Si tratta di riduzione e controllo dei consumi, ma anche di innovazione tecnologica. Va riqualificato il patrimonio edilizio con investimenti e incentivi per l’edilizia a consumi ed emissioni zero, apportatori di buona e nuova occupazione. Il riscaldamento e il raffreddamento devono al più presto abbandonare il gas naturale in favore delle pompe di calore, dispositivi elettrici reversibili dal caldo al freddo, riqualificando la progettazione degli edifici. Tra le lezioni della pandemia emerge con forza, nel panorama dell’efficienza, la pratica dello smart working, che sta dando prove straordinarie in fatto di economie di sistema, risparmio energetico, mitigazione della mobilità delle persone, connettività sociale e innovazione tecnologica. Riscrivere il PNIEC italiano. C’è n’è più che abbastanza per riscrivere l’obsoleto PNIEC italiano, con un rapido adeguamento delle misure e degli impegni alla roadmap 2050 della decarbonizzazione europea del Green Deal e un percorso pianificato per ridurre le emissioni GHG almeno del 55% al 2030. Ricordiamo che i PNIEC sono documenti ufficiali dell’Unione che possono fortemente condizionare l’erogazione dei fondi. La flebile Legge sul clima italiana va riscritta, rimessa al passo con la legge europea e dotata di strumenti attuativi e finanziari all’altezza degli obiettivi. La Commissione Europea ha preparato in marzo per il Parlamento e il Consiglio una Climate Law che propone il target della decarbonizzazione al 2050 come obbligatorio (legally binding) per tutti i paesi membri e nuovi obiettivi per il 2030. Ribadiamo che per stare sul percorso di Parigi è richiesta la conferma del phase out totale del carbone al 2025 con la riduzione del ricorso al gas naturale per energia, riscaldamento e trasporti in favore dell’uso del biometano e dell’idrogeno green. Con le dovute cautele l’Italia deve associarsi ai progetti per la CCS e BECCS a scala europea ed internazionale evitando le fughe in avanti come il Progetto Ravenna dell’ENI. Va promossa la ricerca scientifica sul DAC e sui gravi rischi della geoingegnerizzazione del clima. Preso atto dell’aumentato sforzo delle Amministrazioni pubbliche per fare fronte al dissesto idrogeologico e al grave degrado delle infrastrutture e del patrimonio architettonico, va prontamente strutturato e dotato di risorse il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, a partire dalla Strategia esistente ma in una chiave rafforzata dagli orientamenti del Green Deal. Sull’onda dei recenti disastri di Genova, Venezia, Palermo e di altri ancora si dimostra una sinergia sistemica tra queste tematiche e quelle della protezione della salute, che hanno in comune i fattori organizzativi, le finalità ed anche le origini nelle quali si riconoscono gli effetti della violazione degli assetti naturali e degli habitat degli organismi viventi. Fiscalità ed incentivi dannosi. Una sempre rinviata riforma fiscale ecologica è chiamata ad adeguare le accise sui carburanti, a parità di gettito, in funzione del contenuto in carbonio dei combustibili. Una meditata riflessione deve portare l’Italia all’adozione progressiva di una Carbon Tax generalizzata e alla adozione della Border Tax del Green Deal europeo, equilibrando un prezzo unitario per le emissioni di carbonio tra i settori ETS a controllo europeo e gli altri settori, in particolare civile e trasporti. Dopo interminabili esitazioni va normato con target e scadenze il percorso per la eliminazione degli incentivi ambientalmente dannosi a partire dai combustibili per aviazione civile, autotrasporto, agricoltura e pesca. Si tratta qui non solo e non tanto di offrire compensazioni economiche ai settori colpiti, quanto di offrire alternative sistemiche e dispositivi alternativi, tecnologicamente basati sulle fonti rinnovabili, in particolare sull’idrogeno green. Si attende un nuovo protagonismo dell’Italia nei rapporti multilaterali, dove clima energia e salute sono la nota dominante. Ci riferiamo al G7 al G20 di Roma del 2021 ma soprattutto alla COP 26, vera occasione mancata dall’Italia che avrebbe dovuto esserne Presidente e protagonista e che ora si trova nel ruolo di comprimaria con il Regno Unito, appena uscito dall’Unione. Nonostante le enormi difficoltà finanziarie del nostro Paese non si vede come ci si possa esimere dall’invocare che l’Italia, partner della Coalizione dei Paesi ambiziosi, onori i propri impegni per il finanziamento del Green Climate Fund, quest’anno alla scadenza dell’obiettivo dei 100 GUS$/anno, ma lontanissimo da questo target.
