RIFLESSIVITà NEL DOMINIO PUBBLICO
seconda modernità, beni comuni e diversità sociale
di Carlo Donolo; Rivista delle politiche sociali 2/Aprile-Giugno 2006
“ … costruiamo il dominio pubblico come l’ambito nel quale beni vengono prodotti, circolano e si riproducono in modo allargato acquisendo almeno in alcuni passaggi lo status di beni pubblici o comuni … ma sappiamo che il dominio pubblico è sotto assedio: dalle pretese di appropriazione privata di beni, da monopoli della comunicazione, da secessioni normative, da tutte le forme della sregolazione … alla fine, la riflessività come ogni forma di intelligenza dipende dalla ricchezza delle risorse comuni disponibili”
1. evoluzioni della riflessività
3. varietà per la riflessività
Non si
è mai dubitato che per la sua stessa sussistenza la sfera pubblica
richiedesse riflessività nei processi sociali. Allo stesso modo, nella
polis, nella res publica romana e poi christiana, nella repubblica di
Machiavelli come nel Leviatano di Hobbes si è sempre presupposto sia il
dato di un bene comune costitutivo, sia l’esistenza di un luogo della
riflessività per deliberare su di esso. Questo poteva essere posto nello
stesso corpo sociale (al modo di Althusius e poi di Rousseau)
o delegato ad un organo specializzato, il sovrano più o meno
monolitico inteso come mente della società. Con la modernità l’accento
è stato spostato sempre più in direzione di un presupposto sociale,
morale e cognitivo della riflessività sociale: l’individuo autonomo
agente nel ruolo di cittadino. La riflessività restava sociale, anzi
assumeva un carattere ancor più sociale e collettivo, ma la comunicazione
era imperniata sulle capacità linguistico-cognitive di soggetti
emancipati (come definitivamente fissato da Kant). La riflessività sociale consisteva nella razionalità della
comunicazione tra menti intelligenti e responsabili.
Si deve
notare la inerenza reciproca di sfera pubblica, bene comune e
deliberazione razionale. Non si da l’uno senza l’altro, almeno dove ci
sono cittadini. In ogni altro caso abbiamo invece forme di paternalismo più
o meno autoritario e più o meno benevolente, in cui il soggetto non deve
riflettere, ma affidarsi. Sui presupposti classici ritorna in sostanza
Habermas, con gli arricchimenti derivanti
dalla svolta linguistica e interattiva sintetizzati nella formula
dell'agire comunicativo. Ma nel corso della prima e seconda
modernizzazione si sono andati accumulando i dubbi sulla tenuta di quella
triade fondante. Ciascun
membro è stata sottopposto a decostruzione e a verifica empirica.
Infatti, le tre nozioni erano state assunte storicamente in senso
consapevolmente normativo. Ma, sulla base di una qualche filosofia della
storia evolutivamente ottimistica, il normativo poteva essere visto anche
come la descrizione di stati del mondo non ancora reali, ma comunque
accessibili e forse a portata di mano. Inequivocabile sembrava la tendenza
verso il radicamento sociale e la stabilizzazione istituzionale di quel
nesso.
Sebbene,
già nell’800 e ancor più nel nichilismo novecentesco, vi fosse la
compiaciuta constatazione del teorema di impossibilità di quelle tre
forme sociali coniugate (forse più tramite Schopenhauer che Nietzsche,
come nel Mann delle Considerazioni
di un impolitico), sono state le esperienze storiche del ‘900 a
mostrare che il mutamento sociale e il processo di civilizzazione non
garantivano la tenuta di quegli assunti normativi. Proprio
nell’interesse del progetto illuministico e progressivo è bene
ripensarli. Non è quello che intendo fare qui, dove mi limito a segnalare
alcuni passaggi di un’argomentazione sociologica al riguardo. Do per
scontato che in società plurali e differenziate sia difficile
rintracciare tramite una riflessività collettiva un bene comune, e che la
stessa nozione di ciò che è pubblico, ovvero rilevante per la vita
collettiva e quindi legittimo oggetto di comuni preoccupazioni, è
diventata problematica e sfuggente. Almeno la coscienza collettiva fatica
ad aderire a queste nozioni, e si accontenta per lo più di vedere la
somma degli interessi come l’interesse generale.
