Aggiornamento 13-nov-2018

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Beyond GDP

fatti, eventi, documenti

2014, 16 gennaio: Robert Costanza e Enrico Giovannini su Nature (505) "Time to leave GDP behind"



2013, 13 dicembre: Venezia. Convegno "Oltre il Pil: Misurare il benessere su scala regionale e locale"

 

2012, 24 febbraio: Museum of Natural History. "Natural capital beyond GDP. How can we measure progress"

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2011: Joseph Stiglitz. "Beyond GDP"

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2010: OECD "Better life initiative"

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2010: Wuppertal Institute. "Towards Sustainable development. Alternative to GDP for measuring progress"

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2007, 19 novembre: EU Conferenza "Beyond GDP"

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2007: Università di Amsterdam "Sustainable quality of life"

 

2004: World Bank

"Beyond the economic growth"

 

L'EQUIVOCO DELLA DECRESCITA

 

Due torti non fanno una ragione

di Toni Federico, novembre 2018

La si giudichi come si vuole, ma la polemica sulla crescita prosegue nelle accademie e, con seguito modesto, sui media specializzati. Di recente Tim Jackson,  pubblica un articolo di pesante critica contro un meno conosciuto sostenitore della possibilità di una espansione infinita della crescita e del PIL. Si può trovare pù avanti in questa pagina una presentazione di Tim Jackson, che si definisce sostenitore di un modello di sviluppo post-growth. I lineamenti della sua posizione si possono trovare in un saggio di quest'anno: "The post-growth challenge" dove dà anche la sua visione dei difficili problemi della produttività del lavoro e della crescente diseguaglianza.

Il bersaglio di Jackson è un tal Michael Liebreich, dal 2009 CEO di Bloomberg New Energy Finance, che scrive per conto della IFT, una organizzazione che difende al contempo il libero scambio e la brexit,  autore di un contributo cui dà il titolo "The Secret of Eternal Growth. The physics behind pro-growth environmentalism", dove si produce nella quanto meno acrobatica affermazione che l'evoluzione scientifica garantirebbe una eterna espansione della crescita. L'autore, ignorando le più recenti acquisizioni in materia di sviluppo sostenibile, promuove il PIL a metrica eterna dello sviluppo. Afferma che "GDP is a neutral measure of economic activity. Governments love GDP because what you can measure you can tax; journalists love GDP, because it’s a simple, headline-ready figure, perfect for building up politicians and knocking them down". Per non esagerare in ingenuità attribuisce anche alcuni demeriti al PIL, ma sostiene che le nuove metriche dello sviluppo escogitate dagli ambientalisti che lui chiama di sinistra, tutti quelli dubbiosi sulla crescita indefinita del PIL, non fanno altro che "advocating the abandonment of hard metrics in favour of surveys into people’s feelings" offrendo il destro alle "government policies aimed at manipulating them". In questa sinistra troverebbero posto, secondo Liebreich,  da Malthus, a Jay Forrester, Aurelio Peccei e i suoi Limits to growth e infine anche la IPCC  con il suo recente Rapporto speciale sugli 1,5 °C dell'Accordo di Parigi, oltrechè ovviamente Georgescu-Roegen,  Daly, Rifkin, Stern e lo stesso Jackson. Dalla sua parte (la destra ?)richiama gli inconsapevoli Ricardo, Kuznets, Prigogine, Ostrom, Romer, Mazzuccato e Nordhaus, il premio Nobel di quest'anno. Incredibile infine l'endorsment di Ronald Reagan che avrebbe detto "There are no such things as limits to growth, because there are no limits on the human capacity for intelligence, imagination, and wonder".

Non tutte le argomentazioni di Liebreich sono tuttavia da respingere, anzi lui si dimostra sostenitore acceso e documentato delle energie rinnovabili solari. Giuste anche le critiche a certe impostazioni della tradizione ambientalista, care ai sostenitori della decrescita, che si appoggiano su malintese applicazioni delle leggi della termodinamica all'economia. Esse hanno origine dalle tesi erronee di Georgescu-Roegen i cui meriti, però, restano a nostro parere largamente eccedenti rispetto a quegli errori, laddove egli apre ad una modernissima visione dell'economia e dell'ambiente basata sulla teoria dei sistemi. Giuste anche le preoccupazioni di Liebreich per i cambiamenti climatici. Ma, curiosamente, l'autore commette lo stesso errore di Georgescu. La tesi che caratterizza il suo scritto, a cui attribuisce il valore di evidenza scientifica a favore di una crescita senza limiti,  svolge scolasticamente un calcolo puramente energetico, ignorando i problemi dello stato dell'ecosistema globale, per dirla con i paradigmi della teoria dei sistemi. In essa si sostiene che il sistema Terra riceve una quantità di energia solare tale da permettere spazi illimitati per la crescita dell'economia, anche dopo l'eventuale abbandono dei combustibili fossili. Nulla dice a proposito della compromissione ambientale e sociale dell'ecosistema Terra, dei cambiamenti climatici, dei danni al capitale naturale che, sugli attuali trend, continuerebbero ad aggravarsi anche in presenza di riserve sufficienti di energia fino a mettere in discussione il futuro della specie umana.