11 Dicembre 2019. In dieci punti il Green Deal di Ursula von der Leyen. Finalmente l'Europa al rango programmatico che le appartiene
- Un giusto fondo di transizione che mobiliterà risorse dal bilancio della politica regionale dell'UE; - Il programma "InvestEU", con denaro proveniente dalla Banca europea per gli investimenti; - Finanziamenti BEI provenienti dal capitale della banca dell'UE.
è del massimo interesse il Dossier (Nota breve 18/140) pubblicato dall'ufficio studi del Senato sulla introduzione nelle Costituzioni dei paesi memb4ri di riferimenti all'ambiente e allo sviluppo sostenibile. Il testo delle Costituzioni degli Stati europei sorte nell'immediato secondo dopoguerra non palesa, in generale, una particolare attenzione verso la tutela dell'ambiente. Non così il testo di Costituzioni più recenti (come la spagnola del 1978), invece dotate di specifiche disposizioni. È però accaduto che in sede di revisione costituzionale disposizioni sull'ambiente siano state inserite in corso di tempo entro una Carta costituzionale o legge fondamentale più risalente (come nei Paesi Bassi nel 1983, in Germania nel 1994 e, con particolare ampiezza, in Francia nel 2005). Il Dossier non riporta i dati per l'Italia nè riferisce delle proposte di inserimento dello sviluppo sostenibile nella Costituzione italiana, proposte avanzate da diversi partiti politici e di recente raccolte anche dal Governo.
Estate 2019: L'intervento di insediamento del nuovo Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il Programma del nuovo governo italiano Il primo in particolare, ma anche il secondo, portano riconoscibili i segni di importanti passi in avanti nella direzione dello Sviluppo sostenibile. Riteniamo perciò opportuno e conveniente disporre nel sito i riferimenti ad entrambe le istanze, augurandoci che non si debba trattare unicamente di citazioni meramente bibliografiche.
Il testo del discorso con cui Ursula von der Leyen si è presentata il 16 luglio 2019 al Parlamento Europeo per ottenere l'incarico di nuova Presidente della Commissione europea è disponibile per intero. Di seguito riportiamo i punti che abbiamo ritenuto determinarti e maggiormente promettenti nel percorso di promozione dello sviluppo sostenibile: "... Yet it is now clear to each and every one of us that we must once again take a stand and fight for our Europe. The whole world is being challenged by disruptive developments that have not passed Europe by Demographic change, globalisation of the world economy, rapid digitalisation of our working environment and, of course, climate change. None of these meta-developments is new: science predicted them a long way back. What is new is that we, as citizens of Europe — irrespective of the country in which we live — are feeling and experiencing their effects first hand... Our most pressing challenge is keeping our planet healthy. This is the greatest responsibility and opportunity of our times. I want Europe to become the first climate-neutral continent in the world by 2050. To make this happen, we must take bold steps together. Our current goal of reducing our emissions by 40% by 2030 is not enough. We must go further. We must strive for more. A two-step approach is needed to reduce CO2 emissions by 2030 by 50, if not 55%. The EU will lead international negotiations to increase the level of ambition of other major economies by 2021. Because to achieve real impact, we do not only have to be ambitious at home – we have to do that, yes – but the world has to move together. To make this happen, I will put forward a Green Deal for Europe in my first 100 days in office. I will put forward the first ever European Climate Law which will set the 2050 target into law. This increase of ambition will need investment on a major scale. Public money will not be enough. I will propose a Sustainable Europe Investment Plan and turn parts of the European Investment Bank into a Climate Bank. This will unlock €1 trillion of investment over the next decade. It means change. All of us and every sector will have to contribute, from aviation to maritime transport to the way each and everyone of us travels and lives. Emissions must have a price that changes our behaviour. To complement this work, and to ensure our companies can compete on a level-playing field, I