"CRESCITA O SVILUPPO SOSTENIBILE?"

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Con i materiali qui proposti la Fondazione per lo Sviluppo sostenibile intende dare ulteriori elementi di approfondimento alla discussione aperta con il Convegno "Sviluppo sostenibile e seconda modernità" del 2003, i cui materiali in testo ed in video sono disponibili in altra pagina, mettendo sotto la lente di ingrandimento  il delicato nesso tra sviluppo e crescita economica. La crescita, filologicamente ridotta agli aspetti che influenzano l'indicatore del Prodotto Interno lordo, è stata fortemente rimessa in discussione come categoria guida del progresso economico e sociale. Si vedano a tal proposito i documenti  che la Comunità Europea ha prodotto sull'argomento anche in revisione del Programma di Lisbona del 2000 nel quale il sentiero per l'Europa era tracciato da una crescita tendenziale del PIL del 3% all'anno.  Il PIL non è più la categoria guida per le amministrazioni e i governi sulla base della considerazione che non è più sufficiente che i consumi crescano se essi trascinano esternalità negative che deprimono la ricchezza delle comunità ed il benessere delle persone.

Quale ruolo ha quindi la crescita nel panorama ideale dello sviluppo sostenibile? La discussione è in atto anche alla luce dei portati della crisi economica e dei costi crescenti della crisi ecologica.  La categoria dello sviluppo viene ristabilita su nuove basi concettuali e riapparentata al (per noi) antico concetto di progresso, piuttosto che alla crescita materiale pura e semplice.

Il Convegno ISSI del 2003  introduce il concetto di innovazione ecologica come chiave per una modernità nuova, ben oltre la visione della crescita lineare ed infinita della produzione e del consumo delle merci, costola comune del pensiero delle due classi, antagoniste secondo la tradizione marxiana. La seconda modernità è caratterizzata dall'assunzione di visioni nuove, non deterministiche, basate sulla consapevolezza del rischio, sulla presa d'atto della complessità, sull'accettazione dell'incertezza, sul principio di precauzione e sulla sostenibilità. Quest ultima categoria, del tutto assente nella prima modernità industriale, è il portato del pensiero ecologico e della percezione dei limiti delle risorse disponibili per alimentare l'economia e dei limiti delle pressioni che l'ambiente può tollerare senza degradarsi e degradare i servizi che rende all'umanità.

La sostenibilità non può dunque essere un aggettivo che qualifica lo sviluppo, la crescita, l'economia o la società. è invece la regola del gioco,  l'unico modo possibile di essere per tutte queste attività umane se si vuole che abbiano un futuro. La crescita economica, la crescita, come viene chiamata semplificando, è parte del gioco e deve sottostare alle regole della sostenibilità1.

La questione della crescita economica  non è certo nuova ed ha riempito di sé la storia dell'ecologia moderna tanto che per opera degli economisti più avanzati si è costituita una nuova disciplina, l'economia ecologica, importante, seguita e dotata di importanti istituzioni accademiche e riviste specializzate.

é del 1973, l'anno dopo il Summit di Stoccolma sullo "Sviluppo umano", contemporaneo alla pubblicazione de "I limiti allo sviluppo",  il manifesto di Nicholas Georgescu Roegen, Herman Daly e molti altri che invoca un'economia umana e chiede agli economisti di assumere responsabilmente la questione ecologica come parte del proprio ragionamento e delle scelte generali.

MANIFESTO PER UN’ECONOMIA UMANA

Nyach, ottobre 1973 

Nicholas Georgescu-Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly

 firmato da oltre 200 economisti fra cui Kenneth Arrow, Robert Heilbroner, Ernst Schumacher, David Pearce, Ignacy Sachs, Bertrand de Jouvenel

La proposta era partita dall’associazione internazionale “Dai Dong”, un nome che corrisponde ad un antico concetto cinese di un mondo “in cui la famiglia di ciascun uomo non è soltanto la sua famiglia, i figli di ciascun uomo non sono soltanto i suoi figli, ma tutto il mondo è la sua famiglia, tutti i bambini sono suoi figli”.  Il “manifesto” fu presentato alla riunione annuale del dicembre 1973 dell’American Economic Association, (American Economic Review, 64, (2), p. 447 e 449-450 (maggio 1974); anche in Hugh Nash (editor), Progress as if survival mattered, San Francisco, Friends of the Earth, 1977, p. 182-183).