La risposta di Jackson, qua e là poco urbana nel lessico, riprende coraggiosamente la difesa degli errori di Georgescu-Roegen che, sulla controversa questione dei sistemi isolati scambiati per sistemi chiusi avrebbe detto "Namely, to stay alive and to keep a place under the social sun – lead to entropic transformations of our neighbouring universe", cioè che l'entropia che aumenta è quella del sistema Sole + Terra. Ovvio, direte, ma quello che ci preme è avere abbastanza entropia negativa in arrivo dal sole, tanto da permetterci di configurare la Terra come un sistema dissipativo alla Prigogine (Order out of chaos), perfettamente capace di sviluppo, pur se a spese del Sole. Risolto questo fraintendimento in modo un po' caritatevole, resta l'errore di aver voluto estendere il II Principio della Termodinamica alla materia, formulando un IV Principio del tutto privo di senso, su cui si appoggia gran parte delle teorie della decrescita. Jackson lo sa e, a denti alquanto stretti, abdica al IV Principio laddove scrive: "The flow of solar energy comes to us with an extremely low intensity, like a fine rain, almost a microscopic mist. To be useful this energy must be concentrated and captured. To be captured we must use materials, the availability of which depends in its turn on high-quality energy. The solar flux is free. But capturing it has a cost, in terms of materials, in terms of energy, and in terms of economic resources". Questa posizione è corretta. In altri termini Jackson dice che in qualche modo il 100% di energia rinnovabile può essere possibile, come dice Liebreich, ma dice anche che una circolarità del 100% della materia nel ciclo economico-industriale è poco probabile per deficit di energia e di tecnologia adeguata: "Iron turns to rust. Concrete turns to dust. Even silicon chips degrade over time. Some of these processes can be reversed, with sufficient high-quality energy. Others are to all intents and purposes irreversible. This is not some dubious fourth law of thermodynamics. Quindi dice che"Every single dollar or cent of economic activity has a diminishingly small material footprint in perpetuity", cioè che portare l'impronta materiale vicino allo zero è difficile, energeticamente costoso, ma, con buona pace di Georgescu e dei suoi epigoni pro-decrescita, praticabile.

Con Jackson possiamo dunque concordare sulla necessità di una transizione verso un'economia sostenibile che, con le sue stesse parole, sarà "An economy with a constant stock of capital, capable of being maintained by a rate of material and energy throughput that is within the regenerative and assimilative capacities of the ecosystems". è il modo corretto di intendere lo sviluppo sostenibile che unifica la lezione di Stiglitz sulla ricchezza estesa in forma di capitali costruito, naturale, umano e sociale, che devono essere separatamente non decrescenti, quindi devono essere conservati e sviluppati con una appropriata gestione degli investimenti e dei consumi, la cui somma, lo ricordiamo, è pari al PIL al netto delle esportazioni e delle importazioni. Il PIL è il totale dei flussi monetari di un'economia, ed è ormai universalmente riconosciuto incapace di rappresentarne la qualità e, meno che mai, l'equità e la sostenibilità. Unificato appunto con il concetto di limiti planetari di Rokström e di resilienza degli ecosistemi e, se si vuole, con lo spazio stretto dell'economia della ciambella della Raworth, una metafora della transizione che deve avvenire senza violare all'esterno i limiti ecologici e senza compromettere, all'interno, i diritti, la qualità e l'equità sociali. Non conta dunque il PIL in quanto tale, né la sua dinamica, ma lo stato dell'ecosistema globale, cioè la conservazione e lo sviluppo degli stock della ricchezza universale e della loro qualità distributiva. Ciò posto non si capisce perché Jackson debba (in altri scritti, come quello citato in apertura) farsi sostenitore di una stagnazione universale dal momento che né la crescita, né la non crescita dei flussi monetari possono  garantire che natura società e persone vivano in maniera equa e sostenibile. Nella transizione comunemente auspicata verso la sostenibilità il PIL dovrà dematerializzarsi e decarbonizzarsi. Che cresca non è solo probabile ma, se tale crescita aiuterà a cogliere l'obiettivo di preservare e sviluppare gli stock della ricchezza dell'ecosistema globale, umanità compresa, essa è possibile ed anche benvenuta.

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Oltre il PIL il problema della decrescita non si pone

di Toni Federico, luglio 2018

Lo sviluppo sostenibile ha molti sostenitori e moltissimi detrattori. Dopo un percorso di trent’anni lo sviluppo sostenibile è ormai una categoria mainstream, centrale nel sistema delle Nazioni Unite, non molto al di sotto per rilevanza nella governance globale della pace o della lotta alla povertà. Nel documento fondativo della Brundtland, Our Common Future, lo sviluppo sostenibile viene associato ad un auspicio di crescita globale. Negli anni la giustapposizione tra crescita e sostenibilità ha portato all’affinamento del concetto di sviluppo, chiarendo che ogni tipo di crescita deve essere assoggettato ai parametri della sostenibilità, ai 27 Principi di Rio (1992) o, più modernamente, ai limiti planetari di Rockström (2009) e ai target degli SDG dell’Agenda 2030 e dell’Accordo di Parigi. Tra i due predicati, sviluppo e sostenibilità, il secondo è dominante.

La decrescita, degrowth, decroissance, è un movimento variegato, recente ma fondato sulla lontana querelle nata già con la pubblicazione nel 1972 dei Limits to growth del Club di Roma. La narrazione è di tipo ecologista, cioè pone al primo posto l’ambiente dalle cui dinamiche fa discendere quelle dell’economia e della società. Il movimento è elitario e marginale, ma è certo che, in tutte le sue varianti, nasce dichiaratamente in opposizione allo sviluppo sostenibile. È considerato volta a volta un nuovo tipo di ecologia profonda (deep ecology), una ricetta anticapitalistica moderna ovvero il portatore di stili di vita sobri, naturali e contro il consumismo.