will introduce a Carbon Border Tax to avoid carbon leakage. But what is good for our planet must also be good for our people and our regions. Of course I know about the importance of cohesion funds. But we need more. We need a just transition for all. Not all of our regions have the same starting point – but we all share the same destination. This is why I will propose a Just Transition Fund to support those most affected... This is the European way: we are ambitious. We leave nobody behind. And we offer perspectives. If we want to succeed with this ambitious plan we need a strong economy. Because what we want to spend we need to earn first... The world is calling for more Europe. The world needs more Europe. I believe Europe should have a stronger and more united voice in the world – and it needs to act fast. That is why we must have the courage to take foreign policy decisions by qualified majority. And to stand united behind them ...". In data 9 settembre 2019 il Premier Italiano Giuseppe Conte si è rivolto alla Camera dei deputati per ottenere la fiducia al suo nuovo Governo. Il testo integrale del discorso è disponibile e di esso vanno citati i seguenti passaggi: "... La politica deve adoperarsi per elaborare un grande piano che attribuisca all’Italia una posizione di leadership nel campo dei nuovi modelli economici eco-sostenibili. Partiamo avvantaggiati. In Europa già ci distinguiamo per l’utilizzo delle energie rinnovabili. Dobbiamo puntare all’utilizzo delle tecniche scientifiche più innovative e sofisticate per consolidare questo primato. Abbiamo progetti all’avanguardia nello sfruttamento dell’energia dai moti ondosi, possiamo sfruttare nuove tecniche di produzione in base alla c.d. biomimesi. L’obiettivo da perseguire deve essere una efficace “transizione ecologica”, in modo da pervenire a un’articolata politica industriale, che, senza scadere nel dirigismo economico, possa gradualmente orientare l’intero sistema produttivo verso un’economia circolare, che favorisca la “cultura del riciclo” e dismetta la “cultura del rifiuto”. Lo sviluppo equo e sostenibile deve spingerci a integrare in modo sistematico, nell’azione di governo, un nuovo modello di crescita, non più “economicistico”. Dobbiamo incentivare le prassi delle imprese socialmente responsabili, che permetteranno di rendere il nostro tessuto produttivo sempre più competitivo anche nel mercato globale. Confido che la cabina di regia “Benessere Italia”, che ho da poco istituita, possa tornare ben utile a questi scopi, anche in futuro... Più in generale, la politica deve reagire alle sfide del mondo globale rilanciando un ventaglio di proposte e soluzioni che, più volte nei miei interventi, ho riassunto con la formula “nuovo umanesimo”. Non sto qui a riassumerle, ma è stata questa la stella polare che mi ha guidato in questi mesi di governo. Anche sull’Europa, occorre un rinnovato slancio di responsabilità. Gli ideali che avevano nutrito le fasi iniziali del processo di integrazione stanno via via perdendo la loro forza propulsiva e il comune edificio europeo sta attraversando una fase particolarmente critica ...". Del pari importante è l'esame dei 29 punti del Programma del Nuovo governo. Da essi citiamo: ... 3) Il sistema industriale del nostro Paese sconta problemi di bassa crescita e produttività, ma ha in sé grandi potenzialità per affrontare la sfida di una nuova stagione di sviluppo che faccia dell'Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile il suo punto di forza. Siamo una realtà nella quale la produzione di massa incontra la capacità di personalizzazione del prodotto. La presenza di unità economiche di piccola e media dimensione (settori artigianali, design, manifattura) ci consentono flessibilità nei processi e adesione alle richieste del mercato. Oggi la sfida è quella dell'innovazione connessa a una convincente transizione in chiave ambientale del nostro sistema industriale, allo sviluppo verde per creare lavoro di qualità, alla piena attuazione dell'economia circolare, alla sfida della "quarta rivoluzione industriale": digitalizzazione, robotizzazione, intelligenza artificiale. Il piano Impresa 4.0 è la strada tracciata da implementare e rafforzare. Il Governo intende inoltre potenziare gli interventi in favore delle piccole e medie imprese...