La traduzione italiana fu fatta circolare nel novembre 1973 nel corso della riunione annuale della Società Italiana degli Economisti, a Roma, e, firmata da Gianni Cannata, Pietro Dohrn, Giorgio Nebbia, e alcuni altri; fu pubblicata in: G. Cannata (a cura di) Saggi di economia dell’ambiente, Milano, Giuffré, 1974, p. 239-244; fu ristampata in Economia e Ambiente, 2, (1/2), 70-74 (gennaio-giugno 1983) e in N. Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 207-210, e fu distribuita in occasione del seminario “Oltre l’economia”, organizzato il 7-8 ottobre 1997 dal Comitato permanente di solidarietà di Arezzo (G. N.).

Il testo è il seguente:

"L’attuale tendenza nell’evoluzione del pianeta non dipende soltanto da leggi inesorabili della natura, ma è una conseguenza delle deliberate azioni esercitate dall’uomo sulla natura stessa.  L’uomo ha tracciato, nel corso della storia, il suo destino attraverso decisioni di cui è responsabile; ha cambiato il corso del suo destino con altre deliberate decisioni, attuate con la sua volontà. A questo punto deve cominciare ad elaborare una nuova visione del mondo.

Come economisti abbiamo il compito di descrivere e analizzare i processi economici così come li osserviamo nella realtà.  Peraltro nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre più spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realtà economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche: il potere e quindi la responsabilità degli economisti sono perciò diventati grandissimi.

Nel passato la produzione di merci è stata considerata un fatto positivo e solo di recente sono apparsi evidenti i costi che essa comporta. La produzione sottrae materie prime ed energia dalle loro riserve naturali di dimensioni finite; i rifiuti dei processi invadono il nostro ecosistema, la cui capacità di ricevere e assimilare tali rifiuti è anch’essa finita.

La crescita ha rappresentato finora per gli economisti l’indice con cui misurare il benessere nazionale e sociale, ma ora appare che l’aumento dell’industrializzazione in zone già congestionate può continuare soltanto per poco: l’attuale aumento della produzione compromette la possibilità di produrre in futuro e ha luogo a spese dell’ambiente naturale che è delicato e sempre più in pericolo.

La constatazione che il sistema in cui viviamo ha dimensioni finite e che i consumi di energia comportano costi crescenti impone delle decisioni morali nelle varie fasi del processo economico, nella pianificazione, nello sviluppo e nella produzione.  Che fare? Quali sono gli effettivi costi, a lungo termine, della produzione di merci e chi finirà per pagarli? Che cosa è veramente nell’interesse non solo attuale dell’uomo, ma nell’interesse dell’uomo come specie vivente destinata a continuare? La chiara formulazione, secondo il punto di vista dell’economista, delle alternative possibili è un compito non soltanto analitico, ma etico e gli economisti devono accettare le implicazioni etiche del loro lavoro.

Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta e ad unirsi, per assicurare la sopravvivenza umana, agli sforzi degli altri scienziati e pianificatori, anzi di tutte le donne e gli uomini che operano in qualsiasi campo del pensiero e del lavoro. La scienza dell’economia, come altri settori di indagine che si propongono la precisione e l’obiettività, ha avuto la tendenza, nell’ultimo secolo, ad isolarsi gradualmente dagli altri campi, ma oggi non è più possibile che gli economisti lavorino isolati con qualche speranza di successo.

Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l’aumento dei profitti o del prestigio nazionale o le crudeltà della guerra. Dobbiamo elaborare una economia della sopravvivenza, anzi della speranza, la teoria di un’economia globale basata sulla giustizia, che consenta l’equa distribuzione delle ricchezze della Terra fra i suoi abitanti, attuali e futuri.  E’ ormai evidente che non possiamo più considerare le economie nazionali come separate, isolate dal più vasto sistema globale. Come economisti, oltre a misurare e descrivere le complesse interrelazioni fra grandezze economiche, possiamo indicare delle nuove priorità che superino gli stretti interessi delle sovranità nazionali e che servano invece gli interessi della comunità mondiale. Dobbiamo sostituire all’ideale della crescita, che è servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, una visione più umana in cui produzione e consumo siano subordinati ai fini della sopravvivenza e della giustizia. 