Il termine francese decroissance fu usato per la prima volta da André Gorz, ingegnere, marxista eretico, sartriano e sessantottino, nel suo libro Ecology as Politics, pubblicato nel 1977, dove scrive che "Non è realistico immaginare ciò la crescita economica può apportare all’aumento del benessere umano, ed anzi che essa sia ancora fisicamente possibile". Gorz si ispirava al lavoro del padre intellettuale riconosciuto dell’economia ecologica Nicholas Georgescu-Roegen, la cui tesi più nota, infondata, è che tutte le risorse naturali sono irreversibilmente degradate quando vengono utilizzate nelle attività economiche a causa del II principio della termodinamica sull’entropia. A contrapporre la decrescita allo sviluppo sostenibile è però a fine secolo XX Serge Latouche, uno storico francese dell’economia. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro, ribadisce Latouche, che sottintende una crescita economica infinita, PIL in crescita costante, consumismo in espansione e capitalismo trionfante. Latouche denuncia anche l’associazione tra crescita e benessere, sostenuta dalla cultura corrente e dai mass-media, che, viceversa, non è dimostrata nemmeno in paesi a crescita sostenuta. Alla prima Conferenza di Parigi del 2008, altre sei se ne terranno entro il 2016, la decrescita viene definita come "Transizione volontaria verso una società sostenibile giusta, partecipativa ed ecologica" e proposta come il processo che i paesi più ricchi dovrebbero intraprendere per trasformare le economie nazionali e l'economia globale.

La vita è stata avara di riconoscimenti con l'economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, emigrato negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, collega ed amico  di Schumpeter, Leontief e Kaldor. Si lamentava di questo spesso con i colleghi. Ritiratosi nel 1976, è scomparso nel 1994 senza fare in tempo a vedersi celebrato come padre della decrescita e della bioeconomia. Georgescu pubblicò il suo lavoro principale nel 1971, The Entropy Law and the economic process, in cui sostenne che tutte le risorse naturali sono irreversibilmente degradate quando vengono utilizzate nell'attività economica, e che l'economia mondiale nel suo complesso si sta dirigendo verso un inevitabile collasso futuro, portando alla fine all'estinzione umana. Il suo lavoro è basato su un errore relativo ai concetti di entropia e dei sistemi isolati, che lui associa ai cicli della materia dando origine ad una sorta di IV Principio della termodinamica, totalmente infondato (Schwartzman). Capita nelle interdiscipline, quando un economista si improvvisa scienziato. Meno comprensibili ne sono i seguaci.  L’entropia è una variabile di stato di un sistema ed è una funzione inversa della temperatura. Nei trattamenti industriali della materia la temperatura non varia tra input ed output e quindi il concetto entropico non è applicabile. Uno statement corretto potrebbe essere "Nei cicli ecosistemici la materia è sempre recuperabile purché si disponga di abbastanza energia e di una tecnologia adeguata". La dimostrazione moderna sta nell’economia circolare.

Errori a parte, Georgescu-Roegen fu un valoroso economista ambientale, aderì al Club di Roma di Peccei negli anni ’70, e fu determinante per istituire l'economia ecologica come una sotto-disciplina accademica indipendente dell’economia.

Serge Latouche, professore francese ad Orsay, nato nel 1940, è il filosofo e l’attivista di riferimento della decrescita. Sviluppando il pensiero di Karl Polanyi e Ivan Illich, Latouche ha elaborato un’analisi critica  dell’economia occidentale, che ritiene destinata fatalmente al collasso.  La religione imperante della crescita costringe a ricercare, in modo irrazionale e distruttivo, uno sviluppo economico fine a se stesso.  L’economia riesce così a funzionare solamente attraverso un aumento continuo del PIL, comportandosi come un gigante che non è in grado di stare in equilibrio se non continuando a correre, ma così facendo schiaccia  tutto ciò che incontra sul suo percorso. Lo sviluppo sostenibile è solo crescita in maschera, secondo Latouche, che propone un arretramento del PIL senza rinunciare al benessere. Questa correlazione inversa non è però provata ed anzi è contraddetta dalle storie dell’Europa post-comunista e da quelle odierne dell’Italia, della Grecia e di altri.

La critica maggiore a Latouche è di confondere i fini con i mezzi. Le manovre sul PIL sono appunto un mezzo, che oltretutto ne amplifica il ruolo dominante, proprio quello che la decrescita vorrebbe scongiurare. Se la sostenibilità è il fine massimo, non può essere un derivato delle dinamiche della crescita, ma ne deve poter disporre e la deve governare. Il PIL è tramontato anche come indice del benessere. La decrescita di Latouche ignora la complessità e la interdipendenza dei fini, la diversità dei fattori, delle società e e dei territori, spesso con accenti che possiamo dire pre-moderni.

Crescita zero: il termine Zero growth, o Economia dello stato stazionario, risale ad Adam Smith secondo cui presto o tardi ogni economia nazionale finirà in uno stato stazionario. Accenni all’impossibilità di una crescita continua si trovano in David Ricardo, John Stuart Mill e John Maynard Keynes. Dagli anni ‘70 questa lezione è presidiata dall’economista ecologico Herman Daly che, alle preoccupazioni degli economisti classici per una crescita incontrollata, aggiunge le limitazioni ecologiche dei giorni nostri. Lui stesso riconosce che la stabilizzazione dei flussi può solo ritardare l’esaurimento delle risorse.