7) Il Governo intende realizzare un Green New Deal, che comporti un radicale
cambio di paradigma culturale e porti a inserire la protezione dell'ambiente
e della biodiversità tra i principi fondamentali del nostro sistema
costituzionale. Tutti i piani di investimento pubblico dovranno avere al
centro la protezione dell'ambiente, il progressivo e sempre più diffuso
ricorso alle fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari,
il contrasto ai cambiamenti climatici. Occorre adottare misure che
incentivino prassi socialmente responsabili da parte delle imprese;
perseguire la piena attuazione della eco-innovazione; introdurre un apposito
fondo che valga a orientare, anche su base pluriennale, le iniziative
imprenditoriali in questa direzione. È necessario promuovere lo sviluppo
tecnologico e le ricerche più innovative in modo da rendere quanto più
efficace la "transizione ecologica" e indirizzare l'intero sistema
produttivo verso un'economia circolare, che favorisca la cultura del riciclo
e dismetta definitivamente la cultura del rifiuto. 12) Una nuova strategia di crescita fondata sulla sostenibilità richiede investimenti mirati all'ammodernamento delle attuali infrastrutture e alla realizzazione di nuove infrastrutture, al fine di realizzare un sistema moderno, connesso, integrato, più sicuro, che tenga conto degli impatti sociali e ambientali delle opere...
22) Occorre tutelare i beni comuni, a partire dalla scuola pubblica:
è necessario intervenire contro le classi troppo affollate e valorizzare,
anche economicamente, il ruolo dei docenti, potenziare il piano nazionale
per l'edilizia scolastica e garantire la gratuità del percorso scolastico
per gli studenti provenienti da famiglie con redditi medio-bassi,
contrastare la dispersione scolastica e il bullismo. L'acqua è un bene
comune: bisogna approvare subito una legge sull'acqua pubblica, completando
l'iter legislativo in corso. Il Governo è impegnato a difendere la sanità
pubblica e universale, valorizzando il merito. Occorre inoltre, d'intesa con
le Regioni, assicurare un piano di assunzioni straordinarie di medici e
infermieri; integrare i servizi sanitari e socio-sanitari territoriali;
potenziare i percorsi formativi medici. Sarà rafforzata l'azione di
contrasto al gioco d'azzardo patologico. Anche le nostre infrastrutture sono
beni pubblici ed è per questo che occorre garantire maggiori investimenti,
assicurare manutenzioni ordinarie e straordinarie più assidue, tutelare gli
utenti e rafforzare il sistema della vigilanza in ordine alla sicurezza
infrastrutturale. Sarà inoltre avviata la revisione delle concessioni
autostradali, confermando il piano tariffario unico. È necessario, infine,
rafforzare la normativa per tutelare gli animali, contrastando ogni forma di
violenza e di maltrattamento nei loro confronti. 29) L'agricoltura e l'agroalimentare rappresentano un comparto decisivo rispetto alle sfide che il nostro Paese deve affrontare. È necessario sviluppare la filiera agricola e biologica, le buone pratiche agronomiche; conservare e accrescere la qualità del territorio, contenendo il consumo del suolo agricolo; adottare gli strumenti necessari per preservare le colture tradizionali e biologiche, tutelando peculiarità e specificità produttive, così come l'agricoltura contadina nelle cosiddette "aree marginali"; sostenere le aziende agricole giovanili; investire nella ricerca in agricoltura, individuando come prioritari la sostenibilità delle coltivazioni e il contrasto ai mutamenti climatici, l'uso efficiente e sostenibile della risorsa idrica, la più ampia diffusione dell'agricoltura di precisione. Occorre, inoltre, concorrere al rafforzamento delle regole dell'Unione europea per l'etichettatura e la tracciabilità degli alimenti e porre la massima attenzione, in sede di negoziazione dei trattati commerciali, alla salvaguardia delle produzioni tipiche. Per le imprese agricole si aprirà a breve un negoziato strategico per la nuova PAC: l'Italia dovrà perseguire, anche in quella sede, l'obiettivo di valorizzare le nostre eccellenze agricole e la filiera agroalimentare".