E’
indubbiamente così, pur in presenza di un evidente paradosso: una società
diventata più complessa (ci riferiamo qui solo all’Occidente, perché
altrimenti il tema diventa intrattabile, si veda però Sen 2005) è una
società – per definizione – che ha più cose in comune
necessariamente di qualunque altra formazione storica precedente. Gli
imperativi sistemici, i vincoli, le interpenetrazioni, sono tali che
certamente vi è, anche se non rappresentabile, un bene comune, non
normativo ma anche semplicemente descrittivo di stati del mondo
indispensabili per la sussistenza. Allo stesso modo, ci si può chiedere
come sia possibile una società della conoscenza, basata su scienza
e tecnica, senza una sfera pubblica che elabori e discrimini, verifichi e
stimoli. Si può dire che questa contraddizione tra presupposti sempre più
complessi della vita e dell’ordine sociale e vari processi e forze
riduttivi definiscano lo stato attuale della società ipermoderna. Così
bene comune (inteso come sintesi dei presupposti socialmente necessari),
sfera pubblica (come luogo della decifrazione del rapporto tra mezzi e
fini nel garantire la reale disponibilità di un crescente catalogo di
beni) e riflessività (come capacità istituita di “chiudere il
cerchio” dei piani individuali e collettivi): tutte sono esposte al
riduzionismo ben descritto come flatlandia (cfr. de Leonardis 2006).
Qui però
ripercorro brevemente solo un punto. La riflessività è affidata dal
moderno al soggetto portatore di diritti. Poiché empiricamente il
soggetto non è del tutto emancipato, ci si affida a un processo di
apprendimento e maturazione (ripeness
is all, e Schiller traduce: reif werden
ist alles). Si chiama individuazione. Giusnaturalisticamente, si nasce con
una dote di diritti naturali (la prima affermazione costituzionale sta
nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776), ma individui si diventa
tramite l’esercizio di tali diritti. All’inizio essi sono solo una
“dote”, una protezione, un potenziale d’azione. Quindi diventa
importante il processo di socializzazione
come Bildungsprozess. Non
a caso tema di tanti romanzi del ‘700 e ‘800 (sul tema Moretti 1999, e
naturalmente lo studio di Benjamin sulle Affinità elettive).
La maturazione avviene nelle “formazioni sociali” (come dice la
nostra Costituzione), naturali (o così dette) ed artificiali, dentro le
varie personae fictae in cui si opera come attori sociali. In prospettiva
normativa, si presuppone che tale sviluppo comporti una crescita delle
capacità cognitive ed affettive: educazione sentimentale e acquisizione
di competenze. Al centro è l’individuo che cresce e si porta
progressivamente al livello di complessità (nella mente) della realtà
sociale circostante. Vi deve essere un certo equilibrio tra i due ordini
di complessità: quello della mente e quella sociale. Tante dispute
ottocentesche e posteriori sui diritti politici vertevano su questo punto
delicato. In genere con una preferenza per una riserva dell’intelligenza
della complessità in termini cetuali e sessisti.
Se il
processo formativo funziona l’individuo diventa persona (secondo una
terminologia di origine antica, ma in effetti cristiano-moderna). Il
termine è impiegato anche nella nostra Costituzione, come è noto. Quindi
abbiamo un individuo socializzato e capace in quanto divenuto sociale. Due
fattori sembrano decisivi: i processi di apprendimento (a partire dalla
scolarizzazione) e la rete sociale di riferimento: in altri termini: il
capitale umano e quello sociale disponibile all’individuo (Coleman
1990). Da qui riparte non a caso la proposta di Sen sui funzionamenti e le
capabilities. Nei processi di
apprendimento, ai fini di una maturazione individuale in rapporto ai ruoli
e ai contesti sociali, diventa importante saper apprendere regole, ovvero
sviluppare la capacità di seguire regole[1]:
introiettare normatività per diventare autonomi. Altrettanto rilievo
hanno i contesti: ambienti e si potrebbe dire territori capacitanti o
incapacitanti[2].