All’austriaco Christian Kerschner (2010) spetta l’unificazione con la teoria della decrescita con cui condivide i meriti e gli errori concettuali. Stabilire che il PIL non debba variare o debba decrescere fa poca differenza. Entrambi gli approcci ignorano che la ricchezza e il benessere devono essere valutati in termini di capitali, comprendendo uomo, natura e società. Il PIL è meramente il flusso delle transazioni monetarie che accompagna annualmente le dinamiche el capitale finanziario, ignorando tutto il resto. Occorre accrescere tutti gli stock, nell’ordine governando i flussi dell’istruzione, della ricostituzione dell’ambiente, dello sviluppo della democrazia, dei diritti etc… Per tutto questo non basta bloccare i flussi monetari, che, anche se stazionari, lascerebbero inalterate le dinamiche economiche che stanno erodendo ricchezza, benessere ed equità distributiva. La decrescita anche degli stock della ricchezza sarebbe poi una bestemmia.

La dercrescita in Italia. Malauguratamente collocata all’insorgere della grave crisi economica, riscuote qualche successo la decrescita anche in Italia, legata a nomi come Pallante, Cacciari (Paolo), Bonaiuti, Grillo, Siri, Fioramonti e in parte Bevilacqua. È un movimento culturalmente francofono, accompagnato da numerose incursioni dei cugini di oltr’alpe nelle università italiane e, per la decrescita "felice", da infiniti sarcasmi. Dalla decroissance heureuse vengono derivati concetti accattivanti come quelli di sobrietà, responsabilità e convivialità e trasformazioni come la decolonizzazione dell’immaginario, l’economia non monetaria, l’abbondanza frugale, la decrescita volontaria etc., ma senza mai arrivare ad una autentica originalità di pensiero. Per certa apologia del ritorno alla natura la decrescita italiana finisce per presentarsi come una retrotopia. Qualche spunto di relativo interesse si trova nel dibattito italiano quando la decrescita si avventura nella critica delle categorie marxiane. Manca anche alla decrescita un sostegno minimo da parte dei movimenti ecologisti del nostro paese.

Con l’approfondimento del disagio sociale italiano a fine crisi, la brutale semplificazione delle ricette antielitarie e sovraniste hanno finito di spingere il movimento della decrescita nell’angolo delle cose dimenticate. Così può accadere che, alla prova delle responsabilità di governare il paese, sia malinconico ascoltare da Giovanni Tria, ministro dell’economia del primo governo 5*, la affermazione che: "Il primo obiettivo del governo è la crescita dell’economia" (3 luglio 2018).

Il rapporto Stiglitz

Il Presidente Nicolas Sarkozy, l’uomo della Grenelle, ha affidato nel 2008 ad una commissione di 25 grandi esperti come Arrow, Atkinson, Stern etc., governata da tre grandi economisti, Stiglitz, Sen e Fitoussi, la redazione di un Rapporto sul Measurement of Economic Performance and Social Progress. Quello che misuriamo è quello che facciamo, ha riferito la Commissione alla fine del 2009, e se le nostre misurazioni sono errate, le decisioni potrebbero essere distorte ... Spesso giudichiamo le buone politiche osservandone gli effetti sulla crescita economica; ma se le metriche di performance sono imperfette, lo saranno anche le politiche. Ne riferiamo qui perché il Rapporto Stiglitz, stabilendo che lo sviluppo sostenibile va misurato mediante la conservazione degli stock di capitale,  smentisce definitivamente coloro che raccontano la sostenibilità attraverso il PIL, che è viceversa un flusso del solo capitale finanziario. Il conflitto tra la crescita del PIL e la tutela dell'ambiente viene meno una volta che il degrado ambientale è inserito nella misurazione della performance economica. La commissione ha lavorato con tre gruppi, sulla crescita (capitale economico), sulla qualità della vita (capitale naturale, umano e sociale) e sulla sostenibilità concludendo che occorre spostare l'accento dalla misurazione della produzione economica alla misurazione del benessere delle persone. Il Rapporto rilascia 10 complesse raccomandazioni la cui applicazione fa la storia moderna dello sviluppo sostenibile.

Tim Jackson è un personaggio di un certo nome a cavallo tra i critici della austerity (Stiglitz, Krugman, …) e i teorici della decrescita. Pubblicò il suo libro, Prosperity without growth, scritto per e rifiutato dalla Commissione per lo sviluppo sostenibile inglese, poi sciolta da Cameron nel 2011, in due edizioni, nel 2009 e nel 2017. La seconda sembra aver fatto giustizia di talune indulgenze verso la decrescita di scuola francese. Sostenitore della prosperità, termine a suo dire senza le ambiguità dello sviluppo, articola con razionalità uno schema di società sostenibile, libera dalla dittatura del PIL, presentata come modello di una Green economy, sensibile alla qualità ecologica e alle dimensioni immateriali dell’attività umana: Prosperity, in any meaningful sense of the term, is about the quality of our lives and relationships, about the resilience of our communities and about our sense of individual and collective meaning.

Sulla crescita, insostenibile nel modello attuale, si domanda: isn’t it self-evidently true that its opposite or its absence is far from desirable, too? Se è vero che i dati dicono che ci può essere prosperità anche con PIL inferiori, non dicono che essa si possa ottenere con la decrescita, che invece sembra una dimostrata apportatrice di bad things, debiti, disoccupazione, degrado, come la crisi dimostra. La crescita è poi una irrimandabile necessità per i paesi poveri. Flourishing within limits è la formula conclusiva per le economie sviluppate di Jackson, su cui non si può dissentire.