8 giugno 2019. Stiglitz per il Guardian: The climate crisis is our third world war
Advocates of the Green New Deal say there is great urgency in dealing with the climate crisis and highlight the scale and scope of what is required to combat it. They are right. They use the term “New Deal” to evoke the massive response by Franklin Delano Roosevelt and the United States government to the Great Depression. An even better analogy would be the country’s mobilization to fight World War II. Critics ask, “Can we afford it?” and complain that Green New Deal proponents confound the fight to preserve the planet, to which all right-minded individuals should agree, with a more controversial agenda for societal transformation. On both accounts the critics are wrong. Yes, we can afford it, with the right fiscal policies and collective will. But more importantly, we must afford it. The climate emergency is our third world war. Our lives and civilization as we know it are at stake, just as they were in the second world war. When the US was attacked during the second world war no one asked, “Can we afford to fight the war?” It was an existential matter. We could not afford not to fight it. The same goes for the climate crisis. Here, we are already experiencing the direct costs of ignoring the issue – in recent years the country has lost almost 2% of GDP in weather-related disasters, which include floods, hurricanes, and forest fires. The cost to our health from climate-related diseases is just being tabulated, but it, too, will run into the tens of billions of dollars – not to mention the as-yet-uncounted number of lives lost. We will pay for climate breakdown one way or another, so it makes sense to spend money now to reduce emissions rather than wait until later to pay a lot more for the consequences – not just from weather but also from rising sea levels. It’s a cliche, but it’s true: an ounce of prevention is worth a pound of cure. The war on the climate emergency, if correctly waged, would actually be good for the economy – just as the second world war set the stage for America’s golden economic era , with the fastest rate of growth in its history amidst shared prosperity. The Green New Deal would stimulate demand, ensuring that all available resources were used; and the transition to the green economy would likely usher in a new boom. Trump’s focus on the industries of the past, like coal, is strangling the much more sensible move to wind and solar power. More jobs by far will be created in renewable energy than will be lost in coal. The war on the climate emergency, if correctly waged, would actually be good for the economy. The biggest challenge will be marshalling the resources for the Green New Deal. In spite of the low “headline” unemployment rate, the United States has large amounts of under-used and inefficiently allocated resources. The ratio of employed people to those of working age in the US is still low, lower than in our past, lower than in many other countries, and especially low for women and minorities. With well-designed family leave and support policies and more time-flexibility in our labor market, we could bring more women and more citizens over 65 into the labor force. Because of our long legacy of discrimination, many of our human resources are not used as efficiently as they could or should be. Together with better education and health policies and more investment in infrastructure and technology – true supply side policies – the productive capacity of the economy could increase, providing some of the resources the economy needs to fight and adapt to the climate breakdown. While most economists agree that there is still room for some economic expansion, even in the short run – additional output, some of which could be used to fight the battle against the climate crisis – there remains controversy over how much output could be increased without running into at least short-term bottlenecks. Almost surely, however, there will have to be a redeployment of resources to fight this war just as with the second world war, when bringing women into the labor force expanded productive capacity but it did not suffice. Some changes will be easy, for instance, eliminating the tens of billions of dollars of fossil fuel subsidies and moving resources from producing dirty energy to producing