Attualmente una minoranza della popolazione della Terra dispone della maggior parte delle risorse naturali e della produzione mondiale. Le economie industriali devono collaborare con le economie in via di sviluppo per correggere gli squilibri rinunciando alla concorrenza ideologica o imperialista e allo sfruttamento dei popoli che dicono di voler aiutare. Per realizzare una giusta distribuzione del benessere nel mondo, i popoli dei paesi industrializzati devono abbandonare quello che oggi sembra un diritto irrinunciabile, cioè l’uso incontrollato delle risorse naturali, e noi economisti abbiamo la responsabilità di orientare i valori umani verso questo fine. Le situazioni storiche o geografiche non possono essere più invocate come giustificazione dell’ingiustizia.  Gli economisti hanno quindi di fronte un compito nuovo e difficile. Molti guardano alle attuali tendenze di aumento della popolazione, di impoverimento delle risorse naturali, di aumento delle tensioni sociali, e si scoraggiano.  Noi dobbiamo rifiutare questa posizione e abbiamo l’obbligo morale di elaborare una nuova visione del mondo, di tracciare la strada verso la sopravvivenza anche se il territorio da attraversare è pieno di trappole e di ostacoli.

Attualmente l’uomo possiede le risorse economiche e tecnologiche non solo per salvare se stesso per il futuro, ma anche per realizzare, per sé e per tutti i suoi discendenti, un mondo in cui sia possibile vivere con dignità, speranza e benessere. Per ottenere questo scopo deve però prendere delle decisioni e subito. Noi invitiamo i nostri colleghi economisti a collaborare perché lo sviluppo corrisponda ai reali bisogni dell’uomo: saremo forse divisi nei particolari del metodo da seguire e delle politiche da adottare, ma dobbiamo essere uniti nel desiderio di raggiungere l’obiettivo della sopravvivenza e della giustizia."

Al di là della questione della crescita economica e delle sue implicazioni ambientali, la traccia degli eventi che hanno caratterizzato lo sviluppo del pensiero ecologico fino ai giorni nostri è marcata senza dubbio dal concetto di sostenibilità con il quale l'ecologia esce dalle accademie per inserirsi nelle istituzioni e nella politica internazionale. Dell'espressione "Sviluppo sostenibile" si trova traccia già dal 1981 in pubblicazioni di area IUCN, ma soltanto con l'assunzione dello Sviluppo sostenibile come paradigma del modello di governance globale da parte del sistema delle Nazioni Unite, avvenuta con la istituzione della Commissione WCED (che produrrà il documento Brundtland Our Common Future) e con il susseguente Summit della Terra  UNCED (Ambiente e Sviluppo)  di Rio de Janeiro nei primi anni '90, che il termine conosce la sua massima diffusione.

La produzione intellettuale di quegli anni nell'area del pensiero ecologico  mondiale è impressionante per vastità e profondità, ma l'intellighenzia italiana resta sostanzialmente a guardare. Il muro di Berlino cade in mezzo ai due eventi citati e l'euforia conseguente può spiegare l'ottimismo forzato con cui si vive in quegli anni, alle Nazioni Unite e non solo,  una stagione di aspettative di una crescita impetuosa ed equa dell'economia in tutto il mondo  che avrebbe risolto anche la questione ambientale.  Nonostante gli ammonimenti dei più avvertiti è in questo snodo che si istituisce quella sorta di equivoco, non del tutto innocente, che apparenta il termine sviluppo alla crescita economica. Abbiamo richiamato altrove il ruolo svolto  dal saggio del Clib di Roma commissionato da Aurelio Peccei al MIT, pubblicato nel 1972 con il titolo "The limits to growth" e tradotto in Italiano col titolo "I limiti dello sviluppo", qualcosa che in inglese suonerebbe assurdo come "The limits of the development".

Lo sviluppo sostenibile non è una teoria scientifica, quindi falsificabile in senso popperiano, quanto piuttosto un programma per il governo globale del pianeta, per la sopravvivenza della specie e della natura sulle scale globale e locali,  basato  sui Principi di Rio e su Agenda 21 e i suoi ripetuti aggiornamenti.