Il problema dell'equità: Thomas Piketty

Assurto agli onori della cronaca con la pubblicazione nel 2014 della versione inglese del Le Capital au XXI siècle, l’economista francese Piketty dimostra che la diseguaglianza è insita nel capitalismo e che può essere combattuta solo con l’intervento pubblico e una tassa sul patrimonio, del 2% almeno. La ormai famosa formula di Piketty, non teorica ma ricavata dai dati, mette in relazione il rendimento del capitale r, in tutte le sue forme, profitti, dividendi, interessi, rendite e quant’altro, con la crescita economica g. Se r>g il capitale si accumula nelle mani dei suoi detentori. Se la crescita rallenta il fenomeno si aggrava, gli investimenti produttivi rallentano, rallenta l’occupazione e l’accumulazione cresce. Fa notare opportunamente Ronchi che questo risultato confina la decrescita tra i maggiori fattori della diseguaglianza.

Piketty parte da Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, ma se anche la crescita rallenta, resta r>g e i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la diseguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5% del 2010 a 6,5% nel 2100. È un colpo mortale al neo-liberismo (Krugman). Un approfondito studio dei dati storici della ricchezza gli consente di dimostrare che il fenomeno dell’accumulo si è attenuato solo a valle delle grandi guerre e della crisi del ’29 che hanno bruciato capitali e rilanciato la crescita a ritmi oggi impensabili.

Le critiche alla teoria della decrescita

La decrescita non modifica la qualità inaccettabile dell’attuale modello economico (Ronchi). Una società e un’economia che non crescono prima o poi moriranno (Capra e Henderson). La riduzione dell’idea di ecosistema all’idea di equilibrio fa svanire la dimensione dell’evoluzione. L’ecologismo che non capisce la possibilità di nuovi sviluppi nell’avventura della vita e dell’umanità diventa mutilante (Morin). La decrescita non è in grado di affrontare la dimensione qualitativa dello sviluppo (Schwartzman). La decrescita richiede una drastica riduzione della complessità sociale ed economica (Università di Barcellona) e non coglie la sfida del clima (Pollin). La affermata compatibilità tra decrescita e accumulazione capitalistica è impossibile. L’idea che la decrescita sia praticabile senza tenere conto del livello di sviluppo di un paese è del tutto sbagliata (Bellamy Foster). Per fortuna Latouche, ha recentemente detto che la decrescita non ha nulla a che fare con lo sviluppo sostenibile, perché negli obiettivi di quest’ultimo ci sono anche la crescita economica, del reddito pro-capite e del lavoro ben retribuito (Giovannini). La opposizione della decrescita alla Green economy chiude la porta alle idee nuove (Sustainability &Postgrowth Research). La decrescita è una fuga verso il passato (Il Manifesto) (Legambiente). La decrescita è una specie di ecosocialismo. Mette in discussione la modernità senza dare alternative (Il Foglio-Bruno Leoni). Non sono a favore della decrescita, sono per una crescita qualitativa e per un calcolo diverso del Pil, secondo Stiglitz (Gallegati, spin doctor di Beppe Grillo).

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SEMINARIO SULLA DECRESCITA

tenuto per inviti in data 10 0ttobre 2006 presso l'Istituto Sviluppo Sostenibile Italia

Interventi

Edo Ronchi: Intervento di apertura_link

Toni Federico: Conclusioni_link

Paolo degli Espinosa_link

Gianni Mattioli_link

Stefano Semenzato_link

Massimo Scalia_link

Natale Massimo Caminiti_link

Carlo Donolo_link

Claudio Massimo Cesaretti_link

Corrado Carrubba_link

Cesare Donnhauser_link

Materiali di preparazione

Paolo degli Espinosa: Su Marx ed Hobsbawm_link

Legambiente: Una politica economica per la sostenibilità_link

Gianni Mattioli: Sostenibilità e diritti di cittadinanza. Per passare dalla quantità alla qualità_link

Luciano Gallino e Serge Latouche: L’economia a dismisura d'uomo su Micromega n°6 2006_link

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LA DECRESCITA CONTRO LO SVILUPPO SOSTENIBILE

a valle del Convegno "Sviluppo sostenibile e seconda modernità" del 2003

La crescita, filologicamente ridotta agli aspetti che influenzano l'indicatore del Prodotto Interno lordo, il PIL, è stata fortemente rimessa in discussione come categoria guida del progresso economico e sociale. Si vedano a tal proposito i documenti  che la Comunità Europea ha prodotto sull'argomento anche in revisione del Programma di Lisbona del 2000 nel quale il sentiero per l'Europa era tracciato da una crescita tendenziale del PIL del 3% all'anno.  Il PIL non è più la categoria guida per le amministrazioni e i governi sulla base della considerazione che non è più sufficiente che i consumi crescano se essi trascinano esternalità negative che deprimono la ricchezza delle comunità ed il benessere delle persone.

Quale ruolo ha quindi la crescita nel panorama ideale dello sviluppo sostenibile? La discussione è in atto anche alla luce dei portati della crisi economica e dei costi crescenti della crisi ecologica.  La categoria dello sviluppo viene ristabilita su nuove basi concettuali e riapparentata al (per noi) antico concetto di progresso, piuttosto che alla crescita materiale pura e semplice.