clean energy. You could say, though, that America is lucky: we have such a poorly designed tax system that’s regressive and rife with loopholes that it would be easy to raise more money at the same time that we increase economic efficiency. Taxing dirty industries, ensuring that capital pays at least as high a tax rate as those who work for a living, and closing tax loopholes would provide trillions of dollars to the government over the next 10 years, money that could be spent on fighting the climate emergency. Moreover, the creation of a national Green Bank would provide funding to the private sector for climate breakdown – to homeowners who want to make the high-return investments in insulation that enables them to wage their own battle against the climate crisis, or businesses that want to retrofit their plants and headquarters for the green economy. The mobilization efforts of the second world war transformed our society. We went from an agricultural economy and a largely rural society to a manufacturing economy and a largely urban society. The temporary liberation of women as they entered the labor force so the country could meet its war needs had long-term effects. This is the advocates’ ambition, a not unrealistic one, for the Green New Deal. There is absolutely no reason the innovative and green economy of the 21st century has to follow the economic and social models of the 20th-century manufacturing economy based on fossil fuels, just as there was no reason that that economy had to follow the economic and social models of the agrarian and rural economies of earlier centuries.
Febbraio 2019. I misteri che non sono misteri: la blockchain "Le decisioni della finanza internazionale vengono sempre più spesso prese mediante l'intelligenza artificiale. Ma essa non è per ora in grado di interiorizzarei principi dello sviluppo sostenibile" Francesco Starace, AD ENEL, 27 febbraio Molto spesso gli artifizi dell’informatica creano un alone di mistero intorno a sé e con esso coorti di adoratori più o meno disinteressati. Fu il caso della new economy, dell’intelligenza artificiale ed ora della blockchain. Crediamo opportuno dissolvere queste come altre cortine di incomprensione verso le nuove tecnologie. Per questo l’appunto che segue può essere d’aiuto. Ovviamente maneggiare queste tecnologie è un’altra storia, ma tra maneggiare ed essere maneggiati c’è una bella differenza. La blockchain è una delle più celebrate tecnologie del momento. Ma cos'è? La prima grande applicazione della tecnologia blockchain è il bitcoin, una delle monete digitali in criptovaluta, creata nel 2009. Il bitcoin viene attribuito a Satoshi Nakamoto che non si sa chi sia né se è una persona o un gruppo. La sua visione si trova nel libro bianco di fine 2008, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System. Utilizzeremo il bitcoin per raccontare la tecnologia blockchain. La blockchain è un database crittografato e non modificabile né dagli utenti né da eventuali intromissioni che nel bitcoin è sostanzialmente un libro mastro pubblico che ritiene una traccia indelebile ogni transazione che ha avuto luogo. Non può essere alterato o modificato in modo retrospettivo. Pubblico lo si definisce perché non è emesso da un'autorità centrale né da un soggetto privato o da un cartello. Nel bitcoin è stato fissato un limite di 21MɃ, e, a metà 2018 sono in circolazione circa 17 MɃ. Il Ƀ è stato spesso utilizzato per acquistare prodotti illeciti, droghe, armi, etc. La blockchain di Ƀ è gestita da una rete di persone note come miners, nodi della rete web che risolvono in competizione i complessi problemi di crittografia per accreditare una transazione Il vincitore riceve un premio in Ƀ. Ogni transazione Ƀ proviene da un portafoglio che ha una chiave privata di accesso, cioè una firma digitale, e deve essere accompagnata da una prova matematica che la transazione proviene dal proprietario del portafoglio. Le singole transazioni sono raggruppate in un blocco, costruito con rigide regole crittografiche. Il blocco viene inviato alla rete bitcoin, che convalida le transazioni attraverso complessi algoritmi matematici. Il blocco validato viene aggiunto ai blocchi precedenti creando una catena di blocchi da cui il nome blockchain. Lo schema Ƀ originale di Nakamoto è il seguente. Non provate nemmeno ad interpretarlo, vi scoraggerebbe.