Dopo il 1992 è accaduto che i paesi dell'Est, senza più comunismo, si sono rapidamente impoveriti, i processi della globalizzazione dell'economia hanno scavato un solco incolmabile tra ricchi e poveri del mondo, l'ambiente ha continuato a degradare sotto la spinta di pressioni antropiche crescenti, il Nord ha negato al Sud  i promessi aiuti allo sviluppo. Per loro conto la Cina, governata da un comunismo sui generis, e l'India democratica e filo-occidentale, hanno fatto convinti tutti che intendono proseguire fermamente, e con evidente fortuna,  la loro crescita economica interna. E' accaduto anche che il modello di governo multilaterale dell'ambiente e dello sviluppo delle Nazioni Unite sia andato in crisi involutiva sotto la spinta del neo-conservatorismo nordamericano, ma anche dei propri limiti interni. Si è visto alla recente COP 15 di Copenhagen 2009 dove un Presidente americano protagonista, nominalmente difensore delle prerogative delle Nazioni Unite, ha promosso quello che sarebbe stato il documento finale senza ottenere l'approvazione dell'Assemblea.

Nel 1996 nel testo "Oltre la crescita", Herman Daly, firmatario del manifesto del 73, precisa i concetti di crescita e di sviluppo con una chiarezza che oggi ancora possiamo sottoscrivere: "Sebbene vi sia un crescente consenso politico sulla desiderabilità di un qualcosa chiamato sviluppo sostenibile, questo termine - sbandierato da molti e persino talvolta istituzionalizzato - è tuttora pericolosamente vago. L'apparente concordanza maschera uno scontro su che cosa sviluppo sostenibile debba significare esattamente, uno scontro la cui posta in gioco è molto elevata.

La potenza del concetto di sviluppo sostenibile sta nel fatto che esso riflette e al contempo richiede un cambiamento potenziale nella nostra visione di quale sia il rapporto tra le attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale - un ecosistema che è finito, non crescente, e materialmente chiuso. La condizione per lo sviluppo sostenibile è che le richieste di tali attività nei confronti dell'ecosistema che le contiene, in termini di rigenerazione degli input di materie prime e di assorbimento di output di rifiuti, vengano mantenute a livelli ecologicamente sostenibili. Questo cambiamento di visione comporta la sostituzione del modello economico dell'espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo (sviluppo) quale sentiero del progresso futuro. A tale cambiamento si oppone la gran parte delle istituzioni economiche e politiche, che sono fondate sulla tradizionale crescita quantitativa e temono legittimamente la sua sostituzione con qualcosa di elusivo e impegnativo come lo sviluppo qualitativo.

L'economia dello sviluppo senza  e oltre  la crescita ha bisogno di essere progettata in modo molto più completo. Potenti interessi sono allineati nell'opposizione al cambiamento di visione e allo sforzo analitico necessari, e prevalere su tali forze richiede una profonda chiarificazione filosofica, e persino un rinnovamento etico".

Sviluppo sostenibile è un termine che piace a quasi tutti, ma il cui significato non è chiaro a nessuno. (Perlomeno suona meglio di "non­sviluppo non sostenibile"). Il termine ha assunto il rilievo di un mantra - o di una parola d'ordine - in seguito alla pubblicazione nel 1987 del rapporto della Commissione Brundtland, patrocinato dalle Nazioni Unite, "Il futuro di noi tutti", che definiva il termine come sviluppo che soddisfa le necessità del presente senza sacrificare la possibilità di soddisfare le necessità del futuro. Questa definizione, benché tutt'altro che vuota di contenuto, era sufficientemente vaga da permettere un ampio consenso. Probabilmente all'epoca fu una buona strategia politica - un consenso su un concetto vago era preferibile a un disaccordo su un concetto nettamente definito.

Nel 1995, tuttavia, questa vaghezza iniziale non è più una base per il consenso, ma un terreno di coltura per il disaccordo. L'accettazione di un termine in buona misura indefinito pone le basi per una situazione in cui chiunque riesca a legare il termine alla propria definizione vince automaticamente una battaglia politica con importanti implicazioni sul nostro futuro. C'è chi vorrebbe abbandonare del tutto il concetto di sviluppo sostenibile, argomentando che esso non aggiunge nulla alla teoria economica standard ed è troppo vago per avere alcuna utilità. Ma la maggior parte dei concetti importanti non è soggetta a una definizione analiticamente precisa - si pensi per esempio a democrazia, giustizia, o benessere. I concetti importanti sono più dialettici che analitici, nel senso che hanno sfumature che si sovrappongono parzialmente al loro opposto.