Il citato Convegno del 2003  introduce il concetto di innovazione ecologica come chiave per una modernità nuova, ben oltre la visione della crescita lineare ed infinita della produzione e del consumo delle merci, costola comune del pensiero delle due classi antagoniste secondo la tradizione marxiana. La seconda modernità è caratterizzata dall'assunzione di visioni nuove, non deterministiche, basate sulla consapevolezza del rischio, sulla presa d'atto della complessità, sull'accettazione dell'incertezza, sul principio di precauzione e sulla sostenibilità. Quest'ultima categoria, del tutto assente nella prima modernità industriale, è il portato del pensiero ecologico e della percezione dei limiti delle risorse disponibili per alimentare l'economia e dei limiti delle pressioni che l'ambiente può tollerare senza degradarsi e degradare i servizi che rende all'umanità. La sostenibilità non può dunque essere un aggettivo che qualifica lo sviluppo, la crescita, l'economia o la società. è invece la regola del gioco,  l'unico modo possibile di essere per tutte queste attività umane se si vuole che abbiano un futuro. La crescita economica, la crescita, come viene chiamata semplificando, è parte del gioco e deve sottostare alle regole della sostenibilità1.

 

La nascita del concetto che ispirerà a fine secolo il movimento che abbiamo chiamato "della decrescita" si può far risalire al 1973, l'anno dopo il Summit di Stoccolma sullo "Sviluppo umano", contemporaneo alla pubblicazione de "I limiti allo sviluppo",   con il manifesto di Nyach, promosso da Nicholas Georgescu Roegen, Herman Daly ed altri, fra cui Kenneth Arrow, Robert Heilbroner, Ernst Schumacher, David Pearce, Ignacy Sachs, Bertrand de Jouvenel, che invoca un'economia umana e chiede agli economisti di assumere responsabilmente la questione ecologica come parte del proprio ragionamento e delle scelte generali.

La proposta era partita dall’associazione internazionale “Dai Dong”, un nome che corrisponde ad un antico concetto cinese di un mondo “in cui la famiglia di ciascun uomo non è soltanto la sua famiglia, i figli di ciascun uomo non sono soltanto i suoi figli, ma tutto il mondo è la sua famiglia, tutti i bambini sono suoi figli”.  Il manifesto fu presentato alla riunione annuale del dicembre 1973 dell’American Economic Association, (American Economic Review, 64, (2), p. 447 e 449-450 (maggio 1974); anche in Hugh Nash (editor), Progress as if survival mattered, San Francisco, Friends of the Earth, 1977, p. 182-183). La traduzione italiana fu fatta circolare nel novembre 1973 nel corso della riunione annuale della Società Italiana degli Economisti, a Roma, e, firmata da Gianni Cannata, Pietro Dohrn, Giorgio Nebbia, e alcuni altri; fu pubblicata in: G. Cannata (a cura di) Saggi di economia dell’ambiente, Milano, Giuffré, 1974, p. 239-244; fu ristampata in Economia e Ambiente, 2, (1/2), 70-74 (gennaio-giugno 1983) e in N. Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 207-210, e fu distribuita in occasione del seminario Oltre l’economia, organizzato il 7-8 ottobre 1997 dal Comitato permanente di solidarietà di Arezzo (G. N.). Il testo è il seguente:

"L’attuale tendenza nell’evoluzione del pianeta non dipende soltanto da leggi inesorabili della natura, ma è una conseguenza delle deliberate azioni esercitate dall’uomo sulla natura stessa.  L’uomo ha tracciato, nel corso della storia, il suo destino attraverso decisioni di cui è responsabile; ha cambiato il corso del suo destino con altre deliberate decisioni, attuate con la sua volontà. A questo punto deve cominciare ad elaborare una nuova visione del mondo.

Come economisti abbiamo il compito di descrivere e analizzare i processi economici così come li osserviamo nella realtà.  Peraltro nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche: il potere e quindi la responsabilità degli economisti sono perciò diventati grandissimi.

Nel passato la produzione di merci è stata considerata un fatto positivo e solo di recente sono apparsi evidenti i costi che essa comporta. La produzione sottrae materie prime ed energia dalle loro riserve naturali di dimensioni finite; i rifiuti dei processi invadono il nostro ecosistema, la cui capacità di ricevere e assimilare tali rifiuti è anch’essa finita.

La crescita ha rappresentato finora per gli economisti l’indice con cui misurare il benessere nazionale e sociale, ma ora appare che l’aumento dell’industrializzazione in zone già congestionate può continuare soltanto per poco: l’attuale aumento della produzione compromette la possibilità di produrre in futuro e ha luogo a spese dell’ambiente naturale che è delicato e sempre più in pericolo.

La constatazione che il sistema in cui viviamo ha dimensioni finite e che i consumi di energia comportano costi crescenti impone delle decisioni morali nelle varie fasi del processo economico, nella pianificazione, nello sviluppo e nella produzione.  Che fare? Quali sono gli effettivi costi, a lungo termine, della produzione di merci e chi finirà per pagarli? Che cosa è veramente nell’interesse non solo attuale dell’uomo, ma nell’interesse dell’uomo come specie vivente destinata a continuare? La chiara formulazione, secondo il punto di vista dell’economista, delle alternative possibili è un compito non soltanto analitico, ma etico e gli economisti devono accettare le implicazioni etiche del loro lavoro.

Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta e ad unirsi, per assicurare la sopravvivenza umana, agli sforzi degli altri scienziati e pianificatori, anzi di tutte le donne e gli uomini che operano in qualsiasi campo del pensiero e del lavoro. La scienza dell’economia, come altri settori di indagine che si propongono la precisione e l’obiettività, ha avuto la tendenza, nell’ultimo secolo, ad isolarsi gradualmente dagli altri campi, ma oggi non è più possibile che gli economisti lavorino isolati con qualche speranza di successo.

Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l’aumento dei profitti o del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra. Dobbiamo elaborare una economia della sopravvivenza, anzi della speranza, la teoria di un’economia globale basata sulla giustizia, che consenta l’equa distribuzione delle ricchezze della Terra fra i suoi abitanti, attuali e futuri.  E’ ormai evidente che non possiamo più considerare le economie nazionali come separate, isolate dal più vasto sistema globale. Come economisti, oltre a misurare e descrivere le complesse interrelazioni fra grandezze economiche, possiamo indicare delle nuove priorità che superino gli stretti interessi delle sovranità nazionali e che servano invece gli interessi della comunità mondiale. Dobbiamo sostituire all’ideale della crescita, che è servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, una visione più umana in cui produzione e consumo siano subordinati ai fini della sopravvivenza e della giustizia. 

Attualmente una minoranza della popolazione della Terra dispone della maggior parte delle risorse naturali e della produzione mondiale. Le economie industriali devono collaborare con le economie in via di sviluppo per correggere gli squilibri rinunciando alla concorrenza ideologica o imperialista e allo sfruttamento dei popoli che dicono di voler aiutare. Per realizzare una giusta distribuzione del benessere nel mondo, i popoli dei paesi industrializzati devono abbandonare quello che oggi sembra un diritto irrinunciabile, cioè l’uso incontrollato delle risorse naturali, e noi economisti abbiamo la responsabilità di orientare i valori umani verso questo fine. Le situazioni storiche o geografiche non possono essere più invocate come giustificazione dell’ingiustizia.  Gli economisti hanno quindi di fronte un compito nuovo e difficile. Molti guardano alle attuali tendenze di aumento della popolazione, di impoverimento delle risorse naturali, di aumento delle tensioni sociali, e si scoraggiano.  Noi dobbiamo rifiutare questa posizione e abbiamo l’obbligo morale di elaborare una nuova visione del mondo, di tracciare la strada verso la sopravvivenza anche se il territorio da attraversare è pieno di trappole e di ostacoli.

Attualmente l’uomo possiede le risorse economiche e tecnologiche non solo per salvare se stesso per il futuro, ma anche per realizzare, per sé e per tutti i suoi discendenti, un mondo in cui sia possibile vivere con dignità, speranza e benessere. Per ottenere questo scopo deve però prendere delle decisioni e subito. Noi invitiamo i nostri colleghi economisti a collaborare perché lo sviluppo corrisponda ai reali bisogni dell’uomo: saremo forse divisi nei particolari del metodo da seguire e delle politiche da adottare, ma dobbiamo essere uniti nel desiderio di raggiungere l’obiettivo della sopravvivenza e della giustizia".

 

La traccia degli eventi che hanno caratterizzato lo sviluppo del pensiero ecologico fino ai giorni nostri è marcata  dal concetto di sostenibilità con il quale, dopo il summit della Terra di rio de Janeiro del 1992, l'ecologia esce dalle accademie per inserirsi nelle istituzioni e nella politica internazionale. La produzione intellettuale di quegli anni nell'area del pensiero ecologico  mondiale è impressionante per vastità e profondità, ma l'intellighenzia italiana resta sostanzialmente a guardare. Il muro di Berlino era caduto nel 1989 e l'euforia conseguente può spiegare l'ottimismo con cui si vive in quegli anni, alle Nazioni Unite e non solo,  una stagione di aspettative di una crescita impetuosa ed equa dell'economia in tutto il mondo  che avrebbe risolto anche la questione ambientale.  Nonostante gli ammonimenti dei più avvertiti è in questo snodo che si istituisce quella sorta di equivoco, non del tutto innocente, che apparenta i termini sviluppo e crescita economica. Lo sviluppo sostenibile non è una teoria scientifica, quindi falsificabile in senso popperiano, quanto piuttosto un programma per il governo globale del pianeta, per la sopravvivenza della specie e della natura sulle scale globale e locali,  basato  sui Principi di Rio e su Agenda 21 e i suoi ripetuti aggiornamenti.

Dopo il 1992 è accaduto che i paesi dell'Est, senza più comunismo, si sono rapidamente impoveriti, i processi della globalizzazione dell'economia hanno scavato un solco incolmabile tra ricchi e poveri del mondo, l'ambiente ha continuato a degradare sotto la spinta di pressioni antropiche crescenti, il Nord ha negato al Sud  i promessi aiuti allo sviluppo. Per loro conto la Cina, governata da un comunismo sui generis, e l'India democratica e filo-occidentale, hanno fatto convinti tutti che intendono proseguire fermamente, e con evidente fortuna,  la loro crescita economica interna. E' accaduto anche che il modello di governo multilaterale dell'ambiente e dello sviluppo delle Nazioni Unite sia andato in crisi involutiva sotto la spinta del neo-conservatorismo nordamericano, ma anche dei propri limiti interni.