La blockchain è a prova di manomissione. Ogni blocco che viene aggiunto alla catena porta un riferimento rigido e crittografico al blocco precedente che è parte del problema matematico che deve essere risolto per portare il nuovo blocco nella catena. Gli algoritmi elaborano un numero casuale, il nonce, che, combinato con altri dati come la dimensione della transazione, crea un'impronta digitale crittografata chiamata hash. Ogni hash è unico e deve soddisfare determinate condizioni crittografiche per completare il blocco e aggiungerlo alla catena. Se lo si volesse manomettere occorrerebbe riestrarre gli algoritmi crittografici di ogni blocco precedente. Nel bitcoin ce ne sono mezzo milione e quindi la decrittazione è di fatto impossibile. Ora è chiaro che si tratta di un database bloccato di eventi qualsiasi. Il meccanismo di blocco richiede risorse enormi di lavoro, conoscenze, capacità, soldi ed energia, ma alla fine pare aver convinto molti della sua efficacia. La blockchain di Ƀ registra tutte le transazioni in bitcoin, non consente pagamenti ripetuti e richiede a più parti di autenticare i movimenti in Ƀ. Poiché non è centralizzata, anche se una parte di essa è compromessa, non collassa l'intera rete, come già avviene per Internet. I database di proprietà di entità aziendali e governative non sono viceversa accessibili al pubblico e sono di fatto aperti a frodi o attacchi che possono paralizzare la rete o saccheggiare i dati. I problemi non mancano. Nel bitcoin i tempi e i costi delle transazioni sono aumentati a dismisura e la rete è congestionata. Divergenze di vedute tra gli utilizzatori hanno portato a biforcazioni della blockchain. Sono nate la Cash bitcoin e la Gold bitcoin. Niente di male ma il numero di nodi diminuisce e in teoria, se un nodo controlla più della metà del potere di estrazione di una criptovaluta, potrebbe potenzialmente falsificare il registro della blockchain, come è successo con la variante Gold. C’è materiale illecito seppellito nella blockchain Ƀ in cui si sono trovati contenuti come la pornografia infantile, crittografati allo stesso modo e quindi molto difficili da trovare. Per i costi di energia e lavoro Wall Street stima che il prezzo minimo remunerativo è di 8 $ per Ƀ, ma se Ƀ rimane al di sotto per un lungo periodo di tempo, molti miner potrebbero allontanarsi, causando un ulteriore aumento dei tempi di transazione. Questo tipo di volatilità non è chiaramente adatto per le imprese. Pertanto, molte aziende hanno iniziato a sviluppare in proprio la tecnologia blockchain al fine di avere un registro delle attività condiviso, rendere le transazioni più efficienti, un numero ridotto di parti intermedie coinvolte e minori costi di elaborazione. Un certo numero di sviluppatori ha creato piattaforme blockchain per le aziende interessate. Tra esse le piattaforme Ethereum, specializzata in contratti smart con una propria criptovaluta, Ripple, che produce xCurrent e gestisce la criptomoneta XRP per le transazioni valutarie internazionali, poi ancora Hyperledger, IBM, R3 etc. Sono note due applicazioni bancarie importanti, segnalate da CNBC, la Santander e la BBVA. La Santander ha lanciato un servizio noto come One Pay FX che funziona sulla piattaforma Ripple. Consente ai clienti di inviare denaro da una valuta all'altra in un certo numero di paesi, tra cui la Spagna, il Regno Unito, il Brasile e la Polonia. I clienti possono vedere quanti soldi arriveranno e il costo della transazione nella loro app. La BBVA ha realizzato un progetto pilota nel quale ha emesso un prestito di 75 M€ utilizzando la blockchain in partnership con una società chiamata Indra costruendo un proprio sistema che usa moneta corrente sulla piattaforma Ethereum. BBVA stima un risparmio di tempo del 50% quando si emette un prestito sulla blockchain rispetto al processo tradizionale. Come si diffonderà la blockchain? Qualsiasi soggetto che spera di rendere i processi più economici, veloci, tracciabili e sicuri può essere interessato. Il gruppo di borsa Nasdaq ha collaborato con la banca svedese SEB per provare una piattaforma di negoziazione di fondi comuni basata su blockchain. La tecnologia può anche essere utilizzata per tracciare i prodotti lungo l’intera catena del valore di una corporate. Le elezioni sono un altro spazio a cui potrebbe essere applicata la tecnologia blockchain. Nelle elezioni primarie della West Virginia a maggio 2018, alcuni elettori hanno potuto votare tramite una piattaforma mobile basata su blockchain. Per informazione del lettore, la piattaforma italiana Rousseau dell’azienda milanese Casaleggio associati, dimostratasi manipolabile e vulnerabile, non usa la blockchain ma vorrebbe farlo e sta a tale scopo raccogliendo fondi importanti tra i militanti 5*.