Se tutti i nostri concetti fossero analitici non potremmo trattare il cambiamento e l'evoluzione. Specie analiticamente definite non potrebbero mai evolvere, se le loro qualità non sfumassero mai, in alcun modo, nel loro opposto. Tutti i concetti importanti hanno contorni dialetticamente vaghi. Quello di "sviluppo sostenibile" è un concetto economico chiaro ..."

Di crescita si parla in molte altre vicende, non solo in economia. Cresce la popolazione mondiale, cresce la scienza e con essa il livello della conoscenza e delle tecnologie. L'efficienza dello sfruttamento dei processi e delle risorse cresce in maniera sensibile. Cresce lo scambio delle comunicazioni e delle informazioni grazie a innovazioni rivoluzionarie nei settori della telematica. Cresce, sia pure in modo diseguale, l'accesso ai processi formativi ed alla cultura. Cresce il ruolo delle realtà locali e del territorio.

Nel mondo scientifico è aperta la discussione sulla compatibilità tra queste dinamiche, che sono molto spesso impressionanti come mostrano gli indicatori demografici, dei consumi, dei redditi, delle emissioni, dei rifiuti, della circolazione del denaro e dell'informazione, con un mondo fisico di dimensioni finite, con una natura che ha bisogno di equilibri e di stabilità, con uno stock di risorse naturali in esaurimento irreversibile, che ha dovuto sostanzialmente rinunciare all'esplorazione dello spazio ed a ricavare energia dalle trasformazioni nucleari della materia.

Gran parte della discussione tra gli ecologisti si è svolta a partire da una rilettura in chiave economica delle leggi della termodinamica che pongono le basi del concetto della irreversibilità delle trasformazioni dell'energia. Tale lettura da parte degli economisti e dei sociologi, certamente importante, non è sempre rigorosa,  ed è entrata in una parte del pensiero ecologico dando luogo a taluni esiti, che ripropongono in chiave movimentista e minoritaria, la decrescita dell'economia come via obbligata per un futuro possibile.

La tematica della decrescita, di origine transalpina, ha occupato certi spazi in Italia, soprattutto per iniziativa della sinistra radicale. Si tratta di una moda con radici poco profonde, giustificata da una vocazione identitaria di tipo ambientalista non ben radicata nella storia del movimento. Tramonta sotto i colpi della crisi economica che abbatte la crescita ma con essa anche l'occupazione ed il benessere della gente.  Ebbe una certa eco il Manifesto per la decrescita felice del 2004, che contiene un attacco esplicito allo sviluppo sostenibile. La decrescita, secondo i promotori, "... comporta una diminuzione del prodotto interno lordo, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture. La sua prospettiva è opposta a quella del cosiddetto sviluppo sostenibile, che continua a ritenere positivo il meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a proporre di correggerlo con l'introduzione di tecnologie meno inquinanti e auspicando una sua estensione, con queste correzioni, ai popoli che non a caso vengono definiti sottosviluppati. ... Questa prospettiva comporta che nei paesi industrializzati si riscoprano e si valorizzino stili di vita del passato, irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione del progresso ..."

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(1) Per massima chiarezza proviamo ad applicare la logica formale alla proposizione "sustainable development". Secondo la logica del primo ordine o logica dei predicati, nella suddetta proposizione il predicato è la sostenibilità. Ciò ci consente di applicare tale predicato ad una o più variabili:

sustainable (x,y,z, ...)

e di istanziare tali variabili in vario modo, come nella pratica corrente:

    sustainable (development,growth,energy,transport, ...)

Se per alcune almeno delle istanze la proposizione è vera, lo sviluppo sostenibile non è un ossimoro. In tal caso si potrà scrivere:

 $(x) sustainable (x)

Ne consegue che la verità della proposizione è funzione delle proprietà della variabile e delle sue istanze. Posto che si possa sostenere, come fanno i teorici della decrescita,  che sustainable(growth) è una proposizione sempre falsa, per qualsiasi istanza della crescita, per scrivere che:

"(development)   NOTsustainable(growth) → NOTsustainable(development)

dal momento che development e growth non sono proposizioni logiche (vere o false) ma oggetti istanze di variabili, occorrerebbe assumere che i due termini siano sinonimi (intercambiabili), proposizione certamente falsa, che abbiamo escluso anche in base alle definizioni di Daly.