Nel 1996 nel testo "Oltre la crescita", Herman Daly, firmatario del manifesto del 73, precisa i concetti di crescita e di sviluppo con una chiarezza che oggi ancora possiamo sottoscrivere: "La potenza del concetto di sviluppo sostenibile sta nel fatto che esso riflette e al contempo richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale - un ecosistema che è finito e materialmente chiuso. La condizione per lo sviluppo sostenibile è che le richieste di tali attività nei confronti dell'ecosistema che le contiene, in termini di rigenerazione degli input di materie prime e di assorbimento di output di rifiuti, vengano mantenute a livelli ecologicamente sostenibili. Questo cambiamento di visione comporta la sostituzione del modello economico dell'espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo (sviluppo) quale sentiero del progresso futuro. A tale cambiamento si oppone la gran parte delle istituzioni economiche e politiche, che sono fondate sulla tradizionale crescita quantitativa e temono legittimamente la sua sostituzione con qualcosa di elusivo e impegnativo come lo sviluppo qualitativo ...

... C'è chi vorrebbe abbandonare del tutto il concetto di sviluppo sostenibile, argomentando che esso non aggiunge nulla alla teoria economica standard ed è troppo vago per avere alcuna utilità. Ma la maggior parte dei concetti importanti non è soggetta a una definizione analiticamente precisa - si pensi per esempio a democrazia, giustizia, o benessere. I concetti importanti sono più dialettici che analitici, nel senso che hanno sfumature che si sovrappongono parzialmente al loro opposto. Se tutti i nostri concetti fossero analitici non potremmo trattare il cambiamento e l'evoluzione. Specie analiticamente definite non potrebbero mai evolvere, se le loro qualità non sfumassero mai, in alcun modo, nel loro opposto. Tutti i concetti importanti hanno contorni dialetticamente vaghi. Quello di "sviluppo sostenibile" è un concetto economico chiaro ..."

Di crescita si parla in molte altre vicende, non solo in economia. Cresce la popolazione mondiale, cresce la scienza e con essa il livello della conoscenza e delle tecnologie. L'efficienza dello sfruttamento dei processi e delle risorse cresce in maniera sensibile. Cresce lo scambio delle comunicazioni e delle informazioni grazie a innovazioni rivoluzionarie nei settori della telematica. Cresce, sia pure in modo diseguale, l'accesso ai processi formativi ed alla cultura. Cresce il ruolo delle realtà locali e del territorio. Nel mondo scientifico è aperta la discussione sulla compatibilità tra queste dinamiche, che sono molto spesso impressionanti come mostrano gli indicatori demografici, dei consumi, dei redditi, delle emissioni, dei rifiuti, della circolazione del denaro e dell'informazione, con un mondo fisico di dimensioni finite, con una natura che ha bisogno di equilibri e di stabilità, con uno stock di risorse naturali in esaurimento irreversibile, che ha dovuto sostanzialmente rinunciare all'esplorazione dello spazio ed a ricavare energia dalle trasformazioni nucleari della materia.

Gran parte della discussione tra gli ecologisti si è svolta a partire da una rilettura in chiave economica delle leggi della termodinamica che pongono le basi del concetto della irreversibilità delle trasformazioni dell'energia. Tale lettura da parte degli economisti e dei sociologi, certamente importante, non è sempre rigorosa,  ed è entrata in una parte del pensiero ecologico dando luogo a taluni esiti, che ripropongono in chiave movimentista e minoritaria, la decrescita dell'economia come via obbligata per un futuro possibile. La tematica della decrescita, di origine transalpina, ha occupato certi spazi in Italia, soprattutto per iniziativa della sinistra radicale. Si tratta di una moda con radici poco profonde, giustificata da una vocazione identitaria di tipo ambientalista non ben radicata nella storia del movimento. Tramonta sotto i colpi della crisi economica che abbatte la crescita ma con essa anche l'occupazione ed il benessere della gente.  Ebbe una certa eco il Manifesto per la decrescita felice del 2004, che contiene un attacco esplicito allo sviluppo sostenibile. La decrescita, secondo i promotori, "... comporta una diminuzione del prodotto interno lordo, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture. La sua prospettiva è opposta a quella del cosiddetto sviluppo sostenibile, che continua a ritenere positivo il meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a proporre di correggerlo con l'introduzione di tecnologie meno inquinanti e auspicando una sua estensione, con queste correzioni, ai popoli che non a caso vengono definiti sottosviluppati. ... Questa prospettiva comporta che nei paesi industrializzati si riscoprano e si valorizzino stili di vita del passato, irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione del progresso ..."

(1) Per massima chiarezza proviamo ad applicare la logica formale alla proposizione "sustainable development". Secondo la logica del primo ordine o logica dei predicati, nella suddetta proposizione il predicato è la sostenibilità. Ciò ci consente di applicare tale predicato ad una o più variabili:

sustainable (x,y,z, ...)

e di istanziare tali variabili in vario modo, come nella pratica corrente:

    sustainable (development,growth,energy,transport, ...)

Se per alcune almeno delle istanze la proposizione è vera, lo sviluppo sostenibile non è un ossimoro. In tal caso si potrà scrivere:

 $(x) sustainable (x)

Ne consegue che la verità della proposizione è funzione delle proprietà della variabile e delle sue istanze. Posto che si possa sostenere, come fanno i teorici della decrescita,  che sustainable(growth) è una proposizione sempre falsa, per qualsiasi istanza della crescita, per scrivere che:

"(development)   NOTsustainable(growth) → NOTsustainable(development)

dal momento che development e growth non sono proposizioni logiche (vere o false) ma oggetti istanze di variabili, occorrerebbe assumere che i due termini siano sinonimi (intercambiabili), proposizione certamente falsa, che abbiamo escluso anche in base alle definizioni di Daly.

 

In preparazione del Convegno del 2003 sono stati selezionati materiali utili per la discussione, già peraltro elencati e linkati nella bibliografia generale dello sviluppo sostenibile.

 

 

 

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