9 maggio 2018: Pubblicato il nuovo libro di Edo Ronchi sullo Sviluppo sostenibile e la transizione alla Green economy Il Meeting di primavera, per il decennale della Fondazione, è stato dedicato alla presentazione del nuovo libro del suo presidente, Edo Ronchi nel contesto di un panel di discussant di rilevo, scelti tra i più autorevoli esponenti dell'attuale complesso quadro politico italiano. Il titolo del libro rinvia al processo in atto che trasporta il sistema economico mondiale verso un modello di Green economy sostenibile, ormai indispensabile a fronte delle gravi crisi economiche, sociali e politiche che attraversano l'umanità. In realtà è a pieno titolo un saggio sullo sviluppo sostenibile di profilo alto abbastanza per costituire un riferimento per il pensiero politico periclitante e per arricchire il ragionamento ecologico che, nel nostro paese e nella nostra lingua, sta vivendo di stenti. Sono molti i significati dell'iniziativa che si colloca a dieci anni dal lancio del programma UNEP sulla Green economy ispirato dalla volontà di contrastare la grave crisi economica appena nata con un Green New Deal di ispirazione roosveltiana. Sono i primi dieci anni di vita della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile che promuove il Consiglio nazionale della Green economy e il progetto di transizione che esso rappresenta per l'imprenditoria italiana. La presenza delle maggiori forze politiche, è inutile dirlo, suona come un appello perché la transizione venga sostenuta nel quadro incerto che si prefigura per la politica italiana. Il panel è stato gestito da Antonio Cianciullo, recente autore lui pure di un libro sulla "Ecologia del desiderio. Curare il pianeta senza rinunce" che, su un piano narrativo del tutto diverso, originale e stimolante, rinvia alle stesse tematiche della transizione con grande attenzione alla risposta sociale alla crisi ecologica ed economica. è intervenuto a commentare per primo il libro di Ronchi Jean Paul Fitoussi, decano della sostenibilità, protagonista con Amartya Sen e Joseph Stiglitz della elaborazione moderna del concetto dello Sviluppo sostenibile basato sul benessere e la qualità della vita ridefiniti in un nuovo quadro al contempo teorico ed operazionale. Sono poi intervenuti Andrea Orlando, ex ministro dell'Ambiente e della Giustizia, di area Partito Democratico; Giulio Tremonti, ex ministro dell'economia e delle finanze di area Forza Italia; Lorenzo Fioramonti di area 5 stelle (nella immagine), in odore di incarico come ministro dello sviluppo del governo in costruzione e Rossella Muroni, ex presidente della Legambiente ed attuale deputata di area Liberi ed Uguali. Dedichiamo alle tematiche della transizione secondo questo libro un editoriale della pagina della Green economy di questo sito (> vai alla presentazione analitica della "Transizione alla green economy").
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