Quando parliamo di ordine sociale ci riferiamo al concorso delle
varie cités (Boltansky-Chiappello
2002), come agorà e sfere pubbliche,
ai processi di maturazione. Abbiamo il sospetto che proprio nei
passaggi da una forma all’altra di modernità non funzioni (espressione
brutale) il concorso tra apprendimento individuale e sociale: le forme del
capitale socialmente utile (capitale come risorsa sociale, ma nella nostra
società necessariamente sempre anche fattore di valorizzazione e da
valorizzare economicamente) non collimano con le richieste sempre più
esigente di una seconda e terza modernità. Per una parte la società si
organizza a fare a meno di individui capaci, dall’altra l’individuo
rinuncia a diventare autonomo. Si sviluppano alternative funzionali alle
capacità umane e infine alla riflessività. Questo tema è stato percorso
in lungo e in largo da Luhmann, ed anche Parsons vi si era avvicinato.
Noi
viviamo in democrazie politiche e in economie di mercato. La democrazia
vive di riflessività, il capitalismo no, o solo in certe forme. Crescono
le organizzazioni intelligenti, che apprendono, ma il destino degli
individui dentro tali organizzazioni è stato descritto come alienazione.
Diciamo in una formula certo bisognosa di qualificazioni: al capitalismo
serve una riflessività che possa essere “utile”, non la “chiusura
del cerchio”. In sostanza, un fattore essenziale perché vi sia sfera
pubblica viene indebolito. Era stato constatato sia dalla sociologia
conservatrice à la … che da quella critica tipo Adorno-Riesman.
L’individuo massa non cessa di essere un ente morale, ma diventa
incapace di apprendere, piuttosto sviluppa grandi abilità adattive. Senza
entrare in dettagli, cosa impossibile su un simile terreno, arrivo già
alle conclusioni: le premesse emancipatorie relative all’individuo
sociale in quanto capace di riflessività si basavano su assunti
antropologici e su filosofie delle storia che non sono stati confermati.
Dobbiamo riprendere un filo che parte da un’antropologia negativa,
invece che positiva (Adorno 1969), dalle reali difficoltà di maturare. La
società della conoscenza, per prendere il punto di massimo sviluppo,
produce e richiede o presuppone sia ottundimento che abilità, molto
adattamento e flessibilità, poco capacità di dire di no. Certo
l’Italia probabilmente presenta il massimo spreco dell’intelligenza
(tra salari di fame ai lavoratori dell'’intelligenza, fuga dei cervelli,
costante flusso migratorio di giovani scolarizzati dal Sud al Nord, e
stato deplorevole sia fisico che morale di tutte le istituzioni del
sapere). Ma in forme più sublimi lo scarto tra intelligenza possibile
come ragion pratica sociale e domanda sociale di capacità aumenta proprio
nella società della conoscenza. Forse un segno anche nei movimenti
francesi delmarzo-aprile 2006.
Arrivo
al dunque dicendo che la riflessività ha un fondamento insicuro
nell’individuo o persona, e che si stanno sviluppando forme alternative
di riflessività a prescindere. Vediamo un po’ queste protesi della
riflessività sociale. Vengono in mente termini come: sistema,
istituzione, organizzazione, rete. Si tratta di costrutti sociali che
corrispondono a tipi diversi di razionalità: autoconservazione,
normatività e ordine, efficienza e comunicazione interattiva,
rispettivamente. La riflessività sociale passa indubbiamente attraverso
canali di questo tipo che prescindono, a un certo punto, dal riferimento a
soggettività empiricamente date. Queste sono piuttosto risorse nella
macchina. Come è noto, soprattutto Luhmann ha molto insistito su questo
aspetto. E su quello correlato: dove viene meno la capacità riflessiva
del soggetto può subentrare un sostituto funzionale a carattere
artificiale, intelligenza del sistema uomo-macchina. La complessità crea
ordine dal caos anche senza interventi deliberati e riflessivi. Nella rete
si ha attualmente il potenziamento di questa possibilità, dato che
rilevanti non sono i singoli nodi, ma la ragnatela complessiva che viene
intessuta (Barabási 2004).
La
ragione principale di questa evoluzione qui solo accennata (rinvio a
“Reti come beni comuni”, in corso di pubblicazione su parolechiave)
è che la complessità ambientale supera di molto le capacità (ma anche
la complessità interna) della mente del soggetto. Perciò solo istanze
sociali più artificiali, intricate e policontestuali possono farvi
fronte. Il tema è al centro delle analisi di Teubner (Teubner 2003). E’
difficile però che l’individuo non si senta ancor più sperduto in
questo groviglio e non vada alla ricerca di grandi semplificazioni:
religiose, ideologiche o anche solo asociali (come tentativo di distaccare
la propria esistenza da connessioni troppo impegnative; da qui la
fenomenologia del privatismo, la centralità dei diritti proprietari, il
ruolo del consumo, le forme del narcisismo di massa ed altro ancora). Una
delle implicazioni poco indagate di questa recessione e secessione del
soggetto (variamente decantata nel decostruzionismo apologetico del
postmoderno) è che la combinazione tra opacità sociale (Habermas) da
complessità e riflessività sociotecnica indebolisce la comunicazione
pubblica e quindi l’individuazione dei beni-presupposto indispensabili.
Alla fine lo stesso universo dei commons appare oscurato e con ciò la
stessa ri-costruzione deliberata dell’ordine sociale.
Tuttavia,
non si tratta di tendenze univoche. Restano ancora possibili coalizioni
tra intelligenza di attori e intelligenza di processi (che è una
possibile definizione dell’agire in rete o della rete come attore
collettivo; cfr. Perulli 2000 e le analisi di M. Castells). Le potenzialità
emancipatore e riflessive di Internet non possono essere sottostimate,
come mostra anche il conflitto sui diritti proprietari in materia di
conoscenza (cfr. il sito di creative
commons). E perché queste coalizioni della ragione contro
l’oscurantismo dei riduzionismi, fondamentalismi, e dei vari pensieri
unici abbiano un qualche successo, sempre più rilevante diventa la varietà
delle risorse istituite per la riflessività sociale (societaria si
dovrebbe dire). Anche solo dentro la politica non basta più la classica
divisione del potere o il pluralismo dei programmi in competizione. Né
l’una né l’altro garantiscono un processo riflessivo adeguato, e
infatti se ne ha una prova sia nell’entropia
della democrazia di fronte ai grandi temi epocali: crisi ambientale,
Nord-Sud, confronti di civiltà, ecc.), sia nelle attuali difficoltà del
processo di unificazione continentale in Europa.
Certamente
riflessività richiede varietà istituzionale, e viceversa. Registriamo
uno spostamento dal soggetto al costrutto, e si dovrebbe verificare se una
“nuova alleanza” sia possibile tra queste forme della riflessività.
Dobbiamo considerare però qualche altro aspetto prima di poter dire
qualcosa sul lavoro reciproco di riflessività e varietà.
Certamente
non vi è nulla di sostanzialistico nelle cose che consideriamo pubbliche.
Dipende dalla loro posizione nei processi sociali e dal modo in cui
costruiamo il mondo della vita. Ci sono anche opzioni valoriali, ma non
metterei l’accento su esse. Piuttosto sullo sguardo lungo o corto, sui
frames cognitivi usati, sul tipo di giochi che riteniamo appropriati ed
essenziali. Il riconoscimento di una sfera pubblica in cui si muovono
attori con effetti pubblici tramite un universo di beni comuni richiede
una prestazione cognitiva. Così è da quando siamo usciti da società in
cui sociale, politico e civile coincidevano. Dopo di allora (dopo l’era
del contratto sociale), l’ordine sociale è un costrutto deliberato, così
come l’ordinamento normativo dentro il quale vengono collocati in
posizione di rilievo i beni pubblici. In definitiva saranno le
costituzioni a dircelo. In più il conflitto sociale e politico, le lotte
per l’egemonia, lo stesso progresso tecnico-scientifico incidono
direttamente sugli statuti delle cose sociali, mutando regole, standard e
funzioni. Così anche il discrimine tra bene privato e pubblico, stato e
mercato, interesse pubblico ed interesse collettivo (di un gruppo
significativo della società).
Quando
poi la conoscenza, i saperi per fare su base scientifica, diventano
costitutivi non solo del motore del cambiamento e dell’accumulazione, ma
per la stessa costituzione dei soggetti empirici e poi anche dei costrutti
sociali e sociotecnici, il pubblico perde definitivamente connotati
legati alla “natura” della cosa (un naturalismo in cui ricade sempre
l’economia politica quando definisce i beni in base a loro presunte
caratteristiche intrinsiche) e diventa una costruzione deliberata. Essa
dipende dal grado di intelligenza sociale che abbiamo della posta in gioco
con la cosa: si tratti di beni ambientali e culturali, di conoscenza
circolante in rete, di capitale sociale o di normatività. Anche perché
gli oggetti cui assegnare lo status sono sempre più artificiali e
virtuali, un prodotto meglio opera del lavoro umano. Risultano da
interazioni (azioni secondo Arendt), da progetti, procedure, standard
setting e decisioni giurisdizionali. Con ciò il bene diventa anche più
astratto, più sfuggente, fluttuante, ed anche meno facilmente
riconoscibile. Di ciò approfittano i rent seekers dell’opacità sociale.
Costruiamo
il dominio pubblico come l’ambito nel quale beni vengono prodotti,
circolano e si riproducono in modo allargato acquisendo almeno in alcuni
passaggi lo status di beni pubblici o comuni. Tutto quanto attiene alla
conoscenza e alla comunicazione è
parte essenziale di questo ambito, per il valore sociale intrinseco di
tali beni e per il fatto che essi ormai sono la risorsa principale per
qualunque altro processo di valorizzazione e trasformazione. La conoscenza
in comune è la base della riproduzione sociale. Le asimmetrie informative
sono causa non solo di fallimento del mercato, ma anche del regime
democratico. Esse in campo economico sono ammissibili solo per brevi tempi
e secondo regole certe. Altrimenti generano abusi, posizioni dominanti e
perdite di competitività. Soprattutto non sono ammissibili regimi
regolativi protezionistici dell’asimmetria che ostacolino processi di
capacitazione. Infatti, questa è l’unica vera fonte del valore, la
forma attuale del lavoro come base di legittimazione anche di limitati
diritti proprietari (sul tema cfr. Rullani 2004 e 2004b).
Il
dominio pubblico è il luogo dove si può svolgere – in presenza di
distribuzioni non marcatamente asimmetriche delle risorse – il Diskurs
habermasiano (che quindi non ha solo una componente discorsiva, ma anche
duri presupposti materiali e giuridici (sul punto accenni in Donolo
1997b). Tutte le teorie della giustizia, ed anche le strategie
argomentative della justification (Boltanski-Thévenot 1991), girano intorno alla genesi
del dominio pubblico: da una parte, presupponendolo come condizione
dell’agire comunicativo (in verità anche di quello strategico),
dall’altra mostrando come solo per suo tramite possano essere generate
condizioni giuste ed elaborati criteri condivisi di giustificazione. Nel
dominio pubblico circolano informazioni, conoscenza, frame, enciclopedie
di motivi per agire e specifiche risorse comunicative che permettono un
agire dotato di senso. Dovrebbe essere possibile mostrare che quel tanto
di individuazione che riesce e non degrada in forme di autoreferenzialità
narcisistica è possibile solo in contatto con il dominio pubblico (come
hanno mostrato Erikson, Wright
Mills, Keniston, Bellah). Esso è fonte della normatività condivisa,
tanto che l’obbedienza intelligente (Conte 2001, Donolo, Su
ponti) è possibile solo ipotizzando un contatto – anche solo
virtuale – con essa.
Ma
sappiamo che il dominio pubblico è sotto assedio: dalle pretese di
appropriazione privata di beni, da monopoli della comunicazione, da
secessioni normative, da tutte le forme della sregolazione. Stato di
diritto e regime democratico lavorano per la correzioni degli abusi, ma
naturalmente, a causa dei loro deficit e per le stesse insufficienze della
sfera pubblica, non sempre vi riescono e spesso vi aggiungono deformazioni
proprie. I deficit del dominio pubblico hanno un immediato rilievo per la
riflessività socialmente possibile. Ed anche per quella del soggetto
individuale. Beck ed altri vorrebbero giustamente una modernità
riflessiva, anzi più riflessiva di prima, perché storicamente è
cresciuta la complessità da governare. Ma abbiamo visto che non possiamo
del tutto contare sulle prestazioni di un ipotetico soggetto morale, nel
suo isolamento, nel suo foro interno, come si diceva. Inoltre ci rendiamo
conto delle difficoltà di una riflessività “di dominio pubblico”.
Ritorna la folla solitaria, e con essa la nostalgia di epoche più
“repubblicane”, anche se forse sono solo proiezioni su un passato
idealizzato.
Molto
allora si gioca nel soggetto in rete. Se intendiamo la rete come
connessione, ibridazione, policontesto, per usare un’espressione di
Teubner. Occorre però
leggere la rete non secondo il frame del mercato (come serie indefinita di
scambi e transazioni), ma secondo la razionalità delle organizzazioni
complesse, che sono tali in quanto sono un multiversum, una babele
linguistica che attende alla propria autodecifrazione (per
un’interpretazione della città contemporanea in questa ottica cfr.
Donolo 2005a). Rete vorrà dire organizzazione razionale, mercato, agorà,
contratto e institution building, non solo come stadi o fasi operative
distinte, ma come compresenza efficace. I soggetti se immersi in questo
tipo di ambiente vedono crescer le loro competenze comunicative ed
operative, e non possono cavarsela senza un incremento della riflessività,
ritrovando un certo grado di adequatio
tra mente e ambiente in termini di complessità. Ma si tratta più di
un potenziale che di una realtà acquisita. Dato che anche le reti sono
sotto attacco esattamente delle forze che assediano il dominio pubblico.
Questo del resto, dopo aver assunto storicamente la forma della piazza
come luogo fisico della confluenza di menti (così ancora nei comuni
tardomedievali, modello del “momento repubblicano” secondo Pocock e Q.
Skinner, o Pettit), è diventato luogo-tempo virtuale, quindi nomadico,
tra blog, collegi invisibili, comunità
virtuali e età dell’accesso. La sua natura reticolare lo rende molto
resiliente, ma anche fragile, autopoietico, ma continuamente oscillante.
Nel dominio viaggiano opinioni e saperi, preferenze e gusti, emozioni e
algoritimi (sul loro intreccio in processi di planning cfr. Belli 2004).
Come nel governo dei beni comuni, abbiamo una lotta (struggle, Ostrom), non una soluzione o un equilibrio. Non possiamo
essere certi che la seconda modernità guadagni riflessività nella misura
e nei tempi necessari. Il lavoro della riflessività sociale consiste
precisamente nel trasformare la tragedy in dramma e di mantenere in
costante movimento il dominio pubblico. Ciò presuppone soggetti capaci à
la Sen, un universo di libertà positive, generative a loro volta di
ulteriori capacitazioni. Detto in parole gergali suona chissà che, ma si
tratta della riformulazione di un programma umanistico (sul punto cfr.
soprattutto Nussbaum 2003), di una paideia collettiva, che suppone che la
storia non sia finita, malgrado i tanti becchini al lavoro.
A
questo punto possiamo tornare sulla questione della varietà
(istituzionale) in rapporto alla riflessività. Non sono in grado di
trattare l’argomento, molto differenziato, se non in formato zippato.
Spero almeno che la frugalità del testo aiuti il lettore a fissare gli
elementi essenziali per una riflessione comune.
Sappiamo
che normatività, riflessività dell’attore, apprendimento, sono
interconnessi. Possiamo aggiungere che solo in presenza di una sufficiente
o soddisfacente varietà di semantiche, principi costitutivi e di
ordinamenti differenziati, tutto ciò è possibile. La riduzione della
varietà riduce quindi l’ambito dell’apprendimento possibile,
depaupera il capitale sociale, riduce i motivi per l’azione, alla fine
gli spazi di libertà e di autonomia.
C’è
o ci sarebbe varietà se ci fosse un effettivo pluralismo dei principi
organizzativi dell’azione sociale, se tra tali principi ci fossero
limiti mobili[3]
e in parte definiti in via competitiva, se la pluralità e la varietà
fossero in funzione principalmente del potenziamento delle capacità
individuali e collettive che sono la risorsa cardine per la crescita, lo
sviluppo, la sostenibilità e la competitività globale. Per varietà
istituzionale intendiamo, quindi, la genesi e stabilizzazione di principi
organizzativi differenti (una differenza che faccia differenza, secondo
l’espressione di Bateson), tali che la riproduzione (e l’ordine)
sociale venga a dipendere più dalla disponibilità di tale varianza e
dalle forme di cooperazione tra principi distinti ed anche formalmente
avversi, che dalla riduzione ad unum, ovvero dall’affermazione di un
unico imperativo che elimina tutti gli altri3.
Si noti che la varietà solo con
il moderno diventa principio costitutivo dell’ordine sociale.
tali principi sono - con lo sviluppo della divisione del lavoro
sociale - incorporati in sottosistemi, tipi di organizzazione, assetti,
ordinamenti, campi ed arene chiaramente distinti e ricostruibili a partire
appunto da principi organizzativi differenziati.
dentro questi ambiti si sviluppano e cristallizzano habitus
corrispondenti e quindi disposizioni ad agire per attori individuali e
collettivi e/o culture organizzative ed istituzionali distinte.
nelle società complesse la varietà così intesa è
costituzionalizzata e le sue espressioni sono istituite; la varietà
diventa norma e le sue espressioni hanno valore normativo almeno nei
limiti del campo di riferimento. La varietà è istituita e istituente.
la varietà stessa organizza una divisione del lavoro più o meno
cooperativa tra principi, campi e habitus; da queste configurazioni
dipende sia la natura della crescita che la qualità del legame sociale.
la varietà come principio costituivo e costituzionale è un bene
comune; inoltre ha nessi, in gran parte da ricostruire, con l’universo
dei commons, dai quali dipende e che alimenta5.
il conflitto tra tipi è governato dal criterio-guida o imperativo
della varietà stessa; l’esito del conflitto deve essere un incremento
della varietà, non la sua riduzione.
dal punto di vista fenomenologico è possibile distinguere la
varietà come differenza dalla varianza o variabilità che è variazione
di uno stesso principio organizzativo. Per l’ordine sociale solo la
prima è rilevante e può ben essere in conflitto con la varietà
apparente.
la varietà istituzionale corrisponde
a tipi di razionalità sociale.
è possibile costruire indicatori della varietà.
nella società della conoscenza la varietà ha una forte componente
cognitiva e pragmatica; ci sono qui le condizioni per un rapporto
riflessivo privilegiato con la varietà.
A
partire da quanto detto nei paragrafi precedenti, si intende che la varietà
è minacciata allo stesso modo in cui lo è il dominio pubblico e la
riflessività. E appunto dalle stesse forze. Il paradosso ora è che
mentre la società complessa richiede ed è in grado di produrre più
varietà, è costretta a convivere con potenze riduzionistiche, le stesse
che degradano i beni comuni. Ma cosa perdiamo quando perdiamo varietà?
Ecco un possibile elenco non esaustivo:
perdita di ricchezza informativa nella formazione delle
preferenze
perdita di prospettiva temporale
perdita di senso del limite o del principio responsabilità
perdita di motivi per agire
perdita di ridondanza nell’organizzazione dell’azione
sociale
perdita di fattori dell’ordine sociale
sostituzione di processi sociali riflessivi con sistemi
esperti
perdita di senso delle interconnessioni
perdita di varietà sostituita da proliferazione di cloni
perdita di ricchezza semantica
e quindi motivazionale
perdita di capitale sociale
sono favorite tematizzazioni non pertinenti
sono favorite soluzioni che creano problemi
viene violato il criterio della pertinenza, per esempio
nelle regolazioni
si produce ingovernabilità a causa della eccessiva
semplificazione dei processi di scelta collettiva e dell’impiego di
algoritmi decisionali non pertinenti e indifferenziati.
Proprio
queste indicazioni, ci fanno intendere meglio come la governance stessa è resa possibile solo dalla cooperazione tra forme
distinte di varietà, e che solo essa le richiede e forse contribuisce
a riprodurle. Alla fine, la riflessività come ogni forma di intelligenza
dipende dalla ricchezza delle risorse comuni disponibili. In un ambiente
complesso, varietà e riflessività si coniugano in modo più intrinseco e
stretto. E solo se le loro combinazioni avvengono nello spazio pubblico,
in condizioni tendenziali di common
knowledge, esse sono produttive di risposte all’altezza delle
domande, e perfino di soluzioni pertinenti ai problemi. Se lo spazio
pubblico è sotto assedio si impoverisce e a sua volta cessa di essere un
ambiente adatto per gli effetti moltiplicativi della riflessività e della
varietà. Quale cura per la misère du monde se non con varietà e riflessività nel pubblico
dominio? Sarà possibile tradurre queste relazioni accertate in strategie
politiche e in politiche pubbliche pertinenti? Le politiche sociali
integrate di nuova generazione hanno bisogno di simili presupposti e sono
in grado di contribuirvi? Come traslare sufficiente complessità e quindi
varietà e riflessività nella formulazione delle politiche pubbliche? O
dobbiamo rassegnarci a farci del male con riduzionismi di ogni genere,
perché la riflessività non è adeguatamente istituita? Come dice Elinor
Ostrom, il compito è sempre quello: convertire minacce in opportunità.
[1]
Si può mostrare che la violazione delle regole è socialmente spesso
connessa a una crescente incapacità
a riconoscerle come tali, ed anche a seguirle. Questa incapacitazione
si osserva spesso nelle devianze adolescenziali e nelle forme
della sregolazione sociale. Vi è poi un nesso fondante tra apprendere
regole e apprendere saperi. Per sviluppi di questo argomento decisivo
ai fini di ricostruire un’idea della riflessività come capacità
individuale cfr. Donolo 2001 e Su
ponti.
[2]
Sul tema: in ottica territorialista (“territorialità attiva”) cfr.
Dematteis-Governa, e Donolo 2006b.
[3]
Si
può rileggere qui la storia dei rapporti tra capitalismo e
democrazia. Nel capitalismo vedo il successo di una forma
organizzativa che si tende ad imporre a tutte le forme sociali,
eliminandole o funzionalizzandole. La democrazia, viceversa, è stata
la custode della varietà (in questo senso si può reinterpretare
quanto diceva Bobbio a proposito della democrazia come tentativo di
“domare il mostro”). Con la globalizzazione la lotta si riproduce
su scala globale. Si può anche dire: per preservare la varietà
occorre la crescita economica, ma la crescita riduce la varietà (epidermicamente:
mcdonaldization); il rapporto tra capitalismo e democrazia è
asimmetrico, lo è sempre stato, nel senso che la democrazia (finora)
ha bisogno del capitalismo, ma non il contrario. Questo ha bisogno
dello stato di diritto, possibilmente minimo, e magari di uno stato
mercantilista. Sappiamo che la democrazia, come garante della
riproduzione della varietà, non è compatibile con regimi di
pianificazione
autoritaria, mentre il capitalismo se la cava egregiamente con
regimi autoritari o di democrazia depotenziata. E spesso li
preferisce.
[4]
Sul
nesso beni comuni-istituzioni cfr Donolo 1997. In estrema sintesi: i
beni comuni sono i fattori costitutivi del legame sociale. Essi sono
esposti alla tragedia dei beni comuni. Le istituzioni (a partire dal
contratto sociale o costituzione) sono la “soluzione” della
tragedia. Ma le istituzioni stesse sono beni comuni e quindi
anch’esse esposte dal rischio di degrado ed overgrazing.
Ci sono beni comuni ed istituzioni (legittime ed efficaci) in quanto
la tragedia sia trattata, governata, oggetto di riflessività e
capacità negativa. Per questo processo riflessivo e ri-costituente
del legame e dell’ordine sociale è indispensabile che ci sia
(almeno) tanta requisite variety istituzionale quanta è richiesta dall’entità
della tragedia. Per questi suoi
nessi profondi con la vita delle istituzioni e le peripezie dei